Per dare finalmente un volto a Proteo
In questa intervista, sterminata come il suo ultimo voluminoso trattato L’orecchio di Proteo, il compositore e pensatore milanese Carlo Alessandro Landini spiega i motivi e le ragioni che lo hanno spinto a scrivere questo saggio, espressione ultima di una concezione interdisciplinare che riprende idealmente la visione di “abbracciare tutto con uno sguardo”, tipica dell’antichità, con l’obiettivo di fissare alcuni punti attraverso i quali cercare di comprendere l’arte dei suoni e la sua proteiforme capacità di manifestarsi e insediarsi nel nostro cervello
Maestro Landini, com’è nata l’idea che l’ha portata ad affrontare un saggio a dir poco sterminato come L’orecchio di Proteo, frutto di un lavoro ultradecennale e, soprattutto, la mole, l’ampiezza di quest’opera è stata fissata fin da subito o è maturata nel corso del tempo, mutando, cambiando proprio come la figura mitologica di Proteo che la simboleggia?
Credo di essere partito con la mia ricerca dal vivo desiderio che avevo (e che ho tuttora) di sapere, in qualità di compositore e di musicista, che cosa io stessi veramente facendo, ossia in base a quali categorie della percezione (l’artigiano dei suoni li chiama, più familiarmente, trucchi del mestiere) un certo brano potesse sortire l’effetto desiderato (ossia quel risultato che il compositore non mette generalmente in conto, quasi sempre destando in lui delusione, più raramente suscitando in lui un moto di grato stupore). La volontà di sapere, di tutto conoscere e padroneggiare, è sempre un azzardo prometeico.
Fra Prometeo e Proteo vi è una semplice interpolazione sillabica, quella di un nudo pronome (me). Quest’ultimo, interposto fra l’eroismo dell’uomo che osa (Prometeo) e l’insostenibile pavidità del dio che si sottrae e fugge e si trasforma (Proteo), potrebbe, in guisa di una formula magica, dirimere in noi ogni residuo dubbio: il fuoco degli dèi spetta solo a colui il quale abbia intrapreso e felicemente portato a termine il junghiano cammino di individuazione (perché Proteo è un essere senza volto, privo di un’identità propria, mentre Prometeo è il titano che “pensa prima di agire”, questo rivela l’etimo del nome). Il pronome personale me consente all’indistinto di assurgere al distinto, al generale di diventare particolare, alla creatura di farsi individuo. Ora, se l’ars magna di Raimondo Lullo, se la lingua perfetta di Francesco Bacone e dei neoempiristi raccolti intorno a Russell, Carnap e Wittgenstein, se la mathesis universalis di Leibniz, cara al nero princeps huius mundi, se il neoplatonismo coltivato in gran segreto dalla nuova Gnosi di Princeton, ecco, se tali cose, a garanzia, quasi, di un regia sapientia, quella di un vagheggiato legame duraturo tra fede e ragione, tra perfezione e realtà, ci fornissero una ragione plausibile, una qualunque fra tante, per continuare non solo a scrivere musica e ad ascoltarla, ma anche a discettarne con la finta tranquillità di una comare, costituirebbe ciò, io mi chiedo, una panacea per il genere umano? Sarebbe questo l’elisir atto a risolvere tutti i nostri guai, capace di fornire una soluzione ai nostri problemi (anche a quelli dei compositori, dei critici musicali, degli interpreti)? Potrebbe una conoscenza tanto estesa quanto profonda dei segreti dell’universo rivelarsi un bene e rappresentare un vantaggio per l’artista che compone, scrive, dipinge? O non saremmo invece davanti alla tante volte, specie nella prima metà del secolo passato, preconizzata morte dell’arte? Si direbbe proprio di sì, ripensando alla finale apoteosi dello Spirito hegeliano. Posto che non si tratti di un mero incubo della ragione, la “sterilizzazione del senso” imposta da Hegel alla Storia ci consentirebbe di riformulare il problema nei termini esposti dall’oracolo e riportati da Socrate: “la sapienza umana vale ben poco” (ἡ ἀνθρωπίνη σοφία ὀλίγου τινὸς ἀξία ἐστὶν) (Apologia23a). E vale tanto meno quanto più noi esigeremo di capire il mondo e il suo funzionamento (compreso quello dell’arte dei suoni, aggiungo) fino al suo più microscopico ingranaggio. La competenza - un termine irresistibilmente moderno - è temuta da Dante (Ulisse che, incarnazione di ogni umana curiosità, “segue virtute e canoscenza”, finisce con l’inabissarsi insieme col suo equipaggio), è ripresa in forma di patto col diavolo dal mago Faust nel mito formatosi durante il Medioevo, è ripescata da Goethe ed esecrata da Leopardi (Ad Angelo Mai). È questo il sogno della formula perfetta, o del patto faustiano che sviscera la natura, la notomizza con la premura asettica di un anatomo-patologo, la scompone nei suoi termini minimi, ci permette di riassemblarla seguendo le paterne e non disinteressate indicazioni del diavolo. Perché la stratosferica Messa in si minore ci lascia felicemente spossati e stupefatti e il Carnaval des animaux di Saint-Saëns più modestamente ci diverte? Perché l’aria dell’invettiva, il famoso Cortigiani, vil razza di Rigoletto, ci toglie il respiro mentre una lirica di Tosti ci indurrà al massimo a infilzare un biscottino col dito mignolo della mano e a portarcelo dignitosamente alle labbra già, in precedenza, umettate col tè delle cinque? Forse, se diamo retta a Platone, a Dante, a Leopardi, a Goethe, la questione non dovrebbe importarci. Non dovremmo chiederci troppe cose riguardo a ciò che creiamo (ancor meno cose dovremmo chiederci riguardo a ciò che leggiamo e ascoltiamo: anche l’appassionato melomane, anche l’accanito frequentatore di mostre museali e di vernissages, anche il lettore bulimico e il bibliofilo compulsivo hanno diritto, come Laurence J. Peter di certo puntualizzerebbe, alla loro sana dose di incompetenza, ossia di ignoranza della materia e di specifica impreparazione). Eppure: non v’è tra noi chi non provi “un desiderio inconscio di capire, di sapere il più possibile in merito alla bellezza in ogni suo più piccolo dettaglio” (a subconscious desire to understand better and realize more details of the beauty), parola di Schönberg. Dunque è vero: della bellezza si può predicare qualcosa, essa non è quel lampo sospeso a mezz’aria, inafferrabile, ineffabile, come la volle il Croce nella sua Estetica. Ancora: perché a un certo tipo di musica noi crediamo profondamente, la sentiamo nostra, ce ne appropriamo come se si trattasse di qualcosa che ci appartiene di diritto, che ci spetta quasi in virtù di un privilegio esclusivo o di una norma consuetudinaria, mentre di un altro tipo di musica, peraltro piacevole, una sgargiante, amletica trappola per topi per coloro che vi credono, ci importa ben poco e di questa, aggiungo, potremmo fare perfettamente a meno? Perché non sacrificheremmo un solo quarto d’ora della nostra vita e non rinunceremmo a un piatto di pane casereccio e salame per ascoltare un solo minuto della lounge music improvvisata dal riccioluto Giovanni Allevi? Nel questionario di Proust, molto in voga, ci viene chiesto di indicare i titoli di tre partiture musicali che vorremmo portare con noi, su un’isola deserta, in caso di naufragio. È chiaro che queste partiture non incarneranno agli occhi del povero naufrago il più vivo degli “interessi intellettuali” possibili, ma piuttosto il “cibo per l’anima” capace di farlo sopravvivere, il povero cast away, e sperare in attesa dei soccorsi. Mi stupisco sempre della varietà delle risposte fornite dall’intervistato di turno. È chiaro che ciascuno di noi musicisti, pur leggendo e suonando e ascoltando le stesse note, pur ascoltando le stesse note, le “sente” però in modo ogni volta diverso, ossia le “percepisce” in modi sempre cangianti a seconda del carattere, del momento, del tempo, del luogo, del malessere o benessere fisico che gli tiene compagnia (me lo disse, però con tono di sincero rammarico, con aria di compunta, rassegnata disapprovazione, e fu quella l’ultima volta in cui ci parlammo, il compositore croato Ivo Malec, col quale avevo studiato per un biennio nel Conservatorio di Parigi: Carlo, nous n’ecoutons pas la musique de la même façon). Ciascuno di noi ha un modo diverso di “emozionarsi” a fronte di uno stesso brano musicale, a taluni si erigono perfino i peli della nuca (piloerezione) quando il godimento è apicale, è questo il “brivido” (chill in inglese, frisson in francese) che ci coglie quando la musica ci trasmette un piacere propriamente fisico, un piacere che “bypassa” i centri superiori della corteccia (l’area del pensiero, dell’attenzione vigile, del decision making) e la cui sede va ricercata nel cosiddetto cervello limbico, il “centro del piacere” (il giro del cingolo, l’ippocampo, l’amigdala, il lobo dell’insula, i nuclei del rafe, il nucleo anteriore del talamo).
