Shelly, l’aiuto indispensabile per gli appassionati del vinile
Ho avuto modo di provare questo shell della Sublima di Alex Cereda, un vero e proprio pezzo di liuteria prestato al mondo dell’audiofilia analogica. Ancora una volta, ci troviamo di fronte a un “necessorio” a dir poco irrinunciabile per poter capire che cosa sia la magia di un ascolto coinvolgente ed emozionante
Nella mia lunga esperienza da audiofilo mi sono sempre più reso conto di quanto sia fondamentale affinare nel corso del tempo la propria catena audio. E per affinare non significa soltanto “migliorare”, poiché questo passaggio può avvenire solo se prima si compie un altro passo ineludibile, quello che riguarda il “saper ascoltare” il proprio impianto preposto all’ascolto musicale, facendo un debito raffronto con la nostra esperienza fatta durante i concerti dal vivo, ossia ascoltando il “vero” suono per poi parametrarlo con quello dell’ambiente domestico nel quale viene riprodotto. Da qui si può attuare un progetto di miglioramento che, però, non deve contemplare solo la sostituzione, casomai si dovesse rendere necessaria, di uno o più componenti, ma soprattutto adottando l’utilizzo dei cosiddetti accessori, che spesso, se ben mirati e sfruttati, rendono del tutto superfluo la sostituzione di meccaniche e apparecchi, con un più che evidente ritorno in termini di risparmio economico.
Per quanto mi riguarda, da quando ormai diversi anni fa ho scoperto una ditta romana, la Sublima di Alex Cereda, e i suoi prodotti, per i quali il vulcanico progettista e imprenditore siciliano ha coniato un azzeccato neologismo, quello di “necessori”, contrazione di “necessari accessori”, il mio impianto di ascolto professionale, che utilizzo nel mio lavoro di musicologo e di critico musicale, ha avuto una serie di benefici tali da farmi risparmiare un sacco di soldi, permettendomi di avvicinarmi sensibilmente a quel “vero” suono che si può ascoltare solo in una sala da concerto. Di questi prodotti ne ho parlato soventemente, e non solo sulle pagine di questa rivista, facendo comprendere come un miglioramento possa essere ottenuto senza dover stravolgere ciò che si ha, ma permettendo a ciò che si ha di potersi esprimere realmente per quelle che sono le sue possibilità e che, quasi sempre, vengono annullate, strozzate, annientate da una serie di eventi fisici, elettromagnetici e quant’altro, presenti sia nei componenti stessi, sia nell’ambiente nel quale sono ospitati, che impediscono di ottenere il meglio dalla nostra catena audio.
Ora, in questo articolo, intendo scrivere di uno dei diversi “necessori” che Alex Cereda ha ideato, sviluppato e messo a disposizione di tutti coloro che sono seguaci del “suono fedele”, ossia di Shelly, come lo ha voluto chiamare il patron della Sublima. Shelly deriva da “shell”, la conchiglia che ospita la testina collegata al braccio di un giradischi; a prima vista, dunque, sembrerebbe un componente da niente, solo un piccolo pezzo di metallo, spesso alluminio, che dotato di una griglia o di apposite asole, permette alla testina di essere fissata ad esso tramite delle viti. Ebbene, il primo consiglio che voglio dare è questo: mai fidarsi delle apparenze e di ciò che può sembrare pleonastico quando affrontiamo il campo dell’audiofilia, poiché grandi risultati possono essere ottenuti curando e migliorando anche i semplici particolari, come nel caso proprio dello shell del braccio. La peculiarità di Shelly, prima di tutto, è data dal fatto che non è stato progettato e realizzato in metallo, bensì in legno, come se fosse un vero e proprio progetto di liuteria, quello che porta, tanto per chiarirci, alla creazione dei violini, delle viole, dei violoncelli e dei contrabbassi, ossia un materiale altamente musicale e rispettoso del suono prodotto da questi strumenti. E qui lascio la parola allo stesso Alex Cereda che spiega com’è nato questo straordinario “necessorio”.
