Tiorba a Venezia
Nel corso di alcuni dei miei interventi pubblicati su MusicVoice ho fatto presente, quando il contesto me ne offriva la possibilità, di come sia importante non solo per l’arte musicale, ma per ogni espressione artistica, il concetto di un luogo, di una terra, di un centro capaci di emanare degli influssi miracolosi a livello di pensiero e di stimoli intellettivi. Questo concetto fu evidenziato dagli antichi greci, i quali furono i primi a rendersi conto che esiste una sorta di geopensiero in grado di esaltare un processo speculativo di incredibile potenza, di misteriosa energia che, incanalato in termini propositivi e creativi, porta alla creazione di molteplici fonti di espressione artistica.
Sulla base di tali prerogative, anche un sasso capirebbe che un luogo come Venezia rappresenti uno di questi luoghi magici, nei quali i concetti di spazio e di tempo risultano essere, proprio per via di queste continue emanazioni, per così dire subliminali, del tutto indistinti e blandi nel loro manifestarsi sugli esseri umani. Venezia la perenne moribonda, l’agonizzante che sta per lasciare la vita ma che rifiuta ancora di accettare la morte, Venezia la decadente, come Mosè salvata dalle acque (e dalla rovina), quando, nel cuore dell’Ottocento, letterati e artisti, soprattutto anglosassoni, le praticarono con i loro scritti, i loro dipinti, le loro musiche una provvidenziale respirazione bocca a bocca (si legga, a tale proposito, quel meraviglioso saggio di John Julius Norwich, Venezia. Nascita di un mito romantico), per restituirle ciò che poi l’illusoria annessione al regno d’Italia le negò, ossia un’importanza pari alla sua storia passata e alla sua tradizione.
Però, Venezia, per chi sappia trarne le sublimi e subliminali influenze, continua a donare, a irradiare, a stimolare e a far sì che il mistero della nascita di opere artistiche non venga mai meno grazie ad essa e in suo nome. Così, quando il liutista e tiorbista Stefano Maiorana mi ha contattato per chiedermi se la nostra rivista poteva essere interessata a recensire il suo ultimo progetto discografico, pubblicato recentemente dall'etichetta Arcana, dedicato a opere per sola tiorba del compositore contemporaneo veneziano Claudio Ambrosini e a quelle del grande Johannes Hieronymus Kapsberger, ho accettato di buon grado e con vivo interesse, non solo per la caratura dell’interprete e dei due compositori in questione, ma anche e soprattutto per il fatto che la materia sonora che sarei andato ad affrontare era stata sprigionata proprio nella beneamata città lagunare, fonte e approdo di un intrigante discorso musicale tra presente e passato, tra espressione contemporanea ed espressione antica.
Anticipo fin da ora che la mia curiosità e il mio interesse sono stati ampiamenti ripagati dopo aver ascoltato questa registrazione, nella quale si attua un peculiare artificio: come spiega la musicologa francese Sylvie Mamy, studiosa dell’opera musicale di Ambrosini, nelle note di accompagnamento al disco, la genesi di questa composizione, in cui dieci brani scritti da Ambrosini (e qui presentati in prima assoluta mondiale) si alternano ad altri dieci composti da Kapsberger, oltre alla presenza di sei brevissimi “intermezzi” elaborati da ambient sounds di Venezia, i quali, come vedremo, hanno una precisa funzione in tale contesto, è stata assai particolare. Tutto ha avuto inizio sei anni fa, in occasione dell’anniversario della nascita di Claudio Monteverdi, quando Ambrosini decise di comporre un madrigale drammatico, Tancredi appresso il Combattimento, una sorta di “sequel” del celeberrimo Combattimento di Tancredi e Clorinda del sommo genio cremonese. Proprio per sancirne la continuità, anche a livello timbrico, il compositore veneziano aveva voluto utilizzare pressoché lo stesso organico strumentale, tra cui la tiorba, suonata da Stefano Maiorana.
