Quando Monteverdi e Piero della Francesca si stringono idealmente la mano…
Prendete una delle chiese più carismatiche della storia dell’arte italiana (e quindi mondiale), organizzatevi un concerto con musiche di uno dei più grandi compositori della storia della musica, eseguito da uno dei più leggendari gruppi corali al mondo, shakerate bene il tutto e avrete la fortuna, se sarete presenti, di essere protagonisti di un’esperienza unica, quasi irripetibile. Ciò avviene quando il luogo in questione è la Basilica di S. Francesco ad Arezzo, nella quale si trova la Cappella Bacci, che ospita gli affreschi di Piero della Francesca dedicati al ciclo della Vera Croce, il compositore in questione è il divino Claudio Monteverdi e gli interpreti sono i componenti della Cappella Marciana di Venezia diretti da Marco Gemmani. Si potrebbe forse desiderare di più?
È quanto avvenuto la sera del 14 luglio scorso, in occasione di un concerto che la prestigiosa compagine veneziana e Marco Gemmani, accompagnati da Andrea Trovato all’organo portativo, nel quadro della XVIII edizione del Festival Terre d’Arezzo, di cui lo stesso Trovato è direttore artistico, hanno tenuto con in programma la monteverdiana Missa in tempore passionis, risalente al 1610, la cui struttura è formata da tre brani che fanno parte di quel capolavoro che porta il titolo di Missa in illo tempore, pubblicata in quello stesso anno (più precisamente, il Kyrie, Gloria, il Credo e il Sanctus, Agnus Dei), unitamente ad altri sei composizioni che sono dei cosiddetti contrafacta (ricordo che il contrafactum, nella musica vocale, è un metodo che si riferisce alla sostituzione di un testo cantato per un altro, pur non apportando modifiche alla parte musicale, quando un testo di musica profana viene sostituito da uno che appartiene alla musica sacra e viceversa). Nello specifico della Missa in tempore passionis, l’Ad introitum è dato dal Longe a te mi Iesu (che rappresenta la contraffazione della contraffatta Longe da te, cor mio dal Quarto libro dei madrigali monteverdiano), l’Ad epistolam da Te Iesu Christe (dalla contraffatta Ecco piegando le ginocchia a terra dal Quinto libro dei madrigali), l’Ad evangelum da O gloriose martyr (dalla contraffatta Che se tu, se’ il cor mio dal Quarto libro dei madrigali), l’Ad offertorium da Domine ne in furore (quest’ultimo pubblicato nel Libro primo de motetti in lode d’Iddio nostro signore di Giulio Cesare Bianchi), l’Ad communionem da Iesu dum te contemplor Maria quid ploras (dalla contraffatta Cor mio, mentre vi miro dal Quarto libro dei madrigali) e l’Ad recessionem da Sancta Maria (dalla contraffatta Deh bella e cara e sì soave un tempo dal Quinto libro dei madrigali). Per completare le informazioni di carattere filologico, è bene ricordare che le contrafacta utilizzate provengono dal Terzo libro della musica di Claudio Monteverde a cinque voci, a cura di Aquilino Coppini e dalla Musica tolta dai madrigali di Claudio Monteverdi e d’altri autori, a cinque et a sei voci e fatta spirituale, sempre a cura di Aquilino Coppini, pubblicati a Milano rispettivamente nel 1609 e nel 1607.
Chiarito ciò, ci troviamo di fronte a una composizione a dir poco impervia, a livello tecnico ed espressivo, uno straordinario concentrato delle tipiche peculiarità compositive monteverdiane, caratterizzate da un’accesa e sublime drammaticità che dev’essere sempre resa con un’aderenza stilistica nella quale la passione si coniuga con una pletora di sottili sfumature psicologiche (la cifra teatrale del sommo cremonese va sempre ad ammantare buona parte delle sue opere, anche quelle che non appartengono al genere teatrale stesso!). Ma a questa difficoltà squisitamente musicale, Marco Gemmani, Antonio Trovato e i componenti della Cappella Marciana hanno dovuto affrontare e scendere possibilmente a patti con un’altra grande, imprevista difficoltà: il caldo atroce che ha martoriato tutto il corso dell’esecuzione.