«Al di là degli studi da me fatti nel campo della liuteria che ho intrapreso tempo fa, a livello di esperienza e di applicazioni fatte in modo del tutto personale, mi sono reso conto e di ciò ne sono convinto, anche grazie all’utilizzo di vernici e di lacche particolari in rapporto alle manifestazioni elettromagnetiche, dell’importanza del legno quando questo materiale viene utilizzato per trasmettere la magia del suono e tutte le sue peculiarità intrinseche», mi ha detto il patron della Sublima. «Quindi, la mia idea è stata quella di trasferire questo materiale quale componente per dare vita a uno shell che rispettasse il suono flebilissimo che dalla testina passa al braccio per poi essere dirottato al prephono e da qui al preamplificatore o amplificatore integrato. Una fase di passaggio delicatissima, nel quale la “conchiglia” che ospita la testina ha un’importanza fondamentale. A questo punto, il problema che si è posto è stato: quale tipo di legno scegliere per progettare e costruire uno shell capace di trattare il suono come uno strumento musicale ad arco? La soluzione migliore, per tipologia del legno e delle sue proprietà “musicali” applicate a questo specifico contesto progettuale, è stato l’ulivo, in base alla venatura e alla sua densità, cosa che non si può ottenere da un ulivo qualunque, bensì dalla sua componente più pregiata e costosa, l’alburno, vale a dire la parte più esterna e giovane del legno di un albero, oltre ad aver utilizzato con successo anche la parte che sta tra l’alburno e il durame. Quindi, ho dovuto acquistare un lotto di alburno da ulivi italiani che erano stati precedentemente abbattuti con il consenso della Comunità europea, ulivi, altra caratteristica fondamentale, che avevano avuto una stagionatura, un invecchiamento del tutto naturale, stando all’aperto per circa dodici anni, subendo così le varie stagioni, freddo e caldo, umidità e sole, per diventare più asciutti e per evitare ulteriori fioriture o deformazioni. Inoltre, ho anche fatto affidamento su un altro lotto di legno, acquistato da un ebanista, che corrispondeva alle peculiarità e alle necessità di utilizzo che avevo in mente, grazie al processo di stagionatura fatto per diversi anni all’aria aperta.
«Un altro aspetto del processo è dato dal lavoro, che è quasi totalmente fatto a mano, tranne la sgrossatura, che viene effettuata da una macchina a controllo numerico. Da quel momento, il lavoro è puramente da liuteria, ossia fatto esclusivamente a mano, a cominciare dalle asole, perché utilizzando le macchine in questo caso non si può avere un risultato di precisione per il semplice fatto che la macchina non sente il materiale, soprattutto se il legno presenta delle microcrepe, e quindi con il rischio di spaccare irrimediabilmente il pezzo. Se invece questo passaggio viene fatto a mano, si ha la possibilità di accorgersi prima di tale rischio. Così, se mi rendo conto che il legno sta per cedere, posso intervenire con i miei collanti naturali che chiudono la “falla”, mantenendo la fibra intera. Acquisendo esperienza in materia e con la pratica, mi sono accorto che la parte migliore del legno di ulivo da trattare e utilizzare era proprio l’alburno, così come anche ciocchi di durame, esenti dall’intervento di determinati microorganismi, i cosiddetti xilofagi, i quali si nutrono del legno, provocando dei fori i quali, se sono presenti in uno shell, formano delle discrepanze che interrompono la venatura, creando di conseguenza dei “microfoni” che vanno inevitabilmente a inficiare il passaggio del tenue segnale del suono trasmesso dalla testina. Non per nulla, se si vogliono ottenere da uno shell in legno delle prestazioni eccezionali, quest’ultimo deve riverberare in un certo modo, deve avere una tessitura planare, ossia che anche se la venatura non è precisa, deve seguire delle linee. Quindi, si deve tenere conto di diversi fattori quando si lavora il legno per trasformarlo in uno shell di altissima qualità, quali la sua densità, il grado di umidità o la strumentazione per misurare anche il grado di tale umidità, e poi la manualità, il profumo. Sì, perché i legni con la migliore stagionatura profumano, profumano tantissimo, come quelli che utilizzo io che arrivano ad avere una stagionatura perfino di quindici anni, senza contare che su dieci-venti ciocchi se ne salvano due o tre da poter usare, quindi con una componente di scarto che è abbastanza elevata. Però, una cosa la posso assicurare: i pezzi di alburno che alla fine diventano degli shell sono dei capolavori, come si sono resi conto i primi clienti che hanno deciso di comprarli, anche se all’inizio erano indecisi o scettici, perché passare da uno shell in metallo ad uno in legno non è un altro mondo: è un altro universo, per il semplice fatto che quando si usa una testina a contatto con il metallo dello shell, quest’ultimo tende a risuonare a varie frequenze in maniera disordinata. Per avere la prova di ciò basta stringere di più o di meno le viti che fissano la testina allo shell. Al contrario, usando uno shell in legno, come succede con il mio Shelly, tutta l’energia data dal segnale audio viene trasferita integralmente, quindi non viene né assorbita, né dispersa, in modo da lasciare la testina neutra e questo significa più velocità nei transienti, più completezza di suono, meno distorsione. Il suono è più armonioso, più aperto, più equilibrato, con una risposta in frequenza più ampia, molto più ampia, con una ricchezza armonica incredibile».
