Tra Rameau, la Baroque Renaissance e le tentazioni di interprete-saggista: l'universo musicale di Luca Ciammarughi
Il pianista e musicologo milanese ha appena pubblicato con la Sony Music un disco dedicato alla musica tastieristica dell'autore delle Indes galantes. Ce ne parla in questa intervista, nella quale spiega anche la sua posizione sulla querelle che riguarda l'interpretazione filologica degli autori del passato
Maestro Ciammarughi, oltre a registrare il disco dedicato a pagine di Jean-Philippe Rameau, è solito presentare sovente nei suoi ultimi concerti brani di tale autore barocco. Com’è nata questa passione nei confronti di questo compositore e teorico francese, tenuto conto che le sue composizioni, soprattutto quelle tastieristiche, non sono oggigiorno propriamente à la page?
La passione per Jean-Philippe Rameau è nata quasi per caso. Avevo circa vent’anni e un giorno, rovistando fra gli scaffali di un negozio di musica, fui colpito da un CD del pianista Alexandre Tharaud, interamente dedicato a Rameau. Poiché sono sempre stato molto attratto dal barocco, lo acquistai alla cieca, incuriosito da come potesse risultare il Settecento francese al pianoforte. All’epoca ero ossessionato da Bach, ma con questo ascolto mi si spalancò una nuova magnifica ossessione. Fin dai primi secondi dell’Allemande dalla Suite in la minore fui catturato da un languore inatteso: mi aspettavo da Rameau, che conoscevo più che altro come grande teorico dell’armonia, una sorta di cartesianesimo musicale, e invece mi accorsi immediatamente che il suo estremo rigore e la sua razionalità da scienziato-filosofo nascondevano un soggiacente universo oscuro, misterioso, pieno di uno charme erotico che forse non ritrovo in nessun altro compositore di quel periodo, se non nelle più espressive Sonate di Scarlatti o in certe pagine di Couperin. Da quell’ascolto casuale è partito per me un percorso di appassionata e vorace ricerca, passato per la conoscenza del teatro di Rameau e delle incisioni dei clavicembalisti (nonché ovviamente dei testi Urtext), e approdato a un mio tentativo personale di dare una nuova lettura pianistica di questo autore, che non scimmiottasse le pur amatissime interpretazioni di Tharaud, Marcelle Meyer o Grigory Sokolov - peraltro tutte piuttosto diverse fra loro. Questa mia incisione, nata in coincidenza con i cento anni dalla morte di Saint-Saëns, vuole rappresentare una sorta di filologia al quadrato, poiché sono partito dall’edizione Durand di Saint-Saëns (pioniere della Rameau-Renaissance alla fine dell’Ottocento) per interpretare le ultime Suites di Rameau - forse quelle che meglio si adattano al pianoforte - su uno Steinway del 1888 (collezione Barletta). Questa dimensione interpretativa mi ha permesso anche di connettere Rameau a un’altra ossessione del mio immaginario personale: la pittura di Watteau rivissuta dal Verlaine delle Fêtes galantes e naturalmente da Debussy, che adorava Rameau.
È sua intenzione, sia a livello concertistico che discografico, continuare in un prossimo futuro a seguire la linea di autori clavicembalistici da proporre in chiave pianistica? E, a tale proposito, visto che siamo in ambito barocco, che cosa pensa dell’annosa querelle tra “clavicembalisti” e “pianisti” quando si tratta di proporre un autore del passato remoto?
Sì, è mia intenzione continuare. Sicuramente farò qualcos’altro, ma ancora non posso prevederlo con precisione: il mio modo di affrontare il repertorio e di programmare concerti e incisioni è molto rabdomantico. Tutto dipende dalla voglia, dal fatto di trovare uno strumento che mi soddisfa, dal caso o dall’azzardo del momento. Non mi piace programmare con troppa acribia. Le possibilità, in questo filone, sono molte. Si potrebbe, per esempio, pensare di connettere Händel a Brahms, sulla base delle Variazioni che quest’ultimo ha scritto a partire da un tema del “caro sassone”. In realtà, però, la connessione più interessante con Brahms sarebbe quella con Couperin, perché l’amburghese ha curato - insieme con Chrysander - la prima edizione completa degli Ordres clavicembalistici del francese, che naturalmente all’epoca si suonavano al pianoforte. Brahms era poi molto appassionato anche di Scarlatti. Tutto ciò ci mostra come la Baroque Renaissance, che noi riconduciamo solitamente al Novecento e a musicisti-filologi come Harnoncourt, Leonhardt, Brüggen, Gardiner e molti altri, fosse già presente nell’Ottocento. Si tratta di un processo progressivo, non di un improvviso risveglio. Se pensiamo che un allievo di Chopin, Tellefsen, suonava nei propri recital parigini la musica di Rameau a poco più di 100 anni dall’epoca in cui questa fu scritta, ci rendiamo conto che la tradizione interpretativa barocca è come un filo che muta colore progressivamente, non di colpo. E chi ci dice che Tellefsen, romantico ma più vicino di noi all’epoca di Rameau, non cogliesse aspetti esecutivi “originali” che magari noi oggi abbiamo perduto?