È interessante sapere che questa segreta fonte di piacere è anatomicamente legata al cosiddetto paleocervello, il cervello dei rettili (“cervello rettiliano”) e dei primati, che è quanto induce il predatore a combattere o a fuggire. Per questo un volto umano o ci attrae o ci respinge, nel primo caso invogliandoci ad accoppiarci o, in subordine, contribuendo a cementare, in noi, il sentimento di solidarietà che ci lega agli altri membri del clan, nel secondo destando in noi un sentimento di repulsione o, in subordine, consentendoci di difenderci dagli attacchi di animali predatori o da incursioni e razzie effettuate dai guerrieri del clan rivale. Lo stesso avviene per la musica e per l’arte in generale. Se io sono attratto da un certo quadro di Picasso e non lo sono da un altro, la ragione di ciò risiede nei meccanismi con i quali il nostro cervello elabora le emozioni (per lo più legate a ricordi stratificati, risalenti in taluni casi all’imprinting parentale) che l’uno e l’altro dipinto suscitano in noi. In alcuni casi questo rapporto (tra l’oggetto e colui che lo percepisce e interpreta) è univoco ed è generalizzabile: se mi trovo sull’autobus in ora di punta e qualcuno mi pesta un piede, molto probabilmente farò una smorfia di dolore e, se non basta, colpirò con un cazzotto il presunto colpevole del misfatto (può accadere che al suo posto io colpisca un innocente: l’errore fa parte del grande gioco della vita). Questo vale per tutti e a tutte le latitudini. Perché viceversa qualcuno possa provare piacere ascoltando il cervellotico Streichquartett op. 28 di Anton Webern o l’inutillima Sonata per oboe e pianoforte di Hindemith, composta nel 1938 - quando il compositore si trovava negli Stati Uniti e l’Austria cadeva in mano a Hitler, vittima designata dell’Anschluss -, resta per me un mistero. Non posso immaginare che qualcuno, magari un colto bellimbusto, faccia ascoltare questi titoli all’amata che intende sedurre, eppure entrambi sono nel repertorio di molti concertisti (il primo lo è forse per via della sua brevità, il secondo lo è forse perché occorre pagare un tributo all’acme del piacere facendolo precedere dalla noia più abissale: se Tamino e Pamina devono superare una serie di prove prima di poter convolare a nozze la ragione è sempre la stessa, il piacere va differito: je retarde pour mieux faire, protestava Baudelaire). Eccomi a rispondere nuovamente alla Sua domanda. Vi sono tre generi di compositori (ve ne sono a bizzeffe, è vero, ma questi tre sono generi di prima necessità). Vi sono quelli che pensano prima di comporre qualcosa, vi sono coloro che pensano solamente dopo avere composto qualcosa, infine esistono i compositori che non pensano affatto e non si pongono domande né prima né dopo aver composto qualcosa (uno tra questi è lo scapestrato Ferruccio Busoni il quale, forse per uno spunto di inveterata pigrizia, forse perché imbolsito col passare degli anni, si trincera dietro a un alibi tanto inattaccabile quanto sprezzante: “nella musica - egli scrive a Jarnach il 7 ottobre 1923 - non esiste una sola opera perfetta”). La scienza molto di rado si intromette nei sacri procedimenti dell’arte ma, quando lo fa, essa lo fa per rischiarare il cammino dell’artista, cammino quasi sempre notturno e condotto in solitaria, e mai per farlo inciampare sui suoi passi. Quanti filosofi, compositori, teorici della musica non hanno provato a “spiegare” il rapporto che lega fra loro l’ascolto di un accordo e l’emozione che ne deriva!
Platone ci prova dal suo osservatorio etico, quello dell’ordinatore della pòlis che poco o nulla sa di musica. Nel Barocco e nell’età dei Lumi sono il dotto Athanasius Kircher, Andreas Werckmeister, Johann David Heinichen, il sassone Johann Mattheson (col suo trattatello Der vollkommene Capellmeister, pubblicato nel 1739) a provarci, mettendo in riga, da una parte, suoni, accordi, tonalità e, dall’altra, l’elenco di emozioni che si presumono risvegliate dai precedenti. Dopo la filosofia, dopo la grammatica, la pratica. Nel 1807 il medico austriaco Peter Lichtenthal, naturalizzato milanese, un modesto funzionario al soldo del Regno Lombardo-Veneto, dà alle stampe il primo manuale di musicoterapia, dal titolo Der musikalische Arzt, oder Abhandlung von dem Einflusse der Musik auf den Körper (“Il medico musicale. Trattato dell’influsso della musica sul corpo umano”). Se un rapporto oggettivo è stabilito tra i precordi dell’emozione e la struttura (o gli epifenomeni) di un brano musicale, questo rapporto riguarderà i compositori prima di tutti gli altri, i critici musicali e i musicologi in seconda istanza, i medici e gli igienisti mentali in ultima. Ora, siamo onesti con noi stessi. A qualcuno potrà anche non importare di sapere perché mai la voce filiforme e leggermente in falsetto di Franco Battiato, dolciastra come un panetto di hashish, voce simile a una nenia pecoreccia del Turkmenistan, fosse in grado di emozionare parecchi fra noi (a scanso di equivoci, io non sono fra questi). A qualcuno potrà pure non importare di conoscere le ragioni per le quali, al contrario, brani come Music for 18 Musicians o Mallet Quartet di Steve Reich sono in grado, a differenza di Caffè de la Paix, di affascinarci e di indurre in noi uno stato molto simile alla trance ipnotica, soggiogandoci, riducendoci alla mercé del mago-esecutore di turno, facendoci smarrire la cognizione dello spazio e del tempo. A qualcuno non interesserà conoscere (e in taluni casi perfino ammettere) i prodigi operati nel cervello dall’accordo insoluto del Tristano, una sesta eccedente ingombrante come lo è un elefante nella cristalleria, o quelli operati dall’accordo “mistico” di Skrjabin, fumoso come può esserlo solamente l’abside di una chiesa ortodossa invasa da fumi di incenso e mirra e droghe di vario genere. Questi fenomeni mi interessano da sempre e continueranno a farlo finché avrò vita. Mi reputo fra quei compositori che pensano solo dopo aver composto qualcosa e che, nel rivedere quanto hanno scritto, fanno due conti con le proprie emozioni e con quelle del pubblico, se necessario correggendo, ripassando a matita, riflettendo sull’opportunità di un certo ritardando o sulla pertinenza o meno di uno staccato. In questo processo di revisione e di rifinitura è importante soppesare accuratamente il ruolo giocato dalle nostre emozioni e il legame di queste ultime con la parte apollinea di noi e del nostro pubblico (o di quella parte di pubblico accarezzata da Adorno, blandita con la formula sbiancadenti del kritisches Gehör, una panacea buona per tutti gli usi come lo è il bicarbonato). In merito al rapporto tra natura e cultura ha scritto cose di indubbio spessore e interesse Claude Lévi-Strauss (dapprima nella sua Anthropologie structurale, del 1958, poi nel suo successivo saggio Le cru et le cuit, apparso nel 1964): ne raccomando tassativamente la lettura a grandi e piccini, così ai lattanti (i più curiosi) come pure ai vegliardi (nei quali la curiosità appare sbiadita per ragioni squisitamente anagrafiche). Ma rispondo ora all’ultima parte della Sua domanda. L’impianto del lavoro non è andato mutandone la fisionomia complessiva nel corso del tempo. Ho piuttosto proceduto per aggiunzione di capitoli, i quali un poco alla volta andavano a integrare e a fiorire il corpo della trattazione. I capitoli dedicati a Brahms, a Schubert, a Beethoven, a Chopin, integrano a posteriori un discorso già chiaro, già impostato in partenza, essi ne costituiscono, per così dire, il coronamento e la vivida esemplificazione, ossia quanto potrà indurre il lettore ad accettare (senza troppa riluttanza e con un pizzico di indulgenza) il modello di cognizione-fruizione da me accreditato e indagato, cognizione e fruizione mediate in uguale misura dal nostro cervello e dai paletti che questa società erige intorno ai suoi artisti (ossia dalle pratiche condizioni di esistenza a questi ultimi imposte, le stesse imposte vuoi all’ormai stanco e alquanto logoro rito del concerto, vuoi al paradigma utilitaristico del mercato, il quale suole contemperare e far convivere tra loro bellezza e rendimento economico, piacere e incasso al botteghino).
Come si può riassumere, a beneficio di possibili lettori coraggiosi, se non proprio temerari, lo scopo di questo saggio, che personalmente preferisco definire un vero e proprio trattato?
