Schumann e Wolf-Ferrari: dal cuore del Romanticismo al suo tramonto
La domanda che segue, pur risultando retorica e alquanto pretenziosa, mette pur tuttavia il dito nella piaga: quanto è debitrice l’arte letteraria nella musica di Robert Schumann? E, soprattutto, come possiamo coglierla nel suo mondo variegato dei suoni? Sia ben chiaro, per focalizzare al meglio una possibile risposta, bisognerebbe ricondurre all’interno dell’arte letteraria anche l’importanza che le singole parole ebbero per il genio di Zwickau e di come cercò di mutarle, trasfigurarle attraverso il processo musicale. Nessun compositore romantico, difatti, ha cercato di portare avanti questo rapporto stretto tra parola (da non considerare nella sua accezione “librettistica”, ma in quella che potremmo definire “semiologica”) e suono che ne può conseguire.
D’altronde, l’ampliamento delle varie aree del sapere coinvolte dal pensiero e dall’estetica romantici nelle dinamiche dell’arte non devono meravigliare più di tanto l’ascoltatore e devono renderlo edotto di fronte all’attenzione che Schumann diede al potere simbolico dei lemmi in chiave musicale, così come pochi decenni dopo, ormai entrati di diritto nei confini del simbolismo, Rimbaud fece in chiave poetica, cercando di associare, con il potere evocativo dell’immagine, di dare una nuova vita alle singole lettere dell’alfabeto, a cominciare dalle vocali (vedasi la celebre poesia Voyelles, datata 1871, in cui ogni vocale viene abbinata a un colore), dando la stura a un procedimento di ulteriore trasmigrazione allegorica, che fu a sua volta ripreso da Skrjabin e dalla sua tastiera pianistica colorata fino, in pieno Novecento, al rapporto tra suono e colore sviscerato, per esempio, nello scambio epistolare tra Kandinskij e Schönberg.
Ma, tornando a Schumann, poiché tutto nasce da lui, non dobbiamo dimenticare che il citato procedimento di trasmigrazione simbolica/semiologica compiuta dal compositore tedesco non dev’essere disgiunto da quel vero e proprio transfert nel quale il musicista racchiude il suo Doppelgänger, vale a dire i due personaggi immaginari di Eusebio e Florestano, il Dioniso e l’Apollo che governano la maggior parte della sua musica. Alla luce di quanto esposto, è maggiormente chiaro il proposito che ha animato il pianista triestino Luca Delle Donne, il quale ha registrato per l’etichetta Da Vinci Classics tre celebri pagine schumanniane, tenendo proprio a mente, a livello di un filo rosso sotterraneo, questo procedimento di trasmigrazione simbolica tra parola e suono nel compositore romantico tedesco. Un programma che vede Carnival op. 9 e la prima versione della Sonata op. 14 in fa minore, oltre all’ultima delle otto Novelletten op. 21. Cronologicamente, ci muoviamo tra il 1834, anno in cui Schumann cominciò a progettare Carnival fino al 1838, quando furono concepite le otto Novelletten, e passando attraverso il 1836, quando Schumann pose fine alla tormentata stesura del Concert sans orchestre, come fu denominata la Sonata. Un lasso di tempo, questo, in cui la forza, la penetrazione dirompente dell’ambito letterario e della parola in sé sono di assoluta preminenza (il 1834, è bene tenerlo a mente, è l’anno in cui il compositore tedesco dà vita a Lipsia alla Neue Zeitschrift für Musik) e i cui risvolti teorici e applicati al contesto musicale si concentrano, tra l’altro, proprio nelle tre opere pianistiche prese in oggetto dalla registrazione di Luca Delle Donne.