A questo punto, però, dev’essere chiaro un fatto: progettare e costruire uno shell in legno non migliora automaticamente ed esponenzialmente il suono solo perché si è usato questo tipo di materiale, per il semplice fatto che la scelta del legno rappresenta solo il punto di partenza. Il resto, e qui subentra Alex Cereda e il suo Shelly, è dato dal fatto che il patron della Sublima va a intervenire sul legno scelto e lavorato mediante delle specifiche lacche da lui elaborate nel corso del tempo e, soprattutto, interagendo in modo specifico sulla linfa presente nel legno, in quanto quest’ultima ha una dipendenza sia a livello vibrazionale, sia a livello elettromagnetico. Per risolvere queste problematiche, e ciò non vale solo per lo shell in questione, ma anche per molti altri “necessori” progettati e realizzati da Alex Cereda, bisogna attuare un processo di interazione, ossia di mediazione, processo che nel caso specifico significa usare specifici materiali, così come delle particolari vernici e lacche, il cui utilizzo proviene dal fatto che Cereda si occupa anche di liuteria, quindi trattando legni usati per costruire violini e altri strumenti ad arco. Così, impiegando queste vernici, elaborate e realizzate esclusivamente da Alex Cereda, in grado di “sollecitare” il legno, lo fanno “vibrare” in maniera molto più forte. Inoltre, l’uso di queste sostanze produce anche un altro effetto positivo, quello di agire, per l’appunto, in modalità di interazione, ossia “unendo” ciò che prima era “diviso” a livello elettromagnetico.
Un ultimo aspetto: se si fa attenzione, a differenza del tipo di testina e di braccio utilizzati, Alex Cereda pratica un foro sulla parte superiore o in un altro punto dello Shelly, che viene trattato con due particolari vernici, utilizzate dal patron della Sublima nel campo della liuteria, che lasciano un alone nero intorno alla circonferenza del buco stesso. Questa cavità serve per accogliere i picchi di risonanza, disciplinandoli e armonizzandoli, in modo da migliorare ulteriormente la trasmissione del segnale audio fornito dalla testina.
Di fronte a queste premesse ho chiesto ad Alex Cereda di provare lo Shelly, sostituendo lo shell in alluminio in dotazione al mio braccio SME 3009, un classico del mondo hardware analogico. Gentilmente, il patron della Sublima me ne ha inviato uno che aveva appena terminato di assemblare. Dopo averlo installato sul braccio, ho dovuto necessariamente lavorare e livellare il VTA, in quanto le dimensioni dello shell della Sublima differiscono da quelle dello SME, oltre al fatto che io utilizzo ben due mat della stessa azienda, dei quali ho già avuto modo di parlare in altri articoli. A quel punto, ero pronto per il test di ascolto. Ora, essendo alquanto difficoltoso il lavoro di sostituzione dello shell, da quello in alluminio dello SME a quello della Sublima e viceversa per l’ascolto dei vinili da me scelti, ho optato per tre titoli che conosco meglio delle mie tasche, in modo che potessi ascoltarli esclusivamente adottando lo Shelly sulla base dei miei precedenti ascolti effettuati, invece, con l’impiego dello shell dello SME.