Se una domanda come questa mi fosse rivolta in pubblico, alla presenza di un uditorio specializzato, composto esclusivamente da truci e compassati addetti ai lavori, da grigi e incartapecoriti custodi dell’ortodossia come lo erano i famigerati commissari politici di Trockij, risponderei col preoccupato mutismo del quale Diether de la Motte tesse le lodi nella sua magnifica Harmonielehre, ovvero con la stumme Antwort. Dapprima abbasserei lo sguardo, pudicamente arrossendo. Guarderei infine negli occhi il mio interlocutore con la saggia bonomia con la quale una tinca di lago, presa all’amo, rimira il suo improvvisato carnefice, il pescatore della domenica. Vede, non è possibile definire in poche righe un lavoro come questo, durato 15 anni, un libro di 900 pagine, provvisto di uno sterminato elenco onomastico e di un numero di note a piè di pagina da far rabbrividire un orso polare (brivido che nulla ha a che vedere con il piacevole frisson di cui sopra: semmai esso ne è l’esatto contrario). Iniziai la composizione del testo nel 2003, al tempo in cui ascoltavo alla Columbia le lezioni di Fred Lerdahl e di Carol Krumhansl, tra i massimi specialisti della Generative Theory of Tonal Music, in pratica una generalizzazione dell’ipotesi di Noam Chomsky, e venivo un poco alla volta formandomi una mia precisa idea in merito all’assoluta importanza della musica cosiddetta subliminale, o di quella parte della musica che, a dispetto dell’acribia con la quale il compositore riempie le sue partiture di segni diacritici e di indicazioni agogiche, di prescrizioni dinamiche e di ingiunzioni metronomiche, a dispetto, poi, della fedeltà filologica professata dagli scolaretti di Jordi Savall e da quelli di Nikolaus Harnoncourt, è cionondimeno in grado di sottrarsi all’ascolto focalizzato, è in grado, cioè, di eludere (con espedienti di alta gamma, il cui sapiente utilizzo è appannaggio dei compositori più esperti) le maglie strette dell’attenzione che l’ascoltatore dedica alla musica istante per istante (spesso esagerando, spesso non lasciandosi andare al flusso di suoni, spesso reputando che non vi sia una vera differenza tra il tempo della spesa fatta al più vicino supermercato e quello dell’ascolto di una Sinfonia di Brahms). Le Sinfonie mozartiane che Harnoncourt dirige alla testa del Concentus Musicus su strumenti d’epoca non mi hanno mai convinto per la secchezza del suono che si chiude all’Altrove e si spalanca viceversa ai salotti (così come un tempo essa era resa accessibile a uno sparuto numero di cortigiani radunati intorno al margravio o al principe elettore). È questo un buon modo per eliminare dalla musica la qualità intrinseca del timbro, timbro che Mozart impreziosisce dotandolo di un ampio strascico di echi occulti, intensamente risonanti, e che Harnoncourt viceversa condanna a morte per asfissia, strangolandolo coi suoi striminziti strumentini. Altre sono le spie di un quid che affiora tra le note in modo chetamente inavvertito, senza mai farsi scoprire e mettere a nudo, che avanza come “vento tra le tombe” (l’inquietante nomignolo è quello affibbiato al Presto conclusivo dell’op. 35 di Chopin), che opera in gran segreto come lo spirito giovanneo (Spiritus, ubi vult, spirat, et vocem eius audis, sed non scis unde veniat et quo vadat, Gio. 3, 8). La musica è come un iceberg, i suoi nove decimi sono sommersi, ad affiorare e a rendersi visibile ai naviganti è unicamente il decimo restante. Ciò ammesso, il problema è un altro. Quanto è importante, quanto è utile, quanto è storicamente accettabile, quanto è storicamente indispensabile (fra l’accettare una cosa e il farcela diventare indispensabile la distanza è la stessa che intercorre fra la terra e la luna), quanto è decoroso (perché lavare le proprie mutande, o quelle degli altri, in pubblico non è il massimo, credo, dell’eleganza) scoperchiare una tomba, esumarne il cadavere che vi riposa, quanto è igienico, io mi domando infine, esibirlo nelle fiere paesane come un fenomeno da baraccone sul quale la curiosità malsana del pubblico minuto, l’acribia solerte dell’eletta schiera dei critici, il torbido sadismo degli analisti musicali, i pervertiti per eccellenza, possono esercitarsi senza ritegno, senza che alla malaugurata fatica di tutti costoro sia posto un limite o un divieto? Quanto è giusto, ascoltando e assaporando un pezzo, qualunque pezzo tra quelli composti negli ultimi mille anni, sapere tutto di esso? Quanto è opportuno poter riconoscere al suo interno anche il più piccolo dettaglio, individuarlo, isolarlo così come si fa con i nascosti (ma soprattutto arrugginiti) ingranaggi di una vecchia pendola a muro? Quanto è provvido (per l’ascoltatore, ma non solo) il fatto di poter intercettare il minimo e più celato particolare di un brano che si ascolta (sia per la prima volta che per l’ennesima)?
Quando a Giacinto Scelsi (uno che per una metà c’era e che per l’altra metà ci faceva) veniva chiesto da dove la sua musica provenisse, egli rispondeva quasi invariabilmente, serafico come un chierichetto: “alla malattia”. A talune domande fondamentali bisognerebbe non rispondere (va da sé che talune domande non bisognerebbe nemmeno porle a un artista, a un “creativo”, il quale, se è un gentiluomo, glisserà elegantemente così come fece Scelsi, se viceversa è un borderline collerico così come lo era Beethoven, prenderà a cazzotti il suo allibito interlocutore). Iniziai col pensare che alla metà esatta della mia Terza Sonata per pianoforte potesse esservi qualcosa di molto simile a un procedimento subliminale a forte impatto emotivo e di salda presa sul pubblico. Diciamo così: mi venni formando nella convinzione, non so dire quanto fondata e realistica, che vi fosse qualcosa che i Conservatori e le Accademie non insegnano, qualcosa che ha a vedere non solo col talento, ma anche, e soprattutto, col cervello, con le sue sinapsi, con la conformazione dell’orecchio interno e medio, coi processi (non mi dilungo e vado al sodo) di formazione del cosiddetto “gusto musicale” (in tutto e per tutto simile a quello artistico, operante nel caso delle arti visive, e a quello letterario, capace di farci assaporare le delizie di un sonetto o di un romanzo). Nel 27mo capitolo del mio libro, capitolo che ho intitolato La musica che non si ode (e questo non è il capitolo di un libro), non esito a tirare per la giacchetta tutti coloro i quali, sulle orme del vescovo anglicano George Berkeley, identificano la musica con la percezione del primo e sommario livello di essa (esse est percipi era il motto dello strano personaggio). In questo capitolo si parla diffusamente di ciò che nella (e della) musica non si ode. Un conto è ascoltare e altro conto è udire: io posso ascoltare la famigerata Ballade pour Adeline sciorinata per l’ennesima volta, in quarant’anni, da Richard Clayderman (35 milioni di visualizzazioni su Youtube) senza ascoltarla, ossia senza percepirla a livello corticale, ossia con la consapevolezza collaudata e rodata del melomane attentissimo. Si vedrà sempre un’anziana zitella versare lacrime copiose ascoltando l’abominevole canzonetta (del genere “a presa rapida”, come Lei lo definì in un’occasione), ma i miei orecchi sono protetti da un quadruplo strato di “cerume virtuale” per scongiurare l’affronto e si chiuderanno al mondo e ai suoi suoni a comando non appena io sprofonderò nella lettura di un romanzo che a me piace e che mi intriga. Esistono poi, all’interno anche della musica confezionata con la più sublime maestria (penso ai grandi della musica, ai sommi), degl’invisibili dettagli che l’orecchio fatica a cogliere e a sceverare dal resto della ganga: scaglie d’oro minutissime, scaglie quasi volatili, tanto esse sono diafane e precarie, polvere di frammenti di suono che solo il paleocervello capta (senza darne comunicazione alla corteccia). Come una sorta di ghost track ricompresa nel Cd ma non dichiarata in copertina. I risvolti di questo fenomeno, che sono stato tra i primi in assoluto a studiare (il che non mi verrà, spero, ascritto a colpa), possono risultare sorprendenti. Per esempio, non è sempre agevole distinguere tra ciò che uno ascolta e ciò che uno crede di stare ascoltando. L’orecchio allenato, troppo allenato, l’orecchio critico e sempre attento (das spekulative Ohr) caldeggiato da Adorno (in Anweisungenzum Hören neuer Musik) ne è solo un esempio e può, in talune circostanze, ricadere entro la casistica delle allucinazioni descritte dalla clinica psichiatrica. Il più comune tra esse è rappresentato dagli earworms, spezzoni di melodia – catchy tunes, in gergo – che si impossessano della nostra attenzione (to catch something vuol dire, in inglese, afferrare qualcosa, impossessarsi di qualcosa) come altrettanti pensieri intrusivi; sepolte nel profondo della LTM (memoria a lungo termine), queste tracce indelebili si riattivano quando meno ce lo aspettiamo, infliggendo all’ignara vittima, dal momento del risveglio mattutino sino a notte fonda, il peggiore e più crudele dei tormenti (solo lo stillicidio, la “tortura della goccia” descritta da Emilio Salgari nel suo polpettone Le pantere di Algeri, può dirsi più letale). Oliver Sacks ne parla diffusamente nel suo formidabile volume Musicophilia per dimostrare, una volta per tutte, “the overwhelming, and at times, helpless, sensitivity of our brains to music” (“la sensibilità, oppressiva e a volte inerme, del nostro cervello nei confronti della musica”, così traduce Isabella Blum). La sfida tra il compositore e il suo interprete, fra quest’ultimo e il suo pubblico, si gioca molto spesso sul crinale fra normalità e condotta patologica, fra ciò che noi crediamo di stare componendo, suonando o ascoltando, e ciò che il nostro cervello, selettivo come e più di un setaccio markoviano, sta in realtà combinando (molto spesso a nostra insaputa). È questa l’affascinante ipotesi che il mio libro intende, in ultima analisi, discutere, vagliare, dimostrare.
Nel mio articolo di presentazione all’opera, ho messo in rilievo come la sua scrittura, il suo modo di esporre idee, concetti, argomentazioni possa essere accostato alla sua musica, in quanto se quest’ultima ricorre sovente al meraviglioso edificio sonoro dato dalla polifonia, la sua scrittura si muove con il medesimo impianto architettonico, ossia una “scrittura poliespositiva”, fondata su proposizioni che vantano più linee esemplificative, squisitamente votate a una dimensione interdisciplinare, proprio come le linee musicali che intersecano un costrutto contrappuntistico.
Non so che dire, La ringrazio di cuore per quello che vuole essere di sicuro un complimento ma che, letto attraverso il filtro distorcente di una lente polarizzata, potrebbe suonare come una sentenza di condanna inappellabile. Le faccio un esempio. Anche il successo del gazpacho andaluso, il sapore catturante del minestrone di verdure alla genovese, e persino la buona riuscita della più nostrana passata di verdure, il cui amalgama finissimo e coalescente di ortaggi non permette di cernere i singoli componenti e ingredienti della pietanza (zucchine invece di melanzane, carote in luogo di pomodori, chi può dirlo?), si basano su di una sapiente e bilanciata polifonia di sapori. In un libro come questo si tratta di soppesare gli ingredienti senza mai sovraesporli. Si finirebbe immancabilmente per parlare di tutt’altro o per fornire al lettore delle informazioni che non lo riguardano. Proprio come se, accomodatomi al tavolo di un ristorante e avendo io ordinato una bistecca al sangue con contorno di patatine, il cameriere tornasse con, fra le mani, un enorme vassoio di patate, patate di tutte le dimensioni, grandi e piccine e con, al fondo del vassoio, ben nascosto sotto il trionfo di tuberi fritti, lessi, in purea e a crocchette, ben celato, quasi invisibile agli occhi, un microscopico lembo di carne di infima qualità, forse cibo per gatti, forse mangime per pesci d’acquario, forse gli scarti del più vicino macello, chi può dirlo? Ogni brandello di sapere, ogni lacerto di conoscenza cela al proprio interno, quasi en abyme, un sapere e una conoscenza di secondo grado, magari più minuti, più contenuti, ma riproducenti con millimetrica esattezza le forme del sapere originario (qualcosa del genere accade in natura coi frattali, i quali ci permettono di addentrarci nell’osservazione della chioma di un albero ritrovando, all’interno di questa, sempre uno e lo stesso pattern originario, sempre una e la stessa matrice segreta di una struttura invariante: tutto si riduce a una blanda questione di scala). Furono i primi romantici (la Frühromantik dei Novalis, Tieck, Schlegel, Schleiermacher, raccolti intorno alla rivista Athenäum) a ripescare l’intuizione rinascimentale di una magia naturalis con, alla base, una sola ed unica matrice formale, un archetipo valevole per tutti e suscettibile di un’ordinata evoluzione e differenziazione nel tempo.
