Sympathy for the Bayan
C’è una frase che Giuseppe Sinopoli scrisse nel suo libro I racconti dell’Isola che può riassumere esemplarmente un recente disco pubblicato dalla Da Vinci Classics, dal titolo Aion, con composizioni di autori contemporanei quali Bruno Mantovani, Danilo Comitini, Martin Lohse, Sonia Bo, Benjamin De Murashkin e Stephen Montague per un particolare strumento, il bajan. In questa frase, il grande direttore d’orchestra, scrittore, archeologo e psichiatra afferma: «La musica è il segno più sublime della nostra transitorietà. La Musica, come la Bellezza, risplende e passa per diventare la memoria, la nostra più profonda natura. Noi siamo la nostra memoria».
A volte può e deve bastare un solo strumento musicale per evocare quanto Sinopoli scrisse a proposito della Musica come simbolo di ciò che siamo nel nostro misterioso passaggio terreno, e di come tale passaggio sia radicato nel tesoro più sublime e maledetto che possa esistere, la nostra memoria. Memoria individuale, collettiva, quella che ci spinge a un continuo confronto, ammesso che la nostra mente, il nostro cuore e la nostra sensibilità siano in grado di sprigionare lo stimolo del confronto, del porci di fronte a noi stessi e agli altri. E in ciò le ricerche e gli sviluppi della musica contemporanea, quella disdegnata dagli imbecilli e dai mentecatti, rappresentano pietre miliari con le quali segnare le tappe della memoria di coloro che invece sanno ascoltarla, in quanto sono altrettante stazioni che fissano indelebilmente la consapevolezza della nostra transitorietà.
Sono questi i pensieri, le emozioni (perché la musica contemporanea può anche emozionare, lo sapete?), le riflessioni che possono accompagnare chi avrà modo e Tempo per ascoltare questa incisione eseguita da Raffaele Damen, un sontuoso virtuoso del bajan (un tipo di fisarmonica cromatica a bottoni, sviluppata in Russia all’inizio dello scorso secolo, contraddistinto da un timbro più marcato e potente, soprattutto nel registro grave), il quale ha voluto registrare dei sei autori sopra menzionati altrettanti brani, per la precisione Chrono 8’20”, Looper, Passing I-II-III, Time-Toccata, Music for Organic Nature e Aeolian Furies.
Tornando al concetto della nostra transitorietà, ci sono diversi modi di poterla rappresentare e, esprimendola attraverso la Musica, la lezione che i compositori presi in esame e la lettura dei loro brani effettuata dall’artista pesarese Damen ci permette di penetrare, di prendere parte alla costruzione di un viaggio che si imprime nella nostra memoria per non abbandonarla se non con estrema difficoltà. Questo perché il virtuoso del bajan, come ogni virtuoso capace di oltrepassare il proprio virtuosismo, riesce a far andare oltre il proprio strumento dalle leggi fisiche che lo governano, nello stesso modo in cui la scrittura musicale dei sei autori presenti in questo disco è riuscita a fissare un punto stilistico, linguistico, semantico e ad oltrepassarlo con l’atto creativo che li ha coinvolti. Ciò porta, nella sua concretizzazione, a una reazione, sia da parte di chi ha scritto questi brani, sia in chi li esegue e sia in chi li ascolta (bisogna prestare attenzione alla conseguenzialità di questa trimurti “scrittura/esecuzione/ascolto”) che comporta l’assorbimento del presente, ossia dell’istante atto nella creazione, nell’esecuzione e nella ricezione, nella dilatazione del passato e nell’anticipazione del futuro, un concetto mirabilmente identificato dalla filosofia greca attraverso il lemma αἰών, il quale afferma che il Tempo è la sussistenza del passato e del futuro capaci di annullare la presenza/sembianza del presente, mera proiezione illusoria sulla quale si appoggiano e trovano spazio ciò-che-è-stato e ciò-che-sarà. Da qui la necessità della nostra memoria, la quale, a pensarci bene, non contempla la presenza/assenza del presente, ma attinge dal passato per cercare di dare una risposta al già-non-presente dato da tutto ciò che è ancora futuro.
E la memoria deve necessariamente già entrare in gioco con il brano del francese Bruno Mantovani, Chrono 8’20” che, più che rimandare al celeberrimo 4’33” di cageiana memoria, come spiega lo stesso compositore transalpino, deve il titolo da quello di una serie TV francese, 24 Heures Chrono, con la ri-creazione di un ritmo musicale/temporale desunto da quanto avveniva nella realtà mondana della fiction televisiva, che vedeva quale protagonista Jack Bauer, un agente dell’antiterrorismo impegnato a scongiurare quotidianamente una possibile catastrofe: come a dire l’uso del tempo, nella sua formulazione ritmica, per vincere una sfida sorretta dalla questione del tempo, il quale è scandito da ore, minuti e secondi prima che la minaccia abbia atto. Mantovani ha voluto quindi realizzare spazialmente il concetto “del tempo vs tempo” attraverso un modello armonico che gli sta particolarmente a cuore, quello che riguarda la sovrapposizione di intervalli, che nel pezzo in questione prende vita dall’uso alternato delle due tastiere del bajan.