Ciò che mi affascina terribilmente - e questo vale per ogni musica del passato, soprattutto quella più lontana dai giorni nostri - è osservare come un capolavoro musicale (potremmo chiamarlo un “classico”) cambia veste sotto lo sguardo delle diverse società e della Weltanschauung di ogni epoca. È per questo che trovo piuttosto sterile la polemica fra clavicembalisti e pianisti. Sono il primo ad adorare Rameau al clavicembalo, per un’ovvia questione di idiomazia strumentale, ma al contempo mi rendo conto che la sua musica clavicembalistica contiene spesso un immaginario che trascende la specificità strumentale, soprattutto nelle ultime Suites, che preannunciano i grandi exploit teatrali del Rameau maturo: la danza dei Selvaggi, la Livri, la Sarabanda della Suite in La e molte altre pièces furono orchestrate dallo stesso Rameau, o adattate per organico da camera: le ritroviamo nelle Indes Galantes, in Zoroastre, nelle Pièces de clavecin en concerts e in altre partiture. A patto che non si appesantisca e si romantizzi eccessivamente al pianoforte una scrittura che è spesso lieve e alata, anche nei momenti di più intensa espressività, perché non eseguire Rameau al pianoforte? Tutto a mio avviso dipende da quanto si conosce e ama il suo stile, il suo lessico, il suo immaginario. Anche il barocchista Ottavio Dantone sostiene questo punto di vista. L’ho sentito una volta suonare un Concerto per clavicembalo di Porpora al pianoforte, con la Filarmonica della Scala: era meraviglioso. Perché Dantone era completamente immerso in quel mondo - sia dal punto di vista conoscitivo (“scientifico” qualcuno direbbe) che emozionale. Lo strumento era soltanto, appunto, strumento, mezzo. Lo studio filologico è importante, ma alla fine deve subentrare un’immedesimazione che fa la differenza fra un interprete corretto e un interprete totalmente coinvolto, compenetrato con la partitura e la materia sonora.
Aggiungerei una riflessione: quando assistiamo a una commedia di Shakespeare, a teatro, raramente siamo di fronte a una mise en scène davvero filologica. Basti pensare al fatto che le parti femminili, nel teatro elisabettiano, erano affidate ad attori adolescenti maschi, poiché alle donne non era permesso recitare. Oggi nessuno - per fortuna - protesta perché le donne recitano Shakespeare, né si scandalizza (salvo i più rigoristi) se i costumi di scena non sono filologici. Se ancor oggi queste opere ci interessano è perché esse sono “costellazioni semantiche” che trascendono la propria epoca e le contingenze diacroniche. Ogni grande opera, più che universale, è “sincronica”: diviene mito perché può rivivere in una serie infinita di differenti “qui e ora”, senza perdere la sua forza.
Infine, come si concilia, non tanto a livello temporale, quanto a possibili influenze la professione di interprete con quella del saggista? Voglio dire, quanto l’una può influire nel bene e nel male sull’altra e viceversa?
Il livello temporale in realtà rimane cruciale. Per fare le cose al meglio ci vuole tempo. Talvolta qualcuno è scettico perché si chiede dove io trovi il tempo di conciliare le mie molte attività: quella radiofonica, saggistica, concertistica, divulgativa, didattica. In realtà ho sempre fatto molti sacrifici: per me il weekend non esiste - anche se per fortuna viaggio molto per lavoro e ne traggo un immenso piacere. Non nascondo però che a volte vorrei molto più tempo, sia per la parte pianistica, sia per quella saggistica. Per quanto riguarda le influenze fra l’interprete e il saggista, sicuramente sono presenti: lo studio e l’approfondimento necessari per i miei scritti di storia dell’interpretazione pianistica, per esempio, mi hanno spinto a interrogarmi su quale sia oggi il ruolo dell’interprete, su cosa è già stato detto e cosa eventualmente c’è ancora da dire, su quanto sia importante conoscere i giganti del passato per conservarsi umili, evitando di montarsi la testa quando si ottiene qualche bel risultato. Al contempo il passato e la conoscenza capillare possono talvolta essere anche una “catena”, come insegna la Seconda Inattuale di Nietzsche: talvolta la quantità sterminata di documenti audiovisivi che abbiamo accumulato fra il Novecento e il nostro secolo può quasi inibirci, darci l’impressione che la nostra “parola” sia ormai inutile, perché quasi tutto è stato sviscerato e immortalato alla perfezione. Come c’è chi dice che a volte nell’ignoranza incosciente ci può essere meno sofferenza e più spensierata freschezza, così in musica talvolta assistiamo a miracoli di musicisti magari poco colti ma istintivamente dotati, sia sul piano tecnico sia su quello musicale. Se dovessi però mettere sul piatto della bilancia le due alternative, preferirei comunque mantenermi curioso e predisposto a una ricerca continua: essa ti permette di non cadere mai nella noia e soprattutto ti consente di uscire da te stesso, da quell’ipertrofia dell’ego a cui noi pianisti siamo spesso sottoposti. La predisposizione al conoscere, poi, è forse doppiamente preziosa con il passare degli anni, quando al “nervo” scattante e al fuoco della gioventù si sostituiscono altri valori, più orientati alla meditazione e all’introspezione.
Andrea Bedetti