L’idea di una pianta primordiale, la Urpflanze (così la chiama Goethe nel 1790, allorché concepisce il suo Versuch die Metamorphose der Pflanzen zu erklären), la madre di tutte le piante, ci consente di immaginare (ancorché non sempre di ricreare) un’efficace sintesi tra il singolo esemplare creato e l’universo intero, tra il piano della sensibilità e quello dell’idealità astratta, e ci invita a cogliere la legge che, in pari tempo segreta e inviolabile, dimora nel cuore stesso dei fenomeni (non lo sono forse le creazioni della musica?). Come vede, sono riuscito a divagare anche nel caso di una risposta che avrebbe potuto (e dovuto) essere semplicissima. Vede, il fatto è che non riusciamo proprio a scrollarci di dosso la patina - una maledizione, forse - della complessità. Rispondo in modo volutamente complesso alla Sua semplice domanda così come complesse e intricate sono le pagine del mio libro ma, attenzione, così come complessi e intricati sono, prima ancora, gli argomenti e temi e spunti in esso trattati. Forse è la stessa musica, anche la più semplice ninna nanna, penso a quella celeberrima di Brahms, a potersi sviscerare ed enucleare e dissecare così come l’anatomopatologo fa col suo bisturi affilato (si arroga lo stesso diritto la casta intoccabile degli analisti musicali, questa banda di malfattori, questa sorta di rinnegati, di apostati, di neri corvacci). In modo tale, da metterne allo scoperto i meccanismi più delicati (elegantemente dissimulati, nascosti all’occhio così come lo sono le ruote dentate di un orologio svizzero). Il viaggio virtuale all’interno del meccanismo a orologeria della musica è letteralmente un “viaggio allucinante” (ricorda il film diretto da Richard Fleischer nel 1966? il viaggio era quello all’interno del corpo umano, previa la miniaturizzazione dei viaggiatori).
Il nostro vagabondaggio può limitarsi a pochi, cauti passi fatti in tondo, come lo sono quelli suggeriti dall’angosciosa Ronde des prisonniers dipinta da van Gogh nel 1890, o come lo era stato quello, un secolo prima, di Xavier de Maistre, svoltosi “all’interno della propria camera” (autour de ma chambre). Ma la nostra gita potrebbe assurgere, se così piacerà al destino, alle dimensioni macroscopiche di un viaggio interstellare, di un viaggio che ci proietterà ai confini estremi della galassia, là dove le normali leggi dello spazio e del tempo non valgono più, dove “il fuoco che arde nell’anima partecipa dell’essenza delle stelle” (the fire that burns in the soul is of the same essential nature as the stars, prendo a prestito l’immagine dall’incipit di Teoria del romanzo di Lukács, dato alle stampe nel 1914: l’anno di inizio della Grande Guerra!). Poiché ho citato Lukács non posso esimermi dal citare Michail Bachtin e la sua concezione policentrica della prosa di Dostoevskij. A Bachtin si deve una bella monografia (la cui prima edizione risale al lontano 1929) molto complessa e molto illuminante dedicata allo scrittore, alla sua poetica e alla polifonia chiamata in vita dalla voce dei suoi strambi personaggi, ciascuno diverso dall’altro, ciascuno coi suoi tic, le sue idiosincrasie, le sue convinzioni, la sua privata morale (di fronte a essi l’autore scompare, si rifugia nel cono d’ombra del retropalco, dalla sua postazione privilegiata accontentandosi di tirare i fili delle sue marionette: e felici, e beate le marionette “su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi”...).
Mi ero anni fa dedicato allo studio della struttura di Delitto e castigo, poi passando a quella dei Fratelli Karamazov, in entrambi i romanzi non solo ritrovando il comune denominatore di un borgesiano giardino dei sentieri che perpetuamente, sans cesse, si biforcano e si intersecano, ma anche una stupefacente parentela con gli ultimi quartetti di Beethoven (prendiamo l’op. 132, col suo inizio sostenuto e meditabondo, col suo finale trionfante e assertivo: la struttura è la stessa di qualunque ottocentesco Bildungsroman, e il dialogo tra i personaggi rispecchia la struttura tematica, fortemente interlacciata, che si trova in Delitto e castigo, col finale riscatto del malefico Raskòl’nikov e la sua tardiva conversione ispirata dall’angelica Sonja). Di un’opera d’arte conta tutto e, come per il maiale, non si butta nulla. Contano gli aspetti strutturali, la fattura del pezzo, la sua segmentazione, il rapporto tra il primo piano e lo sfondo della percezione, qui come oscurata e messa a tacere, contano i suoi rapporti volumetrici, il rapporto tra il progetto originario della forma, quella che balugina nel cervello di un compositore come una stellina appena sorta sul far della notte, e la progressiva realizzazione di essa, senza dimenticare la sua finale ricezione da parte di un pubblico quasi sempre opaco, il cui plauso e il cui favore sono variabili così come lo è il tempo atmosferico, plauso e favore non sempre pronosticabili con quella accuratezza che taluna sociologia dell’arte, supponente e ideologica, pretende o vorrebbe accampare. A contare sono sia i temi più remoti, quelli archiviati da un pezzo nella biblioteca della memoria, che quelli più recenti, la cui memoria è ancora viva e pulsante. A contare sono tanto i lacerti di materiali distanti ormai anni luce dall’ascoltatore, sepolti in qualche anfratto del suo passato, che quelli più prossimi a lui e ai suoi affetti. A contare sono ragioni segrete e palesi, linee continue e spezzate della condotta melodica (o di quanto prende oggidì il suo posto, la struttura), ritmi fratti e regolari, colori sgargianti, di un bel rosso fiamma, ed altri più tenui, quasi sbiaditi, destinati a cancellarsi come orme sulla rena. Il ruolo semantico di un oggetto sonoro (può esserlo anche la singola battuta di un pezzo, può esserlo anche un accordo isolato) si gioca sul filo dei caratteri distintivi che lo differenziano da tutti gli altri oggetti a quel primo somiglianti, ma soprattutto (interviene qui il criterio della vicinanza temporale e spaziale) da quelli che più da presso lo circondano. Si sprecano i tentativi, qualche volta al limite dell’assurdo e favoloso, intrapresi da studiosi di varia estrazione e vaglia allo scopo di spiegare tale mirabile combinazione e compenetrazione di caso e di necessità (della quale ci parlano sempre gli altri, i non addetti ai lavori, della quale non siamo mai noi, gli artefici, a parlare). Faccio un esempio. Non è difficile immaginare il dipanarsi della musica nel tempo come una concatenazione di sequenze, la stessa con cui Propp liquida la quasi totalità delle fiabe a lieto fine da lui indagate (ma la musica non sempre ha un lieto fine). Oppure come l’interagire tra loro dei caratteri fonicamente distintivi compresenti in un testo parlato, come ci insegnano la glottologia e la linguistica comparata, con la loro apoteosi di differenze minime e impercettibili nella fonazione e articolazione della lingua. Ancora. Poiché alla protervia degli analisti musicali (una disciplina assolutamente inutile, la quale tramuta i suoi appestati esegeti in altrettanti sciacalli, desiderosi di cibarsi di carogne per metà putrefatte, e queste ultime siamo noi, se non si fosse capito, compositori e interpreti) non è prescritto un terminus ante quem, ecco taluni tra essi - alla furia tassonomica degli entomologi e alla mania classificatoria dei cacciatori di farfalle non si pongono limiti! - ergersi a soloni (gli incredibili asini in cathedra dei Capricci goyeschi) e descrivere la musica come un’isola o come un insieme di isole (il merletto o fiocco di neve di Koch). Udiamo altri, infatuati della biologia cellulare (parecchio fantasiosa) di Conrad Waddington e dal lessico embriologico (ancor più scellerato del precedente) della thomiana teoria delle catastrofi, parlarne come di un creode narrativo (“isole discorsive”, traducendo il termine in un idioma più accessibile). Siamo seri. Di tutti questi fattori - la cui grande importanza il gergo più oscuro dei moderni studiosi non varrà né a sminuire, né tantomeno a mistificare - un compositore dovrà serbare una diligente contezza, da essi tutti egli non potrà e non dovrà prescindere (a vedere la luce sarà, in caso contrario, un disgustoso, ripugnante mostriciattolo). Laddove egli smarrisse il controllo delle sue delicate creature (del movimento delle voci, dello scandirsi del ritmo, della giustezza dell’armonia, dello scorrere del tempo, della spazialità del suono e di mille altre cose legate al comporre), laddove egli concedesse alle note del pentagramma lo statuto albertino del diritto all’autodeterminazione (così come fecero Cage e alcuni altri a scimmiesca imitazione di lui), da una lassitudo procedurale siffatta sprigionerebbe il caos più totale (ben diverso da quello assunto a proprio modello dalla “meccanica celeste” di Poincaré, di Lorenz, di Ruelle). Da essa si originerebbe un’anarchia per la quale ogni volontà autorale sarebbe come espunta, liquidata come un’ingerenza fastidiosa, soppressa ancor prima di vedere la luce e respirare. Sarebbe allora come se, appena nato nella mente dell’autore, appena partorito dalla sua penna, il protagonista o i protagonisti di un dramma (la travatura portante di un pezzo, parlando di musica, o le sue primarie componenti strutturali, quali che esse siano) acquistassero un’indipendenza dallo stesso autore e una vita propria “che l’autore non si sognò mai di dar loro”, spiega Pirandello (in Sei personaggi). La rivolta della musica - libre, libre, méchante et libre - contro chi l’ha composta costituirebbe, perbacco, uno spunto a dir poco sbalorditivo (... se solo Ravel e Colette non lo avessero còlto già nel 1925, un secolo fa esatto, realizzando a quattro mani L’enfant et les sortilèges). Tra un parto teratologico e uno normale la differenza si gioca spesso su un filo di lana. L’op. 111 sarebbe terrificante (almeno per quanto concerne la forma, bipartita e irriconoscibile, a tal punto il tema rasserenante dell’Arietta che dà vita al secondo movimento viene come distillato e trasceso, stirato e piegato e stazzonato, nell’arco di sole 193 battute, poche e al tempo stesso interminabili) se non fosse sublime e se, nonostante l’increspatura superficiale della forma (di cui è responsabile la sola personalità borderline di Beethoven, come il geniale Maynard Solomon, che dallo scorso anno non è più di questo mondo, ha osservato nella sua imperdibile monografia), un’interna compensazione non provenisse a quest’ultima dal bilanciamento omeostatico delle segrete energie che innervano ogni pagina di quel magnifico romanzo in forma di note (Samsara e Nirvana, così uno dei primi biografi beethoveniani, Wilhelm von Lenz, titola nel 1855 i due movimenti dell’op. 111).