Tempo, ancora il tempo è il protagonista di Looper di Danilo Comitini, suddiviso in tre sezioni distinte, ognuna delle quali offre altrettanti visioni che scaturiscono da differenti flussi temporali che vengono fissati attraverso la combinazione del ritmo, dell’armonia e del registro. Tre sezioni che però, nel loro apparire formalmente distinguibili, sono inesorabilmente attratti dall’assimilazione data dall’αἰών, con la rimembranza di un possibile passato che si getta nelle fauci immote di un impalpabile futuro reso attraverso un placido e glaciale perpetuum mobile che masturba delicatamente la dimensione del silenzio.
L’immagine che si propaga dai tre segmenti che compongono Passing del danese Martin Lohse riconduce a una sensazione di galleggiamento sonoro, che genera a sua volta l’idea di una sospensione temporale, tale da far pensare a un’apparente costruzione musicale basata su principi minimalistici (e questo soprattutto nel primo e nel terzo segmento). In realtà, l’uso di accordi, con la loro disposizione e concatenazione, si muove su prospettive differenti, meno sistematiche e più epidermiche, lavorando su reazioni simpatiche ed empatiche che possono scaturire da chi le ascolta.
Se c’è un compositore sulla scena contemporanea, e questo non solo in ambito nazionale, affascinato, sedotto dal connubio parola/suono scaturente dal concetto della biblioteca come labirinto delineato da Borges combinato con la musica come escatologia del suono, da intendere proprio come ricerca delle “ultime cose”, sul limitare di ciò che sono e di ciò che intendono dire, questa è proprio la lombarda Sonia Bo. E il suo Time-Toccata è un disarmante inno al soliloquio sonoro che genera proiezioni visive-contemplative, sull’“onda” semantica del romanzo più sperimentale e audace di Virginia Woolf, Le onde. Onde timbriche che pettinano la ricezione di un ascolto contropelo, fomentato da sovrapposizioni dissonanti che mettono a dura prova le possibilità fisiche dello strumento, nello stesso modo in cui la matassa di ricordi mette a dura prova la nostra memoria, in cui si sovrappongono le memorie altrui, quelle letterarie, per l’appunto, quelle musicali alle quali associarle per provare lo stesso dolore di chi le ha generate (Sympathy for… ). Ascoltatelo al buio, attendendo che le luci interiori affiorino in superficie.
C’è poi il tempo che prende corpo, forma, fisicità, come accade in Music for Organic Nature di un altro autore danese, Benjamin De Murashkin, in cui la passacaglia trasforma il bajan in un polmone che inspira ed espira (allegoria di una Natura oramai asfittica, depredata, annientata?). L’immagine è quella di una ciclicità che torna a ripresentarsi, di un tempo che non è mai lineare (occidentale), ma ancorato a un “eterno ritorno” dal sapore meramente orientale. Un fotogramma che si può ammirare da fermo o ripetuto su se stesso, dando l’idea di un canone inverso in cui il tempo si ritrae, si avviluppa, come una kundalini minimalista (i richiami a questo genere sono più che lapalissiani) intorno alla spina dorsale della quale ha preso possesso.
Infine, sempre in riferimento al Tempo, la musica dello statunitense Stephen Montague vuole essere in Aeolian Furies, un tributo mitologico alla figura delle Furie o Erinni che dir si voglia, le tre figure femminili che presiedono alla vendetta, portata a termine sempre con modalità atroci. Per fare ciò, Montague trasforma il bajan, di volta in volta, in un’arma timbricamente affilata, tale da rendere il risultato armonico della scala eolica utilizzata come una katana proteiforme, in cui il volo delle tre Furie, il loro ghermire la vittima, il loro farne ciò che vogliono si alternano senza soluzione di continuità, esattamente come lo è il Tempo.
Se non si ascolta Raffaele Damen alle prese con il bajan in questi sei brani, non si può lontanamente immaginare che cosa possa diventare tra le sue mani. A volte, raramente, può capitare che il virtuosismo richiesto per poter rendere una composizione musicale porti a dover necessariamente trasfigurare l’oggetto fisico che si utilizza: è quanto avviene con l’interprete pesarese, poiché il suono che ne viene fuori, l’emanazione sonora che ne consegue sembrano appartenere a uno spettacolo fregoliano, un susseguirsi di immagini, di concretizzazioni formali che mutano incessantemente, anche se il risultato ottenuto non rientra in un baracconismo fine a se stesso. Damen non fa spettacolo con i suoi stupefacenti acrobatismi, ma trasforma in oro sonoro tutto ciò che i bottoni da lui toccati evocano. E ciò provoca un fenomeno, una reazione emotiva in chi lo ascolta che lo porta progressivamente a dimenticare lo strumento che sta suonando, poiché il bajan diviene tutto ciò che è nel momento stesso che viene sollecitato durante l’esecuzione. Significa, e non è la solita immagine trita e ritrita, che un interprete e il suo strumento divengono una sola cosa, inscindibile, indissolubile, una forma materica unica, in cui non si riconoscono più l’uno e l’altro. Semplicemente stupefacente.
Per rendere al meglio le sue evoluzioni, l’esistenza stessa del bajan, era necessario riprodurre al meglio la dinamica e la microdinamica derivate dalla presa del suono, cosa che Lorenzo Binotti è riuscito a fare brillantemente. Unitamente, lo strumento è posto graniticamente al centro del palcoscenico sonoro, arricchito da una debita profondità. L’equilibrio tonale riesce a far emergere il timbro e i registri delle due tastiere e il dettaglio è scontornato da un profluvio di nero.
Andrea Bedetti
AA.VV. – Aion. Contemporary Music for Bayan Solo
Raffaele Damen (bajan)
CD Da Vinci Classics C00389