Si comincia con Carnaval, uno dei capolavori assoluti del pianismo romantico, la cui nascita è motivata dal suo sottotitolo in francese, Scènes mignonnes sur quatre notes (questo e i titoli dei singoli brani furono formulati dallo stesso Schumann in francese) e di cui lo stesso autore spiegò la genesi in una lettera indirizzata a Franz Liszt, missiva nella quale tra l’altro scrive: «Le origini di questa composizione risalgono a una particolare circostanza. Una delle mie amicizie musicali è originaria di una piccola città chiamata Asch e siccome le quattro lettere che formano questo nome figurano ugualmente nel mio, mi è venuta l’idea di fare riferimento del loro significato musicale come punto di partenza di una serie di brevi pezzi, nello stesso modo in cui Bach fece con il proprio patronimico. Stimolai così tanto la fantasia, grazie a questa trovata, che un brano seguisse l’altro senza che me ne accorgessi, e siccome ciò accadde durante il Carnevale del 1835, una volta finita la composizione, aggiunsi i titoli e denominai l’opera “Carnevale”». E che ci sia una determinata “programmaticità” in quest’opera, fu ancora lo stesso Schumann, in una lettera inviata a Ignaz Moscheles, a chiarirlo, parlando apertamente di «intenzioni immaginifiche» che scaturiscono dai venti brani di Carnaval. Questa operazione di “immaginificazione” è il risultato delle appassionate letture delle opere letterarie di Jean Paul ed Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, che il non ancora ventenne Schumann fece a Lipsia nel periodo in cui seguì le lezioni di diritto e di filosofia alla locale università, letture altamente formative, attraverso le quali precisò meglio le finalità estetiche della sua opera letteraria e musicale (non a caso, da Jean Paul il compositore prese lo spunto per creare i personaggi fittizi di Eusebio e Florestano dopo aver letto il romanzo Flegeljahre, “Anni di scapigliatura”, nel quale vi sono le figure contrapposte di Walt e Vult).
Poche opere, non solo nel catalogo schumanniano ma nell’intera letteratura pianistica romantica, possono vantare una veemente liricità come le Novelletten, il cui titolo gioca sul significato di piccola novella, quasi una deliziosa quisquiglia, e sul cognome del soprano inglese Clara Novello, uno dei più celebri della prima metà dell’Ottocento, soprattutto in Germania. Una liricità, una densità di intenti trasfigurativi, anche letterari, che si fissano sulla tastiera del pianoforte, dando vita a una serie di otto momenti musicali nei quali prende corpo lo stato di esaltazione che Schumann visse in quel periodo, quando il suo amore nei confronti di Clara Wieck (alla quale è idealmente dedicata l’op. 21) fu osteggiato dal padre di lei. Rifugiarsi nel sogno, dare libero sfogo a Eusebio e a Florestano, soprattutto a quest’ultimo, visto che tutti gli otto brani sono in tonalità maggiore, cinque dei quali addirittura in re maggiore, a testimonianza dell’eroismo esistenziale che li pervade: è questo l’obiettivo “programmatico” che l’autore si pose. Immagini e parole che, trasmutate nella confortante astrattezza del suono, trasformano l’infelicità del giovane e focoso compositore in una felicità dal chiaro rimando letterario, permettendogli di essere lui stesso personaggio tra i personaggi, protagonista sulla carta (di un libro o di un pentagramma poco importa) e non nella vita reale. Tutto ciò viene reso sulla tastiera del pianoforte con una pregnanza, con una totalità sistematica della materia sonora, la quale dimostra ormai di essere perfettamente dominata e gestita dalla forma magmatica, per l’appunto proteiforme, che Schumann ha raggiunto.