Non basta, poi, chiamarsi Frank Lloyd Wright per partorire l’idea di un alzato organico alla natura circostante (penso alla celeberrima casa Kaufmann sulla cascata) o limitarsi a mettersi nei panni di coloro che lo abiteranno, i suoi facoltosi committenti. Occorre invece calzare i sandali anche di coloro che, transitando da lì, si fermeranno a osservare della casa la facciata, i muri perimetrali, le pertinenze esterne, il baluginio dei vetri lavati di fresco, persino i canali di gronda dell’acqua piovana e l’antenna tv che fa capolino dal tetto. La metafora è chiara. Non basta penetrare nella testa del compositore per capire, occorre situarsi anche dalla parte del pubblico, di coloro che un giorno ascolteranno un pezzo quando il suo autore sarà scomparso da tempo, e qui, a questo punto esatto, intervengono le mille trappole della percezione, ma anche i dispositivi di lettura - di decodifica, diranno i più forbiti - disposti da un’esegesi duplice, vuoi di indirizzo storicista, ossia dall’interpretazione del testo in base al canone (quale? quando?) di una Storia che, a torto, si suppone immutabile; vuoi di indirizzo opposto, quello ermeneutico dell’interpretazione interminabile (interprétation infinie) tipico delle frange decostruzioniste in filosofia (Deleuze, Derrida). Io credo che, alla fine, a contare sia prima di tutto la capacità del compositore di generare un testo organico in ogni sua parte, organico come lo sono le cellule e gli organi del corpo umano, con funzioni saggiamente disseminate e però tra loro collegate (vorrei ricordare, a questo punto, il famoso apologo del patrizio romano Menenio Agrippa, nel quale si dà voce al fegato, al cuore, ai polmoni, a tutti gli organi del corpo per significare la loro stretta e concorde interdipendenza finalizzata al miracolo della vita: sicut unum corpus, tramanda Tito Livio, e così è per tutti quegli elementi che, fino al più piccolo e insignificante dettaglio, concorrono a forgiare un brano musicale). Al tempo stesso, il discorso deve reggere alla prova della verificazione analitica, deve cioè esser sostenuto da una spina dorsale di argomenti che, punto per punto, si proveranno esatti (essendo corroborati da fatti e non da semplici opinioni, e meno che mai da quelle forniteci dagli analisti musicali, che sono, ripeto, tra i più repellenti e nauseabondi fra tutti i parassiti che infestano la scena musicale, più fastidiosi delle zecche e più letali degli scorpioni). In questo senso possiamo ben ritenere che tutti i grandi compositori, vuoi del passato, vuoi del presente, siano potenzialmente dei paranoici. In essi l’asticella del disturbo della capacità associativa è alzato a quote impensabili per l’individuo normale. Il senso di una profonda, intima e persino enigmatica sintonia o simpatia che si instaura tra tutti i singoli elementi del materiale a disposizione raggiunge in questi compositori, esattamente come accade nella musica di Anton Webern, in quella di Franco Donatoni, in quella di Karlheinz Stockhausen, dimensioni addirittura iperboliche. La loro paranoia riesce a connettere tra loro gli spunti apparentemente più lontani tra loro, arriva a collegare in un serto di fiori, fino a formare una “eterna ghirlanda brillante”, ogni minimo dettaglio di un pezzo. Tanto Sherlock Holmes che Johannes Brahms erano affetti da paranoia e da impotenza (la seconda si accompagna molto spesso, purtroppo per i diretti interessati, alla prima, di regola riscattata da una subdola quanto provvidenziale megalomania o ipertrofia dell’Io). Ogni cosa deve poter combaciare con tutte le altre secondo i percorsi analogici più aleatori e spericolati e improbabili, tutti operanti sotto la febbrile regia di un’ossessione bizzarra e persecutoria (è questo, d’altra parte, il mito romantico dell’artista titanico e maledetto, mito senza il quale l’infantilismo scatologico di Mozart, la rabbia patologica di Beethoven, la pederastia rituale di Schubert, la psicosi suicidaria di Schumann, la gender fluidity di Chopin, la personalità antisociale di Berlioz, le allucinazioni di Hugo Wolf, l’etilismo acuto di Brahms non si spiegherebbero così facilmente). Ungaretti fece, in Ragioni d’una poesia, un breve testo del 1922, un’osservazione davvero geniale. “Se il carattere dell’Ottocento - spiega il poeta - era stato quello di stabilire legami a furia di rotaie e di ponti, il poeta d’oggi cercherà di mettere a contatto immagini lontane, senza fili. Dalla memoria all’innocenza, quale lontananza da varcare, ma in un baleno!”. Ora, io mi domando, non è proprio il baleno - il lampo - l’incarnazione e icona fondante del tempo istantaneo? E non è la musica l’espressione più acconcia di questo tempo esattamente, che vive e vibra e si esaurisce nell’attimo? Ecco spiegata una “dottrina della analogie” la quale, almeno nelle intenzioni del poeta, perverrebbe a fondare e a giustificare una verace fenomenologia della distanza (‟maggiore è la distanza, superiore sarà la poesia” conclude Ungaretti), tessendo l’apologia di una fulminea prontezza nel cogliere i rapporti anche interni e invisibili di un testo, di un brano musicale, di un quadro. Ecco una bella ipotesi che è agevole estendere alla musica, al suo ambito, al suo carattere istantaneo ed effimero, quello di un’impermanenza assoluta. Quello, puntualizza Jankélévitch, del mystère de l’instant qui est l’essence de la musique.
