Un dovuto omaggio alla dea polifonia
Fa indubbiamente piacere quando un giovane artista decide di registrare un disco le cui finalità non sono tanto quelle di offrire un prodotto musicale di piacevole ascolto, ma ponendosi un obiettivo del tutto diverso, quello di essere un veicolo che possa far capire meglio a chi ascolta determinati aspetti della musica colta occidentale, quasi con un intento, per così dire, “didattico”. Oggi come oggi, in quest’epoca che mira solo all’immediato, al tutto-e-subito, all’informazione spicciola, quando va bene, al mordi e fuggi in ambito culturale, proporre una registrazione discografica come ha fatto il giovane pianista castiglionese Paolo Rinaldi, dedicata alla grande arte della polifonia, significa avere un grande coraggio e soprattutto una lucidità intellettuale che mira a sfidare le convenzioni attuali, perfino nel campo della musica classica, in cui si cerca di guadagnarsi la pagnotta con altri strumenti e con altri sistemi, a volte a dire il vero assai discutibili.
Ma quando, come nel caso del trentenne Rinaldi, si presenta un programma che, attraverso Bach, Beethoven, Busoni, Brahms e Dallapiccola, intende far comprendere la grandezza della polifonia, le sue prerogative, i suoi sviluppi, attraverso la lettura di brani squisitamente mirati, allora non si può fare a meno di togliersi il cappello e ricordare quanto mormorò l’ormai vecchio Toscanini quando nell’aprile 1952, dopo aver ascoltato provare i giovani Musici di Roma, mormorò commosso: «No, la musica non muore… ». Ecco, anche con un artista come il giovane pianista mantovano si può ancora sperare che la musica non muoia, quella musica che non deve tanto allietare (prerogativa, questa, oggigiorno imperante), quanto insegnare nel senso platoniano del termine, ossia sublime strumento di elevazione, di percezione, di acquisizione di noi stessi e di ciò che ci circonda. E ciò può avvenire soprattutto grazie anche alle peculiarità di una musica la cui essenza e ragion d’essere sia votata al principio della pura astrazione, come appunto accade con quella che dev’essere considerata la più grande conquista artistica dell’uomo, la polifonia.
E quando si parla di polifonia, della sua massima espressione, sia come risultato finale, sia, soprattutto, come sua intenzionalità compositiva, il pensiero non può che andare al sommo Kantor, il quale giustamente da Rinaldi viene preso a modello, punto di partenza sublime per dare vita a un viaggio iniziatico di oltre settanta minuti, ossia a quanto ammonta la durata di questo CD che porta l’emblematico titolo di The Art of Polyphony - Bach Influences across the Centuries, pubblicato dalla Da Vinci Classics. Un viaggio che prende le mosse dal genio di Eisenach con la Toccata in mi minore BWV 914, proseguendo con la Fantasia e Fuga in la minore BWV 904 e con il Preludio e Fuga in do maggiore BWV 846, esemplari fondamenta dalle quali l’edificio costruito da Rinaldi si innalza con quel mistero che è la Sonata in do minore n. 32 op. 111 di Beethoven (andate a leggervi quanto scrive Thomas Mann a tale proposito, sotto l’influsso di Theodor Wiesengrund Adorno, attraverso Adrian Leverkühn nelle pagine del Doktor Faustus), per poi erigere nuovi piani con il prodigioso filtro/sviluppo che Ferruccio Busoni fece del Corale Preludio in fa minore Ich ruf zu dir e del Corale Preludio in sol minore Nun komm, der Heiden Heiland di Bach, effettuando una fermata di posta con lo Scherzo in mi bemolle minore op. 4 del diciottenne Johannes Brahms e finendo con l’implacabile logica degli undici pezzi che compongono il Quaderno musicale di Annalibera di Luigi Dallapiccola. Un viaggio che colma uno spazio temporale che va dal 1708 fino al 1952, quasi due secoli e mezzo in cui il linguaggio polifonico non ha mai abbandonato l’uomo, rassicurandolo, soccorrendolo, lenendo le ferite dell’esistenza, confortandolo e spronandolo a resistere, a vivere nella felicità e nell’infelicità, dandogli le chiavi di quell’empireo dove l’astrazione si coniuga con la perfezione della forma in sé, dalla quale incessantemente attingere dal concetto supremo della Bellezza, in cui l’etica si stempera nell’estetica.