Una forma che entra direttamente in gioco, da ultimo, nella Sonata in fa minore op. 14, ossia l’altra faccia di Florestano, che vive il suo dolore, la sua sofferenza, il proprio vittimismo, in quanto le dimensioni originali di questa composizione, così ammirata da Horowitz, portano inevitabilmente Schumann a confrontarsi con il monumentalismo d’intenti di matrice lisztiana, anche se poi il risultato non è quello di far confluire i timbri orchestrali nella tastiera, ma dimostrare che il pianoforte può eseguire un concerto, come spiega il sottotitolo, sans orchestre. Un’opera la cui natura travagliata già è testimonianza dei tormenti vissuti e sperimentati da Schumann in chiave esistenziale, prima ancora che in quella artistica, questo perché il compositore di Zwickau, come mostra il manoscritto autografo, portato a termine nel giugno 1836, comprende ben cinque tempi (Allegro - Scherzo I - Variazioni - Scherzo II - Presto) ma che l’autore, su suggerimento dell’editore viennese Haslinger, condensò poi in una Sonata dalla quale cancellò i due Scherzi, uno dei quali poi fu reinserito come secondo movimento da Schumann nell’autunno del 1853, ossia poco prima di cadere vittima della follia, oltre a modificare parzialmente i due tempi estremi. Ma le dimensioni originarie della composizione devono inevitabilmente rimandare alle ultime Sonate beethoveniane e anche alla dilatazione temporale presente in quelle ultime schubertiane, in cui si cela il germe della modernità, alla quale l’autore mirava nel tentativo di sganciarsi definitivamente da un passato ingombrante e poco allineato alle necessità che l’epoca romantica richiedeva (e la scelta di dedicare quest’opera a Moscheles la dice lunga), tenuto conto delle molteplici asperità presenti, delle diverse dissonanze disseminate nel corso della partitura, tali da restringere il campo d’ascolto a una platea di pochi, veri intenditori. Ma il distacco, in Schumann, rispetto al passato, non è netto, non è risoluto, visto che a fare da cordone ombelicale è proprio l’architettura, la forma della Sonata, più che quella del Concerto da intendersi in chiave lisztiana. Da qui il tormento stilistico, visto più come una sfida che come un problema, che va ad aggiungersi a quello esistenziale (diciamolo francamente: nelle vesti di un padre, come lo fu Friedrich Wieck, il quale si rese conto della debolezza mentale del giovane Schumann, gli avremmo consegnato a cuor leggero la mano di nostra figlia?), in quanto la rigidità della forma nella Sonata risulta essere alquanto indigesta in un autore che, fino a quel momento, aveva dato il meglio di sé, come appunto confermano sia Carnaval, sia, in prospettiva futura, le Novelletten, con la forma ristretta, nella breve descrizione, nel rappreso tratteggiare della materia musicale, senza contare che i tempi nuovi non richiedevano più l’osservanza di determinati canoni stilistici e formali, tanto è vero che in una recensione del 1839, dedicata alla Sonata op. 45 per violoncello e pianoforte di Mendelssohn, Schumann scrive che ciò che importa non è il nome (leggasi struttura) da dare a una composizione, che la si chiami Sonata o Fantasia, ma la musica da offrire, qualunque sia la forma con la quale la si presenta. Ecco, allora, che con la Sonata op. 14 il compositore di Zwickau intende prendere la palla al balzo, o continuando con la metafora calcistica, salvando capra e cavoli mandando il pallone in calcio d’angolo, ossia rifugiandosi nell’idea, nella decisione di calare la forma classica della Sonata nella temperie romantica, sganciandola così, almeno in parte, dalla rigidità canonica proveniente dal passato. E quindi, ancora una volta, le tensioni di matrice letteraria, la dicotomia emotiva ed emozionale data dal Doppelgänger Eusebio/Florestano, l’irruzione del sogno che va a mitigare la crudeltà e il filisteismo del reale, che portano Schumann alla realizzazione dapprima dilatata, e poi ristretta, della Sonata op. 14.
E qui interviene la lettura data a queste tre composizioni da parte di Luca Delle Donne, le cui scelte concertistiche e discografiche sono sempre improntate più da un côté musicologico che da quello meramente interpretativo, il che rende più intrigante la loro analisi. Dunque, bisogna partire da come il pianista e studioso triestino affronta il denominatore che accomuna queste tre opere schumanniane, quello dato dal concetto di Traum che unisce la sfera letteraria e del Doppelgänger con quella musicale, l’entità di un sogno che dev’essere reso carnalmente temporale, e allo stesso tempo, espresso spazialmente, in termini sonori, con una determinata scelta agogica, senza delegittimare per questo l’impianto formale dell’opera stessa. Detto in soldoni, osare senza tradire.
Partiamo da Carnaval; qui il problema, da un punto di vista interpretativo, è come rendere evidenti, senza per questo snaturarle, ossia esagerando tale evidenza, le sottolineature didascaliche apportate dallo stesso compositore per spiegare le immagini trasfigurate di personaggi quali Pierrot, Arlecchino, Pantalone e Colombina, ma anche Chopin e Paganini, vissuti eroicamente nella sfera interiore, senza contare la presenza (ossessiva) dello stesso autore proiettato nella rappresentazione dualistica di Eusebio e Florestano, facendo in modo, attraverso lo strumento musicale, di rendere l’idea del sogno contrabbandandola per realtà: una falsa, fittizia realtà data da un’ennesima immagine iniziale, quella di una festa danzante alla quale partecipano tutti questi personaggi (il secondo tempo della Symphonie fantastique di berlioziana memoria vi ricorda forse qualcosa?).