Non Le nascondo che quest’idea si presta a una varietà di abusi. Distanziarsi troppo da un quadro di Chuck Close, magari arretrando di qualche centinaio di metri anziché di pochi passi solamente, finirà per ridurne la visione a quella di un modesto e indecifrabile puntolino. Un punto la cui estensione sarà infinitesima. È questo ciò che la Neue Musik, l’avanguardia nella sua “fase seconda” (M. Bortolotto) ha fatto senza badare a spese, senza rete di protezione, senza mettere in atto le cautele minime del caso e, aggiungo, senza minimamente preoccuparsi dell’ascoltatore, della sua capacità di udire e di percepire (le due cose non sono perfettamente identiche, come ho detto prima). Anton Webern, Helmut Lachenmann, Morton Feldman, triade capitolina del pointillisme musicale, gli eventi del quale giacciono sul piano del tempo anziché dello spazio non diversamente da un fitto nugolo di moscerini (la cui aspettativa di vita non oltrepassa le ventiquattro ore) posatisi sulla credenza della cucina. Fu una presunzione bella e buona - da paranoici sì, ma per lo più privi di genio - immaginare che sarebbe bastato instaurare una certa distanza fra sé e i propri ascoltatori, quasi respingendoli da sé come il bue fa coi tafani che gli danno il tormento, per garantirsi un posto stabile nel pantheon delle glorie imperiture. No, signora mia, tutto non è così semplice come sembra, l’entusiasmo delle folle plaudenti e l’accigliato snobismo dell’autore-vate (penso a Wagner, penso a Wilde, penso a D’Annunzio) non bastano, da soli, a garantire il genio e la sublimità della loro arte. Che, nel caso dei tre nominati, fu un seguito ininterrotto di capolavori senza età. Grandi quanto bastò ad assicurare l’immortalità ai loro autori. Ma le cose non vanno sempre così lisce. Se è vero che non vi è un solo artista immune al germe della follia, protetto da e vaccinato contro i tormenti della paranoia, non è affatto pacifico il contrario, perché non tutti i folli e i paranoici sono qualificati per ricoprire il ruolo di artisti e di creatori di bellezza (se così fosse, i reparti di psichiatria sfornerebbero poeti così come il fornaio fa col pane e i manicomi, o quanto di essi resta dopo la legge Basaglia, si riconvertirebbero in accademie d’arte: il che non è vero, purtroppo). Ma vorrei concludere la mia risposta assicurandole che, in qualche modo e sotto qualche aspetto, il compositore versato nello stilus altus della polifonia, ossia nell’ordinata concorrenza delle parti fino alla pratica del contrappunto nelle sue declinazioni più severe (Lasso e Palestrina soprattutto, senza dimenticare il primo Monteverdi), non può che essere un paranoico, un malato persuaso che tutte le quattro voci di un corale di Bach si possano udire e cogliere separatamente senza che una di esse soverchi l’altra all’orecchio del cantore e a quello dei fedeli adunati in assemblea, un folle persuaso che un direttore d’orchestra possa, delle ultime Sinfonie di Mahler, udire e identificare (i due termini non sono sinonimi, perché l’identificazione presuppone una topologia di dati la quale comprende il nome dello strumento, il suo timbro da solo e in unione con gli altri, la sua collocazione nell’orchestra, la difficoltà del passo e l’abilità di chi lo suona, e ancora mille altre cose al di là da queste) la più impercettibile sbavatura del flauto o il più modesto e smorzato scrocco, rigorosamente in pianissimo, del corno di fila. Solo Dio (mi spiego: solo un Essere perfetto, posto al di là del tempo e dello spazio, esente da tutti i vincoli sensoriali e da tutte le remore e limitazioni che, di ogni ordine e grado, sono imposte a noi mortali) potrebbe farsi garante di tutto. Potrebbe farlo un computer. Ma nemmeno il più scafato tra i paranoici di questa terra, neppure l’orecchio più attento, quello caro a Adorno, potrebbe sceverare tra loro tutte, fino all’ultima nota, fino all’estinguersi dell’ultima eco, le cinque voci assortite dei madrigali spirituali di Palestrina o le otto del Dixit Dominus di Cavalli (siamo già, con lui, in pieno Barocco) o le altrettante del Sanctus che è il cardine della Messa in si minore BWV 232. Oggi la musica va in direzioni opposte e tra loro inconciliabili. Un sentiero è quello imboccato dalla New Complexity (Ferneyhough e la sua scuola), persuasa che i termini complessità e complicazione siano sinonimi e tra loro fungibili, il che non è assolutamente vero; l’altro, provvisto di una direzione e di un verso opposti al precedente (siamo, come si vede, in presenza di due vettori antagonistici e asimmetrici), è quello che tende e si snoda verso la ripresa della semplicità e pauciloquenza care alla New Age e a taluni allievi di Ligeti (non a caso raccolti intorno alla comune denominazione di Neue Einfachheit, “nuova semplicità”). Non mi attento a dilungarmi oltre per cercare di capire o di commentare. L’approfondimento della dicotomia che ho delineato, dicotomia per molti aspetti dolorosa, in qualche modo analoga a un trauma inferto alla solidità e compattezza del canone della lingua musicale dell’Occidente civilizzato, comporterebbe una riflessione infinitamente più vasta e puntigliosa di quanto non mi è consentito di fare nel breve spazio di questo nostro colloquio.
Un’opera del genere potrà avere i suoi Parerga e paralipomena? Sebbene lei abbia dato da poco alle stampe questo immenso lavoro, pensa che in un prossimo futuro, data la vastità della sua portata, potrà aggiungere altre parti, soprattutto alla luce delle inevitabili e ulteriori conquiste da parte della scienza neurologica?
Non temo che le note a piè di pagina del mio libro siano eccessive, in qualche caso decisamente troppe. Non lo penso. Posso convenire in merito al fatto che le note di regola appesantiscono, regalano un senso di stordimento quando non di purissima vertigine e nausea. È tutto vero, ma le note sono necessarie (la citazione corretta delle fonti è garante dell’attendibilità scientifica di qualunque testo che non sia un manuale di giardinaggio). Neppure il mitico barone di Münchhausen potrebbe leggere e digerire L’orecchio di Proteo nell’arco di un pomeriggio, magari nel corso di una scampagnata. E qui torno a rispondere alla Sua domanda. Si tratta - Lei mi chiede - di un testo davvero immutabile, non passibile di revisioni? Sono convinto che nessuno fra i medici odierni stilerebbe una diagnosi basandosi sul De humani corporis fabrica di Andrea Vesalio, apparso nel 1542. Non è difficile prevedere che fra cent’anni la nostra esplorazione del cervello ci avrà condotti a risultati a tutt’oggi inimmaginabili. Il mio libro andrà logicamente soggetto a dei cambiamenti in itinere, ad aggiustamenti, ad aggiornamenti, a integrazioni che gli proverranno da scoperte e da studi (soprattutto nel campo del neuroimaging applicato al cervello) a tutt’oggi impensabili. Quali le ricadute? Nei prossimi vent’anni avremo imparato e sapremo del nostro “cervello musicale” molte più cose di quante ne sappiamo ora, ma saranno informazioni destinate ad affiancare (e non già a sostituire) quelle già esistenti, informazioni destinate a completare quelle attualmente disponibili, a integrarle, a raffinarle, quasi certamente a correggerle. Sicuramente non a smentirle. La bellezza è difficile, scrive Pound nei Pisan Cantos. Fra i compiti della scienza vi è quello, è vero, di affiancare gli storici dell’arte, della musica, della letteratura nell’impresa di fare un minimo di chiarezza laddove tutto ci appare come un luogo buio, senza fondo, quasi uno Sheol abissale, privo di pertugi, di sbocchi, di una qualsiasi via di uscita atta a farci risalire in superficie a “riveder le stelle”. Affiancare l’arte d’accordo, ma con i dovuti limiti e con le doverose cautele. È solo in parte vero che all’arte spetterebbe di rendere visibile l’invisibile, come Klee scriveva nel 1920: “L’arte non si limita a riprodurre ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non lo è” (Die Kunst gibt nicht das Sichtbarewieder, sondern macht sichtbar).
La visibilità assoluta e plateale appartiene piuttosto ai desiderata della scienza, che della pubblicità fa un motivo di vanto e un incentivo al fundraising. Tra quelli dell’arte vi è la prescrizione diametralmente opposta, essa può esigere dai suoi adepti una démarche molto diversa da quella indicataci da Klee. L’arte può esigere che si oscuri l’ovvio (la lettera rubata di Poe, che Proust citerà in Sodome et Gomorrhe), che si renda invisibile il visibile, che si sottragga al dominio della coscienza qualcuno dei mille oggetti che la affollano, che la ingombrano, che la ostruiscono, che si veli od offuschi un cristallino troppo “a fuoco” (se così non fosse, il Barocco non sarebbe esistito e non avrebbe oggidì la benché minima chance di rinascere, il che non è vero: esiste un neobarocco al quale il semiologo Omar Calabrese ha dedicato un saggio delizioso e utilissimo). Obscuritas e dissimulatio sono profuse a piene mani tanto nell’orazione Pro Tullio di Cicerone che nelle ultime Sonate di Skrjabin. I parerga e i paralipomena, le aggiunte e gli spunti mancati, i supplementi di spiegazione e i dettagli viceversa omessi (è questo il significato dei due lemmi greci ai quali Schopenhauer attinge), si rendono necessari nei testi che accampano qualche pretesa di scientificità e non certo nelle opere di evasione, di pura e semplice fiction o in un libro di poesia (delle strampalate invenzioni descritte da Jules Verne si può mitemente sorridere, mentre non si può che restare ammirati di fronte alla sua straordinaria capacità narrativa e descrittiva). Borges e Pessoa sono due luminose e isolate eccezioni, essi sono i soli a trattare la prosa di fantasia, anche o soprattutto la più surreale, così come si fa comunemente con un manuale di scienza (che cosa non diventa un foglio millimetrato di quaderno fra le mani di un bibliotecario argentino ipovedente o in quelle di un modesto contabile portoghese, sofferente di fegato!). Se talune amenità anatomiche contenute nel citato De humani corporis possono e debbono aggiornarsi a misura che la scienza avanza, nei Promessi Sposi non v’è invece una sola parola, non una sola virgola a doversi cambiare. Nel suo celebre dipinto Notte stellata, van Gogh rappresentò il difficile concetto della turbolenza caotica di un fluido ben cinquant’anni prima che il fisico russo Andrey Kolmogorov riuscisse a formalizzare le aspettative collegate ai processi stocastici mediante un’equazione apposita (ciò avvenne solo nel 1931).
Non v’è dubbio che sia tra i percorsi accidentati dell’arte che tra quelli più lineari - ma scombussolati da intuizioni improvvise - della scienza, gli assist, come si dice nel gergo del calcio, siano numerosi e destinati a interagire, qualche volta a intersecarsi, altre volte a intralciarsi a vicenda. La scienza è destinata ad avanzare sempre e in ogni caso. Essa travolgerà e schianterà col suo pesante rullo compressore quanto si parerà sul suo cammino. Ma l’arte non starà a guardare e replicherà alla sfida coi mezzi che le sono propri. Molte scoperte della scienza, lontane dall’esaurirsi in un nudo elenco di dati e di termini più o meno oscuri agli occhi del profano, avranno presto o tardi (come mele mature, destinate a cadere con la buona stagione per essere mangiate e degustate) una benefica e originale ricaduta sull’arte e sui suoi prodotti e derivati. Postilla. Hegel, Spencer e Comte difesero un punto di vista diametralmente opposto (da angolature molto diverse tra loro). A detta di questi profeti di sventura (che tanto mi ricordano lo schumanniano Vogel als Prophet), la schiatta degli artisti sarebbe destinata a estinguersi come il dodo, il causario pigmeo e il mammut, mentre a sopravvivere sarebbero unicamente gli scienziati. Ora, la Storia del Novecento (con la sua fallimentare “dialettica dell’Illuminismo”) ha smentito l’ottuso idealismo unilineare di tutti i filosofi utilitaristi e positivisti, ne ha mutilato sogni e aspirazioni che, mutate di segno (nell’arco di sole due generazioni, tante quante separano Hegel da Feuerbach e Marx), trapassarono in un ambizioso quanto radicale scientismo. Quello di una militante “religione della scienza” che non esita ad arrogarsi ruoli e competenze che, vivaddio, non le spettano. Tutto questo potrebbe suggerirmi di pubblicare fra vent’anni un’appendice al mio Orecchio di Proteo, fra quaranta una seconda appendice (più breve), fra sessanta una terza (di poche pagine), fra ottant’anni uno scarno supplemento di poche righe, fra cento un semplice saluto rivolto (dall’oltretomba) al mio fedele e sventurato lettore.