E qui apro una parentesi: come purtroppo ci ricordano i climatologi, siamo ormai vittime di una mutazione climatica che ha trasformato le nostre estati in un calvario infernale, dettato da temperature che vanno sempre più a braccetto con quelle che si hanno nel Sahara africano e, a livello di umidità, prossime a quelle che si trovano nelle terre del sud-est asiatico. Lo testimonia il fatto che all’interno della Basilica francescana, non certo di limitate dimensioni, alle nove di sera, quando il concerto stava per iniziare, c’erano più di 35° (certificati dall’app che ho installato sul mio smartphone). Al di là del fatto che nei prossimi anni i direttori artistici delle manifestazioni e dei festival musicali spalmati durante i mesi in cui imperversano le varie ondate micidiali di calore, che si chiamino Cerbero o Caronte poco importa, dovranno capire se mandare ancora al supplizio artisti e spettatori o spostare i loro programmi concertistici in altre stagioni, resta il fatto (essendo seduto in prima fila, a due metri dai coristi che formavano le estremità di un semicerchio, l’ho potuto constatare con i miei occhi e con un paio di litri di sudore versati senza ritegno) che tutti gli interpreti di questo meraviglioso concerto hanno saputo dare prova di un coraggio che è andato oltre i confini della temerarietà e che, come vedremo, ha causato anche qualche problema nella parte finale del medesimo. Cantare un autore come Monteverdi in tali condizioni rappresenta già motivo di plauso e di ammirazione, poiché chi era seduto nelle primissime fila si è reso perfettamente conto della fatica e della prostrazione che i componenti della Cappella Marciana, oltre allo stesso Trovato all’organo portativo e a Marco Gemmani, hanno dovuto patire per più di un’ora.
Eppure, il risultato è stato commovente, grazie alla magica aura che gli artisti sono riusciti a creare in questo luogo meraviglioso, con alle spalle uno dei capolavori assoluti dell’arte pittorica occidentale. Sì, perché la loro lettura, il loro canto ha fatto sì che idealmente Piero della Francesca e Claudio Monteverdi potessero stringersi la mano, rinsaldando quel patto sublime che le varie espressioni artistiche hanno saputo donare nel corso dei secoli passati e che hanno fatto grande l’idea di Occidente, nel senso più nobile e intellettuale del termine. Io non so se la scelta da parte di Marco Gemmani abbia tenuto conto di ciò che artisticamente è già presente in questa basilica, ma è apparso fin troppo evidente, già dalle prime battute del Longe a te mi Iesu, che stava avvenendo un miracolo estetico: la plasticità delle forme pittoriche dell’artista di Borgo Sansepolcro, le quali danno inizio al trionfo della prospettiva, della profondità, del rapporto perfetto che si viene a creare tra i corpi e le cose inseriti in questi affreschi, si andava a unire, ad essere osmosi, con la plasticità della musica del cremonese, che si alzava maestosa, implacabile all’interno del luogo sacro.
Prospettiva e polifonia, arte delle linee e dei colori ed arte dei suoni fusi in un intreccio in cui nemmeno l’assoluta mancanza di una sola stilla di sensibilità potrebbe impedire l’affacciarsi di una lacrima di commozione. Così, ascoltando il progredire della musica, ritmo che diviene linea, linea che si sovrappone a linea, linee che creano eteree architetture nelle quali riconoscere angoli, visioni, arditezze costruttive, mi sono reso conto del lavoro “matto e disperatissimo”, tanto per chiamare in causa Leopardi, che Marco Gemmani (vedi la sua intervista) ha profuso a piene mani in questi decenni per trasformare la Cappella Marciana in una meravigliosa macchina da guerra sonora.