Ebbene, Luca Delle Donne, perché dietro l’interprete si annida sempre il musicologo, non si lascia prendere dalla foga, dal voler rendere unicamente il sogno, l’immagine in sé, ma li riconduce sempre a un ordine sotteso, a una disciplina (Bach se ci sei, batti un colpo), che dev’essere seguita e decodificata attraverso l’andamento agogico che ne consegue. Qualche esempio per capire meglio: potrà stupire come il pianista triestino dipana Pierrot (Moderato), con una lentezza che va oltre il tempo dichiarato, come se la maschera si muovesse al rallentatore, frame dopo frame, comunicando però un sentore ironico o non certo di sola mestizia, come se tutto ciò che si sta ascoltando è in fondo una farsa; parallelamente, Arlequin non viene declamato comicamente, ma descritto con un sottile gioco timbrico, circoscritto con una raffinata psicologia dei colori. Allo stesso tempo, la Valse noble assume contorni nostalgici, quasi patetici, con un andamento agogico che ne esalta delle tinte sottilmente appassionate, ma che sembrano destinate a rimanere deluse, insoddisfatte. Nei passaggi più veloci, come in Florestan (Passionato), la declamazione del fraseggio non viene mai calcata, ma resta sempre leggera, leggiadra, proprio a voler dimostrare l’inconsistenza del sogno che cerca di farsi strada nella realtà delle cose; inoltre, Sphinxes viene reso con una spettralità abissale, al punto tale che se venisse estrapolato dal suo contesto, questo micro-brano, qui dura meno di quaranta secondi, potrebbe essere scambiato per un’opera contemporanea tale è la sua straordinaria modernità. Ma, tornando al denominatore comune, è indubbio che Luca Delle Donne, nei segmenti più lenti, così come in quelli più veloci, tende a fornire un suono, un timbro nel quale non viene mai a mancare una sua trasparenza, un’evanescenza tali da trasmettere, fin dal primo ascolto, quel senso di irrealtà, di vaporosità sognante, di una realtà vissuta solo interiormente, alla stregua di un sogno fatto ad occhi aperti, anche se si sa che è destinato a restare tale (si ascolti la dolce disperazione che emana Chiarina (Passionato) e ancora Chopin (Agitato), in cui è palpabile quello spleen esistenziale che Schumann intende far trasparire al di là dei confini puramente letterari), mentre un altro esempio è dato da Reconnaissance, in cui il pianista triestino tramuta la tastiera del pianoforte in una di quelle pianole a manovella che percorrevano le strade in un remoto passato per la felicità dei bambini, ma che davano un senso di pacata tristezza.
Con questa ricerca di finezze psicologiche dei vari personaggi da lui esposta, Luca Delle Donne ci ricorda che il sogno riguarda una soirée danzante, ma che i suoi protagonisti sono fondamentalmente degli attori che recitano su un palcoscenico immaginario e che le loro azioni sono dettate dai loro contrasti scenici, contrasti che il pianista triestino riporta ed esalta con un sagace gioco timbrico che, di volta in volta, è il succo di una pagina o di alcune pennellate che miracolosamente restano agganciate al treno dell’ascolto. E su tutto, anche quando fisicamente non è presente, domina il ritmo di un valzer che puntualmente ritorna per farci comprendere che la farsa va avanti, anche quando Carnaval finirà con la Marche des «Davidsbündler» contre les Philistins, che Luca Delle Donne trasforma quasi in un Corale ironico, attraverso il quale tutti i personaggi escono di scena, per riportarci a quella realtà dalla quale eravamo stati magicamente e momentaneamente allontanati.
Ma con il pianista triestino il sogno continua anche con l’ultima delle otto Novelletten, la quale soggiace a un fondo in cui la dimensione fantasmagorica delle immagini che si accavallano vorticosamente ora ha il sapore di una pacata ironia, ora di un irrefrenabile desiderio, ora di un ricordo che è bello e brutto allo stesso tempo, e questo perché la volontà costruttiva del pianismo di Delle Donne riesce a restituirne la debita volumetria delle forme che si alternano, alterando, ma sarebbe più corretto scrivere centellinando, le variazioni timbriche dei quadri letterari/pittorici che tali immagini riflettono, trasmettendo così l’intimità stessa vissuta interiormente dal loro autore. Il pianista triestino riesce sempre a restituire questa sollecitudine immanente, questa sensazione di una fuggevolezza che è destinata a perdersi nei meandri del tempo e dello spazio, e questo grazie a un pianismo capace di esplorare le mezze tinte, giocando con i mezzi toni, accarezzandoli e lusingandoli, prendendo per mano l’ascoltatore, facendo sì che i suoni risultino sempre visivamente riconoscibili.