Ma Ambrosini, nei mesi successivi, evidentemente ancora coinvolto creativamente dalla dimensione sonora di questo strumento, scrisse di getto numerosi brani per la tiorba, attualizzandone la sua portata espressiva tramite un uso decisamente brillante della scrittura. Non solo, ma da sempre affascinato dai molteplici collegamenti che ci possono essere tra la sfera della musica contemporanea e di quella antica, il compositore veneziano ha voluto confrontarsi idealmente con la portata compositiva di un autentico maestro della tiorba, per l’appunto l’altro veneziano Kapsberger, che operò nella città lagunare fino al 1605, quando poi decise di trasferirsi a Roma. Ambrosini, in questo “gioco di finzione”, immagina di aver straordinariamente ritrovato un quaderno manoscritto contenente dei brani inediti di Kapsberger, dieci per la precisione, composizioni che il musicista veneziano di padre austriaco (o tedesco) non avrebbe voluto pubblicare durante la vita giudicandoli troppo “audaci” per la sua epoca. In realtà, le pagine per tiorba di questo grande compositore del passato provengono da due ben noti manoscritti: il primo è conservato nell’Archivio di Stato, nei fondi degli Este, a Modena, mentre il secondo a Roma, alla Biblioteca Apostolica Vaticana, nei fondi Barberini. Così, ha preso vita il progetto Secret Pages, con i dieci brani di Kapsberger (di cui ben sei in prima registrazione assoluta) che si alternano con gli altrettanti di Claudio Ambrosini, il quale assume ludicamente e “metamusicalmente” il ruolo dello stesso Kapsberger, non solo coinvolgendo uno strumento, come la tiorba, così caro all’altro compositore veneziano, ma calandosi in una dimensione, quella barocca, dalla quale attingere (non per nulla, i titoli dei suoi brani sono Ciaccona, Canzone, Sarabanda, Ricercare, Tastata, Arpeggiata, Aria, Toccata) e plasmare. Questo alternarsi tra i suoi pezzi e quelli del suo alter ego Kapsberger viene poi intervallato, come si è già accennato, da sei frammenti sonori registrati dai suoni che la Venezia contemporanea emana.
Questo è un punto al quale ci tengo molto e che desidero delineare, confidando che la mia riflessione corrisponda alla volontà creativa del suo autore; considero questo progetto sonoro nella sua interezza come un’irradiazione nella quale la temporalità del suono musicale (passato/presente) s’interfaccia con la spazialità data dal contesto dei sei ambient sounds che, a mio modo di vedere, rappresentano una precisa testimonianza del concetto di geopensiero e di “geocreazione” di cui ho già avuto modo di scrivere. Possiamo presumere che la furia creativa (l’irruzione del δαίμων si può manifestare sotto molteplici aspetti), con la quale Ambrosini è riuscito a dare concretezza al tutto, sia effettivamente il risultato della stupefacente influenza che un luogo “magico” come Venezia riesce a perpetuare nel tempo attraverso il suo spazio. L’intervento di questi ambient sounds mi ha fatto tornare alla mente quelli che Franco Evangelisti utilizzò per quel capolavoro che porta il titolo di Die Schachtel, quando girando per Roma con un magnetofono, fissò il suono della sirena di un’ambulanza, il rumore disaggregante di un martello pneumatico, voci, presenze, ombre fatte di materia, che poi mirabilmente incastonò in quel lavoro, tramutandoli in una forza, in un’energia artistica senza pari. Ed è ciò che ha fatto Ambrosini, fissando con forza e sistematicità la dimensione spaziale in una dimensione atemporale (le voci di bambini che giocano nei pressi della Basilica dei Frari, dove si trova la tomba del sommo Monteverdi, il rumore dell’acqua alta a Piazza San Marco, scolpita tra le campane e il garrire dei gabbiani, l’idea di muro trasmessa dai Murazzi del Lido, i passi che penetrano un velo d’acqua, elemento, questo, sempre presente, affascinante eppure minaccioso per la sopravvivenza della città, il legno delle gondole che stride nei pressi dei Giardini della Biennale, ossia suoni che non appartengono a una sola epoca, bensì a tutte).
Ebbene, questa dimensione del tutto in ordine spaziale/atemporale si confronta ineluttabilmente con quella temporale del suono della tiorba; qui, ci troviamo di fronte a un’apparente/confacente dicotomia, sia in termini, ovviamente, stilistici, sia nel tipo di scelta compositiva che Ambrosini fa per i suoi brani rispetto a quelli di Kapsberger. Che il primo sia affascinato dalla musica di un remoto passato, non fa altro che allungare la tradizione di quella scuola veneziana contemporanea che a cominciare da Malipiero, passando attraverso Maderna, giunge fino a Nono, ossia di fautori insostituibili di una musica che si fissa drammaticamente nel suo presente in atto, ma che allo stesso tempo deve fare inevitabilmente i conti con il grande lascito di quella passata, che partendo da Cipriano de Rore e Adrian Willaert porta ad Andrea e Giovanni Gabrieli, a Schütz fino a Monteverdi e a Galuppi. Una sublime damnatio che obbliga i compositori del poi a non mettere mai da parte quelli del prima, senza però esserne direttamente dipendenti, come se la musica di quelli antichi fosse una sorta di “metadone creativo”.