Il primo titolo, che è un classico della Deutsche Grammophon, è la registrazione della Sinfonia n. 6 Pastorale di Ludwig van Beethoven, effettuata da Karl Böhm con i Wiener Philharmoniker risalente al 1971 e con la presa del suono effettuata da Günter Hermanns. Io possiedo la prima stampa, con tutte le sue gioie e i suoi dolori. Le gioie sono offerte dalla lettura appassionata e lucida del grande direttore austriaco, ben coadiuvato dalla leggendaria compagine viennese; i dolori sono causati dalla sciagurata cattura del suono, come nella norma della casa discografica amburghese di quel periodo. Riassumendo i “crimini” compiuti su questa incisione basterà ricordare che la dinamica ha un’energia pari a quella di un moribondo che sta per lasciare il mondo dei vivi, la ricostruzione del palcoscenico sonoro vede praticamente le varie sezioni dell’orchestrata restituite come se facessero parte di una “cartolina sonora”, nel senso che la struttura di una possibile profondità e dello spazio fisico che è presente tra i diversi strumenti sono pari a un’immagine in cui tutti i componenti della gloriosa compagine sono disposti sulla stessa fila, per non parlare dei registri enunciati a livello di equilibrio tonale, soprattutto quelli degli archi chiamati in causa nel corso del primo tempo, i quali, oltre ad essere flebili, sono di una spaventosa inconsistenza, a cominciare dai contrabbassi che, più che altro, muggiscono come delle mucche del Wisconsin. Infine, il dettaglio assume le macchie cromatiche di un quadro astratto, come quelli del grande Jackson Pollock, i quali in ambito pittorico sono dei capolavori, ma che trasposti in quello discografico fanno gridare all’orrore.
Insomma, una registrazione nefasta dal punto di vista tecnico, che ho voluto mettere alla prova con l’upgrade fornito dallo Shelly; ora, mi sono bastate poche battute del meraviglioso primo tempo, con gli archi che imbastiscono il tema introduttivo, per rendermi fulmineamente conto di un fatto: il suono che usciva dai quattro diffusori del mio impianto multiamplificato aveva dei connotati differenti che prima non riuscivo a percepire. Sia ben chiaro, i difetti tecnici erano ancora presenti, ma stavolta inseriti, “plasmati” all’interno di un quadro sonoro molto più realistico. Per essere più chiaro, era come se l’apporto dello Shelly avesse fatto sì che una patina sottilissima di “sporcizia”, che era depositata sull’immagine sonora e sulla resa palpabile dello spazio fisico, si alzasse all’improvviso per poter restituire la dimensione reale di ciò che era stato fissato dalla microfonatura.
Siccome sono assai affezionato a questa registrazione, anni fa ho acquistato anche il vinile audiofilo da 180 grammi realizzato dalla Clearaudio e rimasterizzato a partire dal nastro originale, con la lacca tagliata dal famoso ingegnere tedesco Willem Makkee presso gli studi di Emil Berliner e con la stampa del vinile che è stata affidata alla tedesca Pallas. Quindi, un miglioramento, da un punto di vista tecnico, decisivo, che mi ha permesso, una volta che il disco ha iniziato a girare sul piatto, di saggiare ancora meglio le proprietà e le doti dello shell della Sublima. Grazie agli accorgimenti adottati e fatti come Cristo comanda, ho capito che cosa significa l’affermazione secondo la quale attraverso un ascolto analogico si può finalmente avere la percezione di una registrazione che respira! Una registrazione che fornisce questa sensazione vuol dire che non solo tra le sezioni orchestrali, come in questo caso, si avverte l’aria che le separa, ma soprattutto che tutto il quadro sonoro, nella sua profondità, ampiezza e altezza, diviene magicamente tattile!
Va bene, lo ammetto, appartengo alla vecchia scuola, quella cresciuta e che è maturata tra i solchi e non mediante i bit, quella che prima di ogni ascolto ha i suoi rituali e le sue fissazioni, ossia controllando il peso della testina e tarandolo sulla base della temperatura e del tasso di umidità presenti, nel pulire accuratamente il vinile e a seguire, sempre con emozione e partecipazione, la testina che si abbassa lentamente prima di leggere le sacre informazioni sonore. Se poi, la magia dell’ascolto viene arricchita da un senso di coinvolgimento fisico, come quello che Shelly ha saputo svelarmi con le sue caratteristiche di progettazione e costruzione, beh… allora non c’è digitale che tenga, come inutilmente sostengono giovinastri/influencer su YouTube e su altri canali mefistofelici. Così, tornando al ruolo predominante degli archi nel primo tempo della Pastorale beethoveniana, l’impatto timbrico è stato a dir poco emozionante, a cominciare dai contrabbassi, che improvvisamente si sono resi conto che non erano delle mucche del Wisconsin, ma strumenti a dir poco fondamentali per restituire, nell’intreccio melodico, un registro grave che si poteva finalmente assaporare fin dal prodigioso attacco all’unisono dei professori della compagine viennese, oltre al nitore splendente, terso, luminoso dei violini e delle viole, il cui timbro era perfettamente riconoscibile e distinguibile, in modo da poter capire musicalmente il loro sovrapporsi, che nella scrittura del sommo genio di Bonn equivale a una tripla sottolineatura!