Alla luce del tipo di lettura che Delle Donne ha voluto dare di queste due pagine, si può poi capire meglio il perché della scelta fatta nel voler includere la Sonata op. 14. Questo perché Schumann, ci vuole spiegare l’artista triestino nella sua veste di musicologo, è colui che, come nessun altro, è in grado di presentarci il mistero della mutevolezza delle forme musicali, passando dalla fuggevolezza alla monumentalità, dalla leggerezza allo studio dei pesi, dal sogno alla sottomissione, sempre che possa essere definita tale, di un canone. Ecco, allora, che la Sonata rappresenta il debito compimento di tale trasmutazione, poiché qui il pianista posa il calamo e la tavolozza pittorica per circoscrivere il suono al regno che gli appartiene, la tastiera del pianoforte, poiché la monumentalità disperata del primo tempo, l’Allegro brillante, deve poi fare inevitabilmente e ineluttabilmente i conti con quelle oasi timbriche di cui è disseminato, senza mai perdere il senso cristallino, quasi etereo che le governa (e il suo approccio interpretativo sembra dirci: “Vedete quante forme Schumann immette in questa forma?”). Con le Quasi Variazioni. Andantino de Clara Wieck, il pianista triestino prende poi parte a una marcia, in cui l’afflato della mestizia, del non soddisfacimento del desiderio destinato, per il momento, a restare tale, si unisce all’ardore erotico che si trova ad essere represso (l’aspetto dell’eros in Schumann è conclamato, ossessivo: basta ricordare come nel suo diario il compositore annotasse scrupolosamente tutti i rapporti sessuali che aveva con la moglie e il che ci fa comprendere come un Rocco Siffredi potrebbe uscirne imbarazzato); questo procedere tra desiderio e astrazione, purezza e peccato carnale, Luca Delle Donne lo esprime con un fraseggio che riassume un senso singhiozzante, angosciosamente alterato, in cui raggi di speranza, quelli che appartengono alla seconda metà del tempo, si trasformano in ciambelle di salvataggio (l’uso dei pedali viene parcellizzato, diluito a fronte di un tocco rotondo, pieno e delicato al tempo stesso), che si vanno a infrangere contro gli scogli dei funebri rintocchi di campana con cui il tutto si conclude. L’ultimo tempo, Prestissimo possibile, sotto le dita di Luca Delle Donne non è la rappresentazione di un piano anarchico, di un “liberi tutti” dal quale fuggire dopo le repressioni vissute nei primi due tempi, ma si trasforma in una piena e riuscita ricostruzione architettonica di una forma che se, nelle intenzioni schumanniane, vuole essere libera, l’interprete intende ricondurre a un “ordine”, a un “prestabilito”: va bene che conta la Musica, ma l’involucro, dopotutto, ha sempre la sua importanza; e l’involucro con il quale il pianista confeziona questa libertà espressiva merita un suo codice, una Bildung che deve offrire, nel pieno rispetto dell’estetica romantica, un respiro armonico sempre riconoscibile, sempre attuabile. E lo fa dannatamente bene, con una passione che corre disciplinatamente tra i binari di un’esposizione luminosa nella sua terribile lucidità.