L’aspetto più rilevante di questo progetto, a mio avviso, sta proprio nella presenza della composizione dallapiccoliana, non molto frequentata sia a livello discografico, sia concertistico, che fu creata nel 1952 su commissione del Pittsburgh International Contemporary Music Festival e dedicata, per l’appunto, dal compositore istriano per la figlia al compimento del suo ottavo anno. È sufficiente leggere i titoli di alcuni degli undici brani che la compongono, Contrapunctus primus; Contrapunctus secundus, canon contrario motu; Contrapunctus tertius, canon cancrizans-Resolutio, per rendersi conto come Dallapiccola abbia voluto plasmare una materia armonica derivante dalla polifonia del XV secolo (il termine di “neofiamminghismo” usato in tal senso è assai felice) con le leggi della tecnica seriale. Ne viene fuori, nella concezione estetica dell’autore, un suono ancora più prosciugato, liofilizzato, ridotto a una suprema essenzialità, un’essenzialità che riassume efficacemente il desiderio di immaterialità che contraddistingue progressivamente la sua ricerca musicale, anche se bisogna notare come questo prosciugarsi nell’opera in questione segua un andamento armonico tra gli undici brani in cui la lezione della Seconda Scuola viennese costeggia un andamento che non contempla unicamente il magistero più rigido e severo dato da Schönberg e Webern, ma anche quello più espressivo, se così si può dire, dato dalla musica di Berg, e questo soprattutto nel secondo brano, Accenti, nell’ottavo, Ritmi, nel nono, Colore, e nel decimo, Ombre.
Di fronte a un programma simile, la lettura del giovane Paolo Rinaldi merita un breve approfondimento; ascoltando la sua interpretazione mi è tornato in mente il modo di dirigere di Claudio Abbado, quello relativo al suo primo approccio alla musica mahleriana, il quale, pur senza arrivare ai livelli di un Pierre Boulez, risulta essere analitico, ossia dando voce all’aspetto oggettivo del suono, considerato nella sua essenza, nel suo nucleo primigenio, cellula dopo cellula, segmento dopo segmento, e che rispecchia in fondo le tematiche didattiche che hanno sempre contraddistinto il musicista milanese (parlando con alcuni ex allievi di Abbado, che fossero solisti od orchestrali, TUTTI mi hanno detto la stessa cosa, vale a dire che è stato un grande direttore, ma soprattutto un più grande didatta, poiché il meglio lo ha sempre elargito nei suoi consigli, nel suo modo di gestire le prove, nel giungere al Klang che voleva ottenere, spiegando immancabilmente il perché delle sue scelte e della sua visione, in nome di una con-divisione di ciò che sentiva dentro di sé). Ecco, adottando un parallelismo in ciò, trovo che il pianista castiglionese abbia voluto puntare proprio su questo concetto di “condivisione” del suo gesto interpretativo, restituendo il piano didattico, senza però scadere in un pedissequo didascalismo, per evidenziare in nome di una grande chiarezza l’incommensurabile profondità che ammanta le pagine prese in considerazione. Il suo intento è stato quello così di prendere idealmente per mano l’ascoltatore e accompagnarlo nel corso di questo viaggio iniziatico, nell’esplorare insieme l’edificio da lui costruito nel corso della sua esecuzione, anche se sta poi all’ascoltatore decidere se farsi prendere per mano o no.
Un tipo di lettura del genere, poi, prefigura un’altra necessità da parte di chi ascolta, ossia se tale condivisione “didattica” debba essere considerata come termine di inizio o di fine nell’esplorazione uditiva e comprensiva di queste pagine, insomma se l’interpretazione di Rinaldi possa risultare utile, illuminante come linea-guida “preludica” alla composizione stessa oppure se debba essere considerata “postludica”, quando sia stato già effettuato un “altro” ascolto della stessa opera. Ma, a ben guardare, questa argomentazione più apparire del tutto pretestuosa, in quanto dev’essere la nostra sensibilità di ascoltatori, di “assorbitori” del suono a guidarci sul sentiero dell’alfa o dell’omega. Ma è altrettanto indubbio il fatto che prima o dopo quanto ha espresso il giovane pianista in questa registrazione dev’essere preso in considerazione per arricchire, ampliare, dilatare la conoscenza di questi gioielli elargiti dalla dea polifonia, da noi tutti venerata e omaggiata.
La presa del suono è stata effettuata da Gabriele Zanetti, protagonista di un pregevole lavoro, visto che ha saputo restituire in modo acconcio il timbro del pianoforte Yamaha CFX (a tale proposito, la scelta di tale strumento ha rappresentato un degno compromesso, soprattutto per ciò che riguarda la resa del registro medio-grave); la dinamica mostra energia e pulizia, quindi esente da colori indesiderati, mentre il palcoscenico sonoro ricostruisce efficacemente lo strumento a una discreta profondità. L’equilibrio tonale mostra rispetto per il registro acuto, così come per quello grave, altrettanto puliti e conchiusi, e il dettaglio vanta una buona componente di matericità.
Andrea Bedetti
AA.VV. - The Art of Polyphony - Bach Influences across the Centuries
Paolo Rinaldi (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00359