E lo stesso vale per Claudio Ambrosini, il quale nel suo confronto con il côté antico di Kapsberger non si avvale di un metadone creativo, ma si limita ad attingere idealmente quanto il precedente autore veneziano ebbe modo di instradare creativamente; così, il raffronto passato/presente si condensa nell’assioma concetto/sviluppo (è fondamentale, a livello di ascolto, comprendere tale fase di passaggio tra prima e dopo, e questo anche attraverso la peculiare disposizione ed esecuzione dei dieci brani di Kapsberger e dei corrispondenti dieci pezzi di Ambrosini), dando così forma e attuazione a quell’affascinante principio di una costruzione che parte da ciò che è classico (da intendersi, ovviamente, non come stile, bensì come modello storicamente canonizzato) per trasformarsi nell’adesso, uno status quo squisitamente dinamico, facendo sì che la lezione del prima si possa attualizzare in uno sviluppo temporale decodificato nell’ora (in fondo, questa continuità in nome di un incessante sviluppo è uno dei grandi lasciti brahmsiani… ).
E che tale trasformazione sia perfettamente riuscita nella sfera strutturale e in quella stilistica, viene certificato dal fatto che il passaggio tra quanto enunciato da Kapsberger e ciò che viene sviluppato nell’ardua scrittura di Ambrosini non presenta fratture, traumi, brusche interruzioni del sentiero, che non cede mai il passo al limite di un abisso; la comunicazione tra prima e dopo è sempre presente, anche se l’autonomia del poi è percepibile nella sua manifestazione sonora, ribadendo di fatto ciò che la grande tradizione della scuola veneziana porta avanti da più di sei secoli.
In tutto questo discorso non bisogna dimenticare poi l’apporto, fondamentale, dato dalla lettura di Stefano Maiorana, il quale inizia già da un’ottima base di partenza, data dal fatto di essere uno specialista di Kapsberger (al quale ha già dedicato, sette anni fa, una registrazione monografica); a ciò in lui si unisce anche una spiccata predisposizione per le ricerche e gli sviluppi dati dall’ambito contemporaneo, il che gli ha permesso di enunciare una dimestichezza, una vera e propria naturalezza nella resa sonora dei brani dell’uno e dell’altro. Così, disciplina e fantasia, ordine e libertà si alternano con una fluidità davvero encomiabile: ci vuole chiarezza, quella che amo definire “lucidità d’intenti”, capacità nel penetrare la materia musicale per poterla evidenziare nella sua essenza. Se i brani di Kapsberger più che fornire un’idea di espressività, donano un’immagine di evocazione totale, ossia vantano quella patina ricca di sfumature, di indagine melodica mai fine a se stessa, ma sempre rapportata alla costruzione alla quale appartiene, quelli di Ambrosini non sono appannaggio di un freddo e asettico “laboratorio sonoro”, bensì riescono ad essere mirabile ricostruzione di quell’idea originaria, il cui sviluppo è lavoro di team tra compositore ed interprete, ossia di segno che diviene suono. Il codice univoco, nel quale riconoscere il fatidico marchio di fabbrica lo abbiamo esemplarmente alla fine di tale percorso, con da una parte le Romanesche di Kapsberger e dall’altra l’Arpeggiata di Ambrosini, con la struggente diramazione del primo brano che si trasforma, dopo il rigurgito spaziale/atemporale dato dalla ricostruzione ambientale delle voci dei bambini davanti alla Basilica dei Frari, nella tenue, tenuissima elaborazione, che Maiorana riesce a donare del prezioso merletto sonoro, davvero unico per il modo in cui sfrutta la tiorba, creato dall’autore veneziano contemporaneo.
Una delle registrazioni intellettualmente più stimolanti da me ascoltate negli ultimi anni.
Andrea Dandolo, una garanzia in tal senso, si è occupato della presa del suono. La dinamica si contraddistingue prima di tutto per una eccelsa pulizia di fondo, tale da esaltare la velocità dei transienti e l’energia che percorre il magnifico esemplare di tiorba costruita nel 2019 da Francisco Hervas a Granada. Ne consegue la ricostruzione di un palcoscenico sonoro, nel quale interprete e strumento risultano scolpiti al centro dei diffusori in un’apprezzabile profondità, senza che però venga a mancare ampiezza e altezza del suono. L’equilibrio tonale è totalmente immune da sbavature nella riproposizione del registro medio-grave e di quello acuto, con una piacevolissima messa a fuoco, capace di evidenziare la bellezza dell’eloquio dei brani di Kapsberger. Infine, il dettaglio è oltremodo materico, con nero a volontà capace di circondare l’interprete e lo strumento, rendendo così più coinvolgente anche un ascolto “fisico”.
Andrea Bedetti
Claudio Ambrosini – Kapsberger, Secret Pages for theorbo and sounds of Venice
Stefano Maiorana (tiorba)
CD Arcana A541
Giudizio artistico 5/5
Giudizio tecnico 5/5