Lo stesso Luca Delle Donne è poi il protagonista di un’altra recente registrazione, pubblicata dall’etichetta Naxos, con il violinista Emmanuele Baldini, oltremodo interessante in quanto presenta le tre Sonate per violino e pianoforte di Ermanno Wolf-Ferrari, un compositore che continua, malgré soi, a restare un autore confinato ai margini dell’ascolto musicale, soprattutto per quanto riguarda la sua produzione strumentale. Questo perché il compositore veneziano resta ancora oggi fondamentalmente un “incompreso”, un non focalizzato, in quanto, anche a causa dell’epoca in cui visse (nacque nel 1876 e morì nel 1948), si venne a trovare nella scomoda situazione di essere un italiano sotto il dominio asburgico e imbevuto, allo stesso tempo, di un’irrinunciabile cultura germanica (il padre, August, fu un affermato pittore tedesco): insomma, Wolf-Ferrari fu il risultato di due visioni del mondo che andarono in frantumi nel loro precario equilibrio quando, allo scoppio della Prima guerra mondiale, si trovarono su fronti opposti. In fondo, l’intera vita del compositore veneziano, il quale visse un lungo periodo anche a Monaco di Baviera e a Zurigo, è la ricerca, sempre più drammatica, di trovare una risoluzione, un equilibrio tra gli opposti culturali e antropologici nei quali fu costretto a dibattersi, anche da un punto di vista musicale.
Questa ricerca lo portò inevitabilmente a “settorizzare” la sua attività di compositore, con la sua produzione, che prese avvio nel 1895 proprio con la Sonata n. 1 op. 1 per violino e pianoforte, dapprima incentrata nell’ambito strumentale, per poi concentrarsi, nei primissimi decenni del Novecento, in quello operistico, con il quale ottenne i maggiori successi, soprattutto in Germania, e infine concludersi, nell’ultimo decennio di vita, nuovamente con opere strumentali. Ma sia la produzione operistica (votata alla tradizione italiana rossiniana e dell’ultimo Verdi, che conobbe di persona), sia quella strumentale (del tutto aliena al fascino delle avanguardie musicali del primo Novecento, a cominciare da Schönberg e il serialismo, ma portata avanti sul solco di un certo Romanticismo, Mendelssohn su tutti, e sulle acquisizioni armoniche e linguistiche di Brahms) sono dunque figlie di un percorso originale, del tutto autonomo e per un certo verso sganciato dal presente storico in cui Wolf-Ferrari visse e operò. E in tal senso, le tre Sonate per violino e pianoforte, con le altre due che furono scritte rispettivamente nel 1901 e nel 1943, rappresentano una possibile cartina al tornasole attraverso la quale comprendere non solo l’evoluzione stilistica dell’autore, almeno per ciò che riguarda il genere cameristico, ma anche e soprattutto lo stato d’animo, le speranze e i turbamenti che inevitabilmente si alternarono sulla base degli eventi vissuti (sotto questo punto di vista, il titolo del CD in questione, Dreams and Drama, è perfettamente sintomatico e allineato a tale visione).
Dapprima il sogno, ossia la speranza, incarnata dalla Sonata n. 1 in sol minore, la quale indica chiaramente le intenzioni strumentali di Wolf-Ferrari, di come la sua volontà, anche per via degli studi effettuati principalmente al conservatorio monacense, fosse originariamente votata a una musica assoluta, secondo gli intendimenti germanici, vale a dire strumentale. Certo, le origini, come è stato già fatto presente, sono Mendelssohn da un lato e Brahms dall’altro, ma non manca una spontaneità compositiva, un già iniziale procedimento autonomo, che si concentra su una spiccata resa melodica (e qui le influenze musicali italiane si fanno sentire), con la quale mediare la struttura dei tre tempi in cui è suddivisa la composizione. Lo testimonia, prima di tutto, l’andamento rapsodico del primo tempo, Sostenuto - Allegro appassionato quasi presto, in cui il violino, nella sua linea espressiva, si lascia andare a slanci lirici per i quali non ci si deve meravigliare se Wolf-Ferrari optò in seguito per il repertorio operistico. Il secondo tempo, Lento senza tempo - A tempo di Adagio, denota un’altra influenza nel giovane Wolf-Ferrari, quella data dalle lezioni che l’autore ricevette a Monaco da Josef Rheinberger, eccelso organista, poiché l’andamento del pianoforte assume piani squisitamente organistici, grazie ai quali il violino può dipanare un susseguirsi sognante, a tratti decisamente etereo, che si risolve in un severo corale. Il finale, un Sostenuto - Allegro ma non troppo e con spirito, è una sorta di compendio dei due tempi precedenti, con da una parte un andamento eroico, viscerale, enfatico, che si alterna a momenti in cui subentra invece una forma contemplativa, di riflessione introspettiva.