Un’ultima domanda: la Da Vinci ha da non molto pubblicato la registrazione della Sua Quinta Sonata per pianoforte. Sempre per restare nel campo propriamente musicale ha già in mente una nuova incisione di Sue opere? E invece, a livello saggistico e letterario?
Ecco, parlare della mia Quinta Sonata per pianoforte, magnificamente eseguita da un Massimiliano Damerini in stato di grazia, da uno fra i pochi grandi pianisti capaci di occuparsi della musica del passato con la stessa serietà e con lo stesso entusiasmo coi quali ci si occupa, o ci si dovrebbe occupare, della musica d’oggi (in genere i neofiti di talento sono i più entusiasti, mentre col passare degli anni e con l’avvicendarsi delle delusioni, dalle quali nessuno va immune, il “sacro fuoco” è destinato a spegnersi un poco alla volta e a smarrire un poco del suo potere calorico: nel caso di Damerini e di pochissimi altri non è così), mi costringe a rifarmi al concetto di polifonia o di polivocalità, intesa in senso lato, come alla concorrenza ordinata, strutturale, di una molteplicità di apporti costruttivi e normativi (stilistici, idiomatici, tematici) in costante dialogo tra loro. Non solo.
Il dialogo (quanto importante! quanto necessario! fu Martin Buber a definirlo come l’incontro fra l’Io e il Tu all’interno di una relazione, ecco l’altro termine che mi sfuggiva e che vorrei a tutti i costi recuperare al contesto del nostro colloquio: relazione) deve condurre al delinearsi e precisarsi, presto o tardi, di un disegno o contorno sulla cui vera natura, solo che lo si osservi da lontano, da una certa distanza, non sussisteranno dubbi. Da vicino esso ci appare come un’accozzaglia di punti e linee e chiazze di colori. Da lontano, frapposta che noi avremo un’opportuna distanza tra noi e il quadro, la corretta identificazione del soggetto ritratto ci apparirà come un gioco da ragazzi: semplice e istantanea. Il primitivo conflitto tra il dettaglio di un quadro e la forma intera si risolve e chiarifica con l’aumentare della distanza (o del tempo, parlando della musica). Vorrei aggiungere un’altra cosa, che a me pare davvero irrinunciabile. Posta la giustezza dell’identità dei linguaggi, o per lo meno del loro isomorfismo ad una varietà di livelli espressivi, intuizione la cui paternità spetta indubbiamente a Herder, a Schlegel e alla “generazione preromantica” dello Sturm und Drang, diviene spontaneo paragonare qualunque brano fortemente polifonico a un arazzo o a un tappeto del quale si distinguono un prospetto (con le sue scene amorose e di caccia, coi suoi castelli ed i suoi monti, con le sue istantanee di corte) e un rovescio (coi suoi nodi, con le sue asperità, per lo più in filato grezzo). Accanto alla trama (il complesso dei fili disposti orizzontalmente, che vanno da una cimosa all’altra) esiste, deve esistere, l’ordito (il complesso dei fili che passano attraverso le fessure del pettine). Destano in me tenerezza le parole del papa: “Il rovescio del tessuto può sembrare disordinato con i suoi fili aggrovigliati – gli avvenimenti della nostra vita – e forse è quel lato che non ci lascia in pace quando abbiamo dei dubbi. Tuttavia, il lato buono dell’arazzo mostra una storia magnifica”. Più laicamente, Cervantes. Il quale pone in bocca al folle cavaliere della Mancia una perla di saggezza: quando si traduce da una lingua a un’altra è, spiega don Chisciotte, “come quando si osserva un arazzo fiammingo dal rovescio: le figure si vedono ancora, ma sono un groviglio di fili che le rendono confuse e non le fanno apparire nel loro splendore e nella loro perfezione come da diritto” (es como quien mira los tapices flamencos por el revés, que, aunque se veen las figuras, son llenas de hilos que las escurecen, y no se veen con la lisura y tez de la haz). Ma così è anche per l’arte e per la duplicità della sua fattura, della sua confezione, della sua forma, anche di quella interna e invisibile, la cui natura fortemente ambivalente - la stessa dell’androgino alchemico o Rebis, la stessa che manovra i fili di tutte, a detta di Jean-Jacques Nattiez, le opere wagneriane - ci offre due volti, due punti di vista entrambi compresenti e, qualche volta, tra loro confliggenti. Ogni polifonia è molto simile a un arazzo, nel quale ciò che l’orecchio scarta è come la porzione di mondo che l’occhio non scorge (il suo lato nascosto, in ombra), è vero, ma senza la quale la parte restante, quella a noi accessibile, si disfarebbe in un battito di ciglia, sparpagliando i suoi fili e riducendo l’arazzo a un coacervo informe. Può accadere che nell’arazzo in lavorazione alcune parti più avanzate coesistano pacificamente con altre incompiute. L’artigiano può decidere di proseguire nella tessitura di una certa area di tessuto anziché di un’altra, lasciando indietro porzioni di tela che verranno riprese in seguito, così da creare un profilo spezzato o frastagliato (così come lo è la chiostra di un ampio arco montuoso). Neppure il compositore lavora sempre in modo lineare. Nella sua mente e sul foglio pentagrammato gli spunti non realizzati possono talora affiancare o sopravanzare le parti già terminate e la costruzione del tetto può precedere quella dei muri portanti: cosa impossibile per un architetto ma non per un compositore o per un romanziere, i quali hanno a che fare con un tempo plastico e retrogradabile a piacere. Orbene, la composizione di un brano musicale rispetta lo schema di una disomogeneità di apporti che, alla fine, dovranno tutti convergere in unum, confluire in quel grande estuario capace di garantire al brano il massimo dell’esposizione percettiva, della congruenza formale, dell’ancoraggio allo spazio e al tempo (principî a suo tempo enunciati dalla psicologia della Gestalt), della cohaerentia partium.
Un pittore contemporaneo che ho prima citato e che amo in modo del tutto speciale è Chuck Close. Da vicino i suoi quadri sono del tutto illeggibili, essi non ci dicono nulla perché, costituiti come sono da un certo numero di macchie di colore disposte, almeno così pare, del tutto casualmente, questi dipinti non consentono all’occhio di giungere all’individuazione di una forma riconoscibile e familiare. Sbaglieremmo a pensarla in questo modo. Basterà indietreggiare di qualche passo e osservare ex longinquo, da lontano, perché innanzi ai nostri occhi prenda vita la silhouette inconfondibile di un volto, di un paesaggio, di un gruppo di case, di una natura morta. Sveliamo il trucco: occorre frapporre una congrua distanza (soprattutto metaforica, è chiaro) tra sé e l’oggetto dell’osservazione per poterne cavare qualcosa di intelligibile. “Mi si chiamava collezionista di particolari, mentre erano le grandi leggi che cercavo” (Là où je cherchais les grandes lois, on m’appelait fouilleur de détails), lamenta il Narratore giunto al termine del suo estenuante viaggio introspettivo. Abbiamo prima parlato della “scrittura poliespositiva” che contraddistingue una buona parte della mia produzione (è stato Lei a gratificarla con questo appellativo, del quale La ringrazio: potremmo però, questa mia scrittura, chiamarla in mille altri modi purché siano fatti salve, di essa, due cose principalmente: il principio dialogico e relazionale che la fonda e la giustifica ad ogni nuovo momento del suo percorso, e l’assoluta importanza di una sintesi formale che deve, a tutti i costi, senza eccezioni, coronare l’opera una volta terminata, ossia perfecta, pena il fallimento). Ora Lei mi ha ricordato la mia Quinta Sonata, un esempio di durata indubbiamente eccezionale (non so però quanto celestiale, quanto himmlisch). Ecco, mi pare che questo pezzo incarni perfettamente l’idea (e il proposito) di una “scrittura poliespositiva”, di una fortspinnende Variation senz’ombra di dubbio tributaria a Brahms ma anche a César Franck (un compositore del quale si parla pochissimo, che la “buona coscienza” dei melomani ha rimosso nel resto d’Europa, ma non in Francia), a Max Reger (un altro del quale non si parla se non con vergogna e abbassando timorosamente lo sguardo, uno del quale si parla con orgoglio solo e unicamente in Austria), a Paul Hindemith (del quale ho prima parlato male, o non bene, ma lo facevo in un contesto diverso: la verità è che Hindemith è un artefice sommo, al quale Schönberg, Strauss e Busoni si provarono a fare ombra con mezzi leciti e illeciti che non posso e che non voglio in questa sede approfondire), ad Aleksandr Skrjabin (che solo gli imbecilli si ostinano a definire un epigono di Chopin). Lei mi domanda, e La ringrazio per questo, notizie in merito ai miei progetti. Aspetto che qualcuno si occupi di far eseguire e registrare il mio Le Mythe d’Er per grande orchestra. In tempi di pandemia tutto pare possibile, anche ritirarsi nella quiete assoluta di una Certaldo dell’intelletto e del cuore per comporvi il seguito del Decameron, tutto fuorché mettere insieme una grande orchestra per eseguire un brano contemporaneo. Questo è un mio privato cruccio e, mi lasci dire, a questo cruccio non sono estranei la disgustosa miopia e grettezza e incultura di taluni direttori artistici, di fronte ai quali la codardia del Leone di Frank Baum, la crudeltà morale di Winterbourne, l’imbecillità di Bouvard e Pécuchet mi appaiono, per contrasto, circonfusi di un alone di santità e di signorilità. In Italia spadroneggiano i lacchè e i leporelli di un mercato onnipotente, lasciato a sé stesso, in balia di un autogoverno che condannerebbe qualunque nave al naufragio, un mercato prono ai dati Auditel e ai periodici sondaggi di opinione effettuati fra i decrepiti fedelissimi della milanese Società del Quartetto. In Italia prevale il cretino allo stato puro, il deficiente per natura e per vocazione. Mi perdoni se prendo a prestito la descrizione (magnifica, insuperabile) fatta di tale esemplare di bassa umanità dalla coppia Fruttero & Lucentini:
È stato grazie al progresso che il contenibile ‘stolto’ dell’antichità si è tramutato nel prevalente cretino contemporaneo, personaggio a mortalità bassissima la cui forza è in primo luogo brutalmente numerica; ma una società civile ch’egli si compiace di definire ‘molto complessa’ gli ha aperto infiniti interstizi, crepe, fessure orizzontali e verticali, a destra come a sinistra, gli ha procurato innumeri poltrone, sedie, sgabelli, telefoni.