Ancora stordito, ma sopravvissuto a tale impatto, ho scelto un terzo e ultimo disco, una via di mezzo da un punto di vista della resa tecnica, ma straordinario sotto quello artistico, vale a dire il capolavoro monteverdiano dell’Orfeo, nella precisa e accurata lettura di Nikolaus Harnoncourt che dirige i componenti del Monteverdi-Ensemble Opernhaus Zürich, pubblicato nel 1981 dalla Telefunken. Ero curioso di ascoltare una presa del suono capace di ricreare uno spazio scenico e il rapporto ricostruito tra le voci e gli strumenti. E ciò era assai importante, visto che originariamente si trattava di una produzione televisiva dalla quale era stata poi estrapolata la traccia audio. Ebbene, anche qui, sull’onda del ricordo dei miei ascolti precedenti, la prospettiva fisica trasmessa con l’apporto dello Shelly è mutata completamente. Ancora una volta, di fronte a un risultato tecnico discreto, ma nulla più, la patina offuscata, come una coltre di polvere che ricopriva il palcoscenico sonoro, la dinamica e, soprattutto, il dettaglio, era stata spazzata via; se prima mi ero accontentato ad essere un ascoltatore, per così dire, passivo, ora, anche grazie alla microfonatura che aveva lavorato molto sul concetto della profondità scenica, potevo avvertire la netta illusione di essere parte di quella realtà scenica, tale era il senso di palpabilità che mi avvolgeva durante la fase di ascolto. Tutto lo spazio fisico si era improvvisamente spostato in avanti, ma non in modo scorretto, ma con una dovuta proporzione realistica di tutta l’immagine; ecco perché mi sentivo non solo emotivamente, ma anche fisicamente coinvolto, con le voci che si rincorrevano ben oltre i diffusori e con gli strumenti musicali che sorgevano dal basso, proponendo di fatto una ricostruzione che potevo percepire non solo attraverso l’udito, ma anche mediante l’apporto “visivo”. E poi, il realismo timbrico delle voci, a cominciare da quelle del baritono svizzero Philippe Huttenlocher nel ruolo di Orfeo e del mezzosoprano greco Glenys Linos in quello di Proserpina, la cui emissione era a tutto tondo, piena, esente da enfasi e precisa nel restituire la gamma medio-grave, così come quella acuta.
Diciamo che non ho avuto bisogno di avere in prova lo Shelly per comprendere come un intervento minimo, ma mirato, possa risultare determinante per volgere al meglio, come anche al peggio, la resa d’ascolto di una catena audio, ma è altrettanto indubbio che quando ciò accade, non si può fare a meno di rendere pieno merito a coloro che riescono a progettare componenti all’apparenza ininfluenti, come nel caso di un “semplice” shell, capaci di “svelare” finalmente ciò che si aveva già prima a disposizione. Dimenticavo, questo vero e proprio pezzo di liuteria prestato all’audiofilia, realizzato a mano, viene a costare appena 330 euro. E siccome Alex Cereda mette la mano sul fuoco per sancire la validità di ciò che produce, quando si acquistano i suoi “necessori”, scatta automaticamente la politica del “soddisfatti o rimborsati”.
Se i risultati sono quelli che ho avuto modo di provare e saggiare nel corso degli anni, vi lascio immaginare a quanto ammonti la categoria dei primi rispetto a quella dei secondi…
Andrea Bedetti
Distribuzione & prezzo
Sublima Shelly
Distribuzione: Sublima Audio Research
tel: 347.5800299 - mail: sublima@libero.it
web: www.sublimaresearch.com
prezzo: 330,00 Euro IVA inclusa