Passano poi sei soli anni, ma con la Sonata n. 2 in la minore op. 10 ci troviamo in un altro mondo, in quanto il sogno/speranza lascia già posto a una forma conclamata di dis-incanto, sebbene la composizione sia stata dedicata dall’autore al padre, per il quale provò sempre una grande ammirazione. Pianificata su due soli tempi (elemento che deve far riflettere) la composizione si apre con un Appassionato, che lascia intravvedere sorprendentemente uno slancio modernista, dove da un lato abbiamo il pianoforte che lancia richiami concitati e dall’altro il violino che risponde in maniera che se non è spettrale, lo fa quantomeno in modalità claustrofobica, poiché vie d’uscita, all’accennarsi del tema, non ne trova. Ma sopraggiunge un mutamento repentino, che permette allo strumento principale di abbozzare una linea melodica che non manca a tratti di una larvata ironia (quella che contraddistingue, tra l’altro, buona parte della produzione operistica di Wolf-Ferrari). Sotto un certo punto di vista, questo elemento ironico viene in seguito disincarnato, prosciugato con l’irruzione del secondo tempo, Recitativo: Adagio - Sostenuto con amore, semplicemente, in cui l’eloquio del violino si trasforma in una cornice (falsamente) salottiera, in quanto il suono rappreso, quasi livido che emana non rimanda a connotazioni “tostiane”, ma resta ad aleggiare incompiutamente nello spazio fisico e temporale (altro indubbio segno di una modernità indotta). Certo, non mancano afflati, sdolcinerie zuccherate (ma quanto da intendere come tali?), languidezze che però denotano penombre, se non vere e proprie ombre.
Atto terzo. La Sonata n. 3 in mi maggiore op. 27 sancisce la fine anche del disincanto e mostra il volto del dramma, mutuato anche dalla tragedia del secondo conflitto mondiale, vissuto da Wolf-Ferrari a Zurigo, lontano sia da Venezia, sia da Monaco di Baviera. Un dramma che l’autore estrinseca non con toni netti, implacabili, prefiguranti la sciagura storica di quel presente, ma con un’espressività altamente evasiva, sfumata, come se l’obiettivo focale della sua creatività fosse sfuocato, scontornato volutamente in maniera imprecisa. La stessa articolazione, spalmata su quattro tempi, rappresenta una sorta di viaggio esplorativo all’interno del proprio Io, con l’intento, forse, di mostrare pacatamente, quasi con un senso di distacco, i tormenti interiori e la presa di coscienza di una progressiva e ineluttabile frantumazione di quel mondo esteriore con il quale il compositore veneziano si era confrontato nei decenni passati. Questa è l’unica Sonata suddivisa in quattro tempi. Nel primo tempo, Allegro moderato, il magistero compositivo ormai raggiunto dal compositore veneziano si dipana attraverso una combinazione armonica che vede da una parte il congeniale sviluppo rapsodico di Wolf-Ferrari con una figurazione dal sapore squisitamente bachiano, come a voler dare ordine a un caos interiore ed esteriore, andando ben oltre al modo di costruzione tipico nella musica di Max Reger, autore che in tale circostanza può essere preso come possibile modello stilistico. Il contrappunto come possibile cura, quindi, grazie al quale cerca di dare un significato al dissolversi di un mondo e, in un certo senso, della propria vita. Allo stesso modo, il secondo tempo, Andantino con innocenza, continua quest’opera di “esorcismo interiore”, fornito dall’atto salvifico di una sorta di pastorale, in cui la struttura a tratti saltellante, sotto l’incalzare del pianoforte, viene spezzata nella parte centrale da un ennesimo segmento rasserenante, enunciato attraverso un corale (ancora Bach!). Il terzo tempo, Agitato con passione, è un vero e proprio resumé nel quale, sotto la forma di una fantasia, vi è un susseguirsi di proiezioni sonore in cui si riconosce la chiave di volta di una parafrasi operistica densa di mutamenti umorali, con i due strumenti che si atteggiano ad altrettanti voci umane che illustrano il senso drammatico di tutta la composizione; così, la drammaticità lascia spazio alla malinconia, all’enunciazione di uno stato d’animo in cui si accavallano molteplici sensazioni che danno la stura al caos vissuto dall’autore, ma sempre con un pacato ordine esteriore. L’ultimo tempo, Allegro molto con fuoco più allegro del primo tempo, è un immane calderone dal quale Wolf-Ferrari, di volta in volta, tira fuori raffigurazioni strutturali che rimandano a un andamento nuovamente bachiano, il quale cede il passo dapprima a un concerto classico e poi ancora a un passaggio smaccatamente operistico, con il quale fa calare il sipario.