A cominciare dall’intonazione e dal volume timbrico dei soprani (ricordare i loro nomi è un atto doveroso: Caterina Chiarcos, Maria Clara Maiztegui, Elena Modena, Sheila Rech, Maria Cristina Rinaldi e Zoya Tukhmanova), senza che la loro emissione e potenza andassero ad intaccare e, peggio, a coprire quelle dei contralti, dei tenori e dei bassi, ma fondendosi, amalgamandosi, unendosi su un piano prospettico che ci fa comprendere come Monteverdi, a livello sonoro, sia stato veramente il Piero della Francesca musicale, capace di donare proporzioni, volumi, vibranti tridimensionalità in cui ogni nota crea e dà vita a “spazio teatrale”. E anche i contralti (Maria Baldo, Andrea Gavagnin e Monica Serretti), così come i tenori (Domenico Farinacci, Enrico Imbalzano, Riccardo Martin ed Emanuele Petracco) e i bassi (Giovanni Bertoldi e Marcin Wyszkowski), da parte loro, hanno saputo ulteriormente ampliare e plasmare quanto richiesto dalle impervie partiture, costruendo, sovrastrutturando, riempiendo, allungando e accorciando, insufflando, cavando ogni minima sfumatura che si annida in questi brani.
C’è un aspetto che coglie lo spettatore o l’ascoltatore poco avvezzo quando si confronta con la musica polifonica: prima o poi, subentra in lui un fenomeno che si avvicina a un processo d’ipnosi, poiché viene catturato, avviluppato all’interno di una dimensione spaziale/temporale dalla quale, alla fine, fatica ad uscire. E questo accade poiché, soprattutto quando la tessitura polifonica viene palpabilmente proposta da un grande coro, una compagine riesce a dare l’idea, l’immagine di uno straordinario mantice sonoro che cattura ogni cosa ci sia intorno ad esso. Ed è proprio ciò che sono riusciti a fare i componenti della Cappella Marciana, rimandando a quel procedimento ipnotico del quale ho appena accennato.
Certo, i momenti difficili non sono mancati, e proprio a causa di quel dannato caldo che, a un certo punto deve aver bruciato le casse toraciche, mandando in tilt i polmoni e le ugole. All’incipit dell’Agnus Dei, i bassi hanno quasi alzato bandiera bianca, le loro voci si sono fatte più cavernose e più flebili, così come, subito dopo, le voci sopranili e tenorili hanno cominciato ad avere, comprensibilmente, che diamine!, dei problemi di intonazione. Mi è bastato guardare i coristi più vicini a me per rendermi conto che il loro canto si stava trasformando, in quella bolla infernale, in una salita del Golgota.
Ma nessuno, ripeto, nessuno di loro, ha fatto una piega, lasciandosi andare a una smorfia di disappunto o d’insofferenza, solo sorrisi, solo voglia di andare avanti, di non fermare la meravigliosa macchina da guerra sonora che sono e rappresentano. Semmai, da notare, la capacità fulminea, il provvidenziale intuito di Andrea Trovato che con una scialuppa di salvataggio, nelle fattezze dell’organo portativo, è andato a soccorrere i naufraghi che si dibattevano in un mare di sudore, e l’apporto dello stesso Gemmani, che si è messo a canticchiare, come se volesse incitare i propri figli e le proprie figlie a non demordere, continuando nella loro ascesa, spingendoli, incitandoli, nelle sembianze più di un padre che di un maestro.
Alla chiusura dell’ultima nota del Sancta Maria c’è stato un attimo di stupito e meraviglioso silenzio, sacrificio ultimo donato dalla decadenza degli armonici, e poi subito dopo gli applausi, convinti, quasi increduli di chi aveva capito lo sforzo affrontato e il suo superamento. Da parte mia, posso solo dire che non so se sulle guance avevo gocce di sudore o lacrime che scendevano. Ma quante devono averne versate Piero della Francesca e Claudio Monteverdi, prima di darsi idealmente la mano in questa magica serata aretina!
Andrea Bedetti
Terre d’Arezzo MusicFestival2023
Venerdì 14 luglio 2023
Arezzo, Basilica di San Francesco
Claudio Monteverdi – In tempore passionis
Cappella Musicale della Patriarcale Basilica di San Marco a Venezia
Marco Gemmani, diretto – Andrea Trovato, organo
Giudizio artistico 4,5/5