Voglia scusarmi se mi sono appropriato della voce di questi due grandi scrittori, il primo torinese, il secondo romano, due maîtres à penser di vecchio stampo, e se per un breve attimo ho ceduto loro l’onore del proscenio. Non potevo esimermi dal farlo, dato che nessuno meglio di loro ha fotografato l’arretratezza culturale del nostro disgraziato Paese. Ecco dunque come io Le rispondo riguardo ai miei progetti, progetti che riguardano anzitutto me stesso e il mio piacere di rinchiudermi nella mia “torre antica” e di osservare, da essa, dalla mia Certaldo, dalla mia Castalia, dalla mia Andorra, quanto accade nel mondo infero. Certo, sto scrivendo. Mi sto dedicando alla revisione dell’Ottava Sonata per pianoforte e alla stesura della Nona, entrambe in fase di avanzata gestazione. Sto componendo una Messa a nove voci (sul punto di esser terminata a giorni), una summa alquanto singolare del contrappunto quattrocentesco rivisto e rivisitato alla luce dei modi di Messiaen. Si tratta di un’impresa audace e complessa, la quale ha richiesto il lavoro di parecchi anni di vita e una dedizione specialissima (per scrivere una Messa bisogna attraversare la noche oscura e il deserto della desolazione spirituale, come san Giovanni della Croce ben sapeva, prima di olvidarse entre las azucenas, obliarsi in mezzo ai gigli). Ho voglia di purezza. Vorrei che ai mots de la tribu - alle parole della quotidianità, agli stilemi della musica d’uso, agli stereotipi e clichés dell’occhio stregato dai videoclip, dell’occhio irretito da un tempo accelerato e frettoloso - fosse praticata un’iniezione di ossigeno allo scopo di rendere più puro l’idioma e più severo (ma anche più ricco di contenuti) il canone della lingua. Non dirò più commestibile, non dirò più “gastronomico”, perché di cibo precotto e predigerito noi disponiamo in abbondanza sugli scaffali del nostro supermercato interiore. Non dirò nemmeno più duttile, perché oggigiorno tutto è (o diviene) duttile, tutto è (o diviene) malleabile tra le mani degli strateghi della pubblicità. La purezza è un’altra cosa, la purezza, alla quale si accompagna e si affianca la proprietà della sottigliezza, quella che Calvino chiama leggerezza nelle sue Lezioni americane, appartiene unicamente ai cristalli e ai puri spiriti. Faccio mio l’auspicio di Mallarmé, si parva licet, che nel suo Tombeau d’Edgar Poe ci invita a donner un sens plus pur aux mots de la tribu. Così come avviene nelle foreste di larici e tra i laghi d’alta quota e sui picchi di ardesia brunita, cui un sole caldo e perenne regala il colore violaceo dell’ametista. Avverto questo bisogno non diversamente da come io suppongo l’abbia avvertito, un secolo fa, il sommo Giovanni Segantini. Il quale, disgustato dalle bassezze del mondo e dall’uniformità dello sguardo imposto ai pittori (una vision unique che si poteva contrastare in due modi solamente, o aggredendola ab intra, come avrebbero fatto Picasso e Dalì, o fuoriuscendone con violenza, strappandola via come un lembo di tessuto necrotizzato, facendola a pezzi, ed è quanto fecero Modigliani e Segantini), si ritrasse dal mondo per rifugiarsi sulle malghe color verde smeraldo del Munt da la Bês-cha, nel cantone svizzero dei Grigioni. Ma Lei mi chiede notizie dei miei progetti, anche di quelli letterari. Farò menzione di uno solo tra essi. Per l’editore puntoacapo di Alessandria sta per uscire un mio libro intitolato Orizzontale/Verticale. Lettera a un medico, stralunata divagazione sul grande tema della morte e sul nostro ruolo creaturale che, agli occhi di un Dio apatico, sordo a tutte le nostre preghiere e implorazioni, ha la caducità di una vizza foglia d’ippocastano. Gli espedienti dei quali l’uomo della strada si avvale per reagire, a proprio modo, nel suo piccolo, alla sopraffazione di questo Grande Usuraio, i cui continui ricatti stritolano l’umanità in una morsa tanto invisibile quanto ferrea e profondamente criminosa, sono gli stessi dei quali il musicista va in cerca provandosi ad allontanare da sé e dai suoi simili, a stornare dal proprio capo e dalle testoline altrui, l’ombra della Bruttezza e la minaccia del Male. La maggior parte tra noi ha dimenticato e rimosso - per un processo di rimozione tutto fuorché innocente e casuale - tutta la vasta panoplia di capi di accusa che il mite Giobbe, il fedelissimo tra i più fedeli servi di Dio, muove contro il suo e (purtroppo) nostro Creatore. Non basta. Tutti i lettori di Goethe, ignari o dimentichi dell’appartenenza di questi alla loggia Amalia di Weimar, sottostimano l’importanza dell’imbarazzante incipit del Faust, là dove il buon Dio e Satana vanno a braccetto per spartirsi i destini del mondo (importa sottolineare come il Prologo goethiano ricalchi il primo capitolo del Libro di Giobbe, i versetti da 6 a 12 soprattutto, nel quale il patto scellerato acquista proporzioni addirittura cosmiche). Credo che la musica serva a dar voce non solo al divino che è in noi (come ha asserito un pianista-compositore da Lei intervistato or non è molto, evidentemente un candidato alla santità), ma a contenere e a restituire tutto l’uomo. Diogene di Sinope: ἄνθρωπον ζητῶ (cerco l’uomo), l’uomo intero, non una parte di essa, non il filetto, il magatello, la lombata, il carré senza gli ossi, niente di tutto questo. L’animale umano va preso e amato e odiato e glorificato e vilipeso nella sua abominevole interezza. Homo sum, humani nihil a me alienum puto, scrive il drammaturgo Terenzio. Eccoci tornati nuovamente al grande tema della polifonia di voci, qui arricchito dalla varietà e vastità di motivi che inducono l’umana creatura a santificare la propria vita o a screditarla agli occhi di tutti attraverso comportamenti moralmente inaccettabili o, è questa la terza possibilità, la più terribile, il tertium quod datur, a sacrificarla sulla prima pietra d’inciampo che incontra, esattamente come fa il fumatore che, tra il fintamente svogliato e il seriamente preoccupato, spegne con cura il mozzicone dell’ultima sigaretta (così come farebbe uno Zeno Cosini privato della sua coscienza): spiaccicandola, torchiandola, premendola con la suola delle scarpe per smorzarne la brace. Sprecandola, in altre parole, e volutamente ignorandone il valore e il ruolo. Viene in mente il nome di Charles Ives, di uno che, per impreparazione tecnica, ma anche per un’innata vocazione all’eclettismo, decide di comporre un genere di musica – la monumentale Concord Sonata ne è l’esempio forse più eclatante – nella quale tutte le cose devono restare quali egli le rinviene nei verdi pascoli e nelle vaste foreste del Connecticut. Nel pieno rispetto della filosofia di Ralph Waldo Emerson, ovvero: ogni cosa lasciando al suo destino, quello di uno spontaneo e disordinato e incontaminato rigoglio. Quasi evocando lo stato di caos primordiale e falsamente presumendo, è chiaro, così come solo un modesto assicuratore della piccola provincia americana (becera e quacchera) poteva presumere, che Rousseau avesse ragione e che la natura fosse stata creata buona e generosa da un auteur des choses parimenti buono e generoso. L’arte, non solo quella dei dilettanti di genio al pari di Ives, deve incorporare tutto questo. In Shakespeare, così come nel teatro epico di Brecht, noi non scorgiamo mai un solo ed unico filo conduttore, piuttosto ci confrontiamo con matasse di filati della specie più varia, quasi sempre aggrovigliate al punto da risultare indistricabili, viluppi che è arduo sbrogliare. Il bene e il male non si lasciano dividere con un taglio sempre così netto e cristallino come noi vorremmo, parola di Alessandro Manzoni. Lo stesso, con buona pace di don Benedetto, si può predicare del bello e del brutto, il cui discutibile compromesso, per molti aspetti analogo alla mediocritas morale di don Abbondio, è il tanto vituperato kitsch. Si annida in questa penosa anfibolia – in tutto e per tutto simile all’ambiguità sensoriale e percettiva della quale si parla nelle 900 pagine del mio libro, simile anche all’ambiguità di cui William Empson tesse l’elogio nel suo imprescindibile saggio del 1936 – la tragedia dell’arte che sì, per questa sua natura profondamente scissa e contraddittoria, non di rado malsana, più inverosimile che propriamente impossibile, assomiglia tanto alla vita.
Andrea Bedetti