La varietà di intenti, di impronte stilistiche, di mutamenti interiori (questi ultimi importantissimi in Wolf-Ferrari), impongono una lettura in cui l’espressività deve sempre primeggiare senza dimenticare l’involucro che la contiene, un involucro che di volta in volta è spesso, elaborato, oppure diafano, una pellicola sottilissima che dev’essere resa in modo ideale, altrimenti il mondo creato dal compositore veneziano rischia di andare in frantumi, snaturato dalla sua essenza creativa. Un rischio che viene accuratamente evitato dalla coppia Baldini & Delle Donne, poiché l’interpretazione che offre è di un nitore, di una lucidità tali che la materia puramente intellettuale della creazione si unisce idealmente al suono emanato.
Detto a chiare lettere, Emmanuele Baldini fa in modo che la tessitura violinistica non sia mai invasiva, da primadonna, tanto per usare un termine operistico, ma sempre capace di offrirsi al dialogo, alla volontà di cercare un contatto continuo con il pianoforte. Si tratta di un sottile equilibrio timbrico, nel quale violino e pianoforte si devono necessariamente incontrare e restare, in modo da fornire un pieno sviluppo architettonico alla forma. Se si ascoltano con attenzione queste tre Sonate (e ciò vale soprattutto per la Terza), si riesce a percepire la difficoltà di tale incontro e di come l’incontrarsi stesso debba essere foriero di una precisa dimensione sonora, la quale deve evidenziare le nervature, i gangli nervosi, l’elettricità interiore che la sovrintendono. E se il violino in ciò è una batteria che non si scarica mai, sia ben chiaro: questa elettricità dev’essere domata da una resa esecutiva ponderata, meditata nel suo atto stilistico, il pianoforte (il suo ruolo, con il progredire delle tre Sonate, diviene sempre più delicato ed essenziale) non è da meno, poiché questo strumento, grazie alla raffinatezza compositiva di Wolf-Ferrari, è l’alter ego del violino e deve porsi allo stesso modo, affinché l’esasperato equilibrio necessario possa attuarsi.
La presa del suono della registrazione Da Vinci Classics, effettuata da Gabriele Zanetti, è in grado di restituire compiutamente la delicata possanza del pianoforte Yamaha Grand-Piano CFX utilizzato da Luca Delle Donne. La dinamica è corposa, rocciosa, ma piacevolmente naturale, fluida nelle escursioni repentine dal ppp al fff. A livello di palcoscenico sonoro, lo strumento non viene ricostruito in modo ravvicinato, ma posizionato a una discreta profondità, con l’accortezza di rendere, tra i due diffusori, la percezione dell’ambiente fisico nel quale si trova. L’equilibrio tonale mostra correttezza nella riproposizione dei registri e il dettaglio non pecca di matericità, con la netta sensazione fisica del pianoforte.
Altrettanto valida la presa del suono effettuata da Eduardo Avellar per la registrazione Naxos; la dinamica è sufficientemente corposa, così come esente da evidenti enfasi coloristiche improprie. La ricostruzione del palcoscenico sonoro è corretta, con i due interpreti posizionati al centro dei diffusori, a una debita profondità e con il violino leggermente avanzato sulla sinistra rispetto al pianoforte; l’equilibrio tonale non denota scompensi di sorta e permette ai registri dei due strumenti di non coprirsi gli uni con gli altri, infine il dettaglio denota una buona resa fisica del violino e del pianoforte, con una conseguente messa a fuoco di entrambi.
Andrea Bedetti
Robert Schumann – Carnaval Op. 9-Piano Sonata Op. 14-Novellette No. 8 Op. 21
Luca Delle Donne (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00448
Giudizio artistico 4,5/5 Ermanno Wolf-Ferrari – Dreams and Drama. Violin Sonatas Nos. 1-3 Emmanuele Baldini (violino) Luca Delle Donne (pianoforte) CD Naxos 8.574297
Giudizio tecnico 4/5