Ottocento e Novecento italiano per pianoforte a quattro mani
In Italia, la musica orchestrale e sinfonica divenne nel corso dei primissimi decenni del Novecento un banco di prova, di maturità, affrontando un processo di affermazione e in certo senso di autonomia nei confronti di quella europea, francese e tedesca su tutti. E in ciò, il contributo maggiore venne fornito da due degli autori che fecero parte della cosiddetta generazione “dell’Ottanta”, vale a dire Ottorino Respighi e Gian Francesco Malipiero, i più sensibili e ricettivi verso le potenzialità fornite dalla musica per orchestra, al contrario di un Alfredo Casella, ancorato a un’esplorazione pianistica e cameristica tout court (anche se non mancano suoi esempi orchestrali, come il Concerto per orchestra op. 61) e soprattutto di coloro che rimasero ancora invischiati nella rete polimorfica del teatro musicale, quindi Franco Alfano, Italo Montemezzi e Ildebrando Pizzetti, in cui l’ambito sinfonico-orchestrale aveva ancora i connotati di un diretto e serrato confronto con la produzione operistica.
Ma, anche se attratti dalle sirene del modernismo della loro epoca, sia Respighi, sia Malipiero si mossero sempre con i piedi di piombo, facendo bene attenzione che la loro ricerca in ambito orchestrale proseguisse non perdendo mai di vista la grande lezione della tradizione; per il musicista bolognese, come per quello veneziano, il processo di innovazione non volle mai dire tagliare il cordone ombelicale da cui buona parte della musica italiana dei primi decenni del Novecento traeva ancora linfa (e questo può valere perfino per autori come Petrassi e Dallapiccola, i quali, sebbene affascinati e attratti dalla semantica atonale della Seconda scuola di Vienna, lo fecero sempre in nome di una più o meno evidente opera di filtraggio fatta alla luce di un’idea “classica”, mediterranea, impregnata malgré soi da quei dettami riconducibili a un eloquio veicolante, tutt’al più mitigati dall’apporto di un modo “cameristico” di sentire e plasmare la materia musicale).
Pagare pegno con la tradizione, per Respighi e Malipiero, per non parlare di Casella, la cui caratura di interprete lo portò a confrontarsi sempre e immancabilmente con il suo strumento prediletto, significò immaginare e pensare la composizione musicale come una plastilina capace di manifestare la sua essenza non solo tramite un organico di vaste proporzioni, ma la cui “idea-matrice”, la sua duttilità poteva essere ricondotta anche nei confronti di quello che rimaneva pur sempre l’elemento principe e ineludibile della trasmissione musicale, ossia il pianoforte, il quale continuò ad essere, e questo non vale solo per l’esperienza italiana, lo strumento-simbolo grazie al quale “completare” il messaggio artistico, così come la figura della “madre” e del “matriarcato” lo è stata, anche e soprattutto in chiave occidentale, per la costituzione dapprima in chiave antropologica e poi di costruzione di civiltà, secondo quanto afferma il pensiero bachofeniano.
Questo perché il pianoforte, per i compositori europei di fine Ottocento e inizio Novecento, fu lo “strumento-madre” con il quale irradiare la loro “civiltà musicale”. Questa idea di “riconducibilità” di un qualcosa che torna, prima o poi, sempre a questo punto di origine, ossia di una materia sonora che, sebbene creata per fini orchestrali e sinfonici, torna nella sua integralità espressiva per raccontare “altro”, la troviamo esemplarmente esposta in una registrazione della Da Vinci Classics che vede un duo femminile, dunque squisitamente bachofeniano, formato da Gilda Buttà e Victoria Terekiev, presentare opere di Ottorino Respighi e Gian Francesco Malipiero, composte per orchestra, nella trascrizione per pianoforte a quattro mani effettuata dagli stessi compositori, vale a dire il poema sinfonico Fontane di Roma e i Sei pezzi per bambini del musicista bolognese, e le rare pagine Armenia, Canti armeni tradotti sinfonicamente e Pause del silenzio, sette espressioni sinfoniche di quello veneziano (entrambe incise in prima assoluta mondiale), così come Pensieri sull’opera “Un ballo in maschera” di Giuseppe Verdi op. 8, pagina giovanile di Giuseppe Martucci, anch’essa in prima assoluta, autore che precede anagraficamente quelli della generazione “dell’Ottanta”, votato sia al pianoforte, sia alla produzione orchestrale.
Per capire l’opera di trascrizione che queste pagine idealmente incarnano significa comprendere il valore progettuale di questa incisione, poiché considerando l’ambito interpretativo di un’opera come Fontane di Roma, abbiamo la possibilità di estenderne il significato anche alle altre prese in oggetto dal duo Buttà & Terekiev; il denominatore comune del quale dobbiamo sempre tenere conto, ascoltando questo celebre poema sinfonico, è dato da come i colori orchestrali riescono a rendere l’idea della luce che illumina le quattro fontane prese in oggetto, quella di Valle Giulia, quella del Tritone, quella di Trevi e quella di Villa Medici in quattro differenti ore del giorno, dall’alba al tramonto, quasi che i principi teorici ed ottici che mossero i pittori impressionisti nelle loro opere en plein air potessero essere ribaditi in termini acustici con l’apporto delle varie sezioni orchestrali.
Respighi, ma questo può e deve valere anche per le pagine di Malipiero e meno per quella di Martucci, nella sua trascrizione per pianoforte a quattro mani delle Fontane di Roma, non considerò tale opera di trascrizione come un semplice trasporre-per-altro-strumento, ma per via della ricchezza e per la complessità dei colori presenti nella partitura orchestrale, effettuò un’operazione di trans-composizione, di ri-creazione per rendere al meglio questa idea di luce, di come potesse essere “visualizzata” dall’ascolto altrui attraverso le potenzialità e le peculiarità della tastiera pianistica, ossia di quello che era lo “strumento-madre” e di cui la resa e “trasposizione” orchestrale rappresentavano, in realtà, l’elemento generato e non certo primigenio. Ritornare al pianoforte (e, si badi bene, con l’apporto di due interpreti) significò rigenerare il principio materno, vale a dire tornare a “ciò-da-cui-nasce-tutto”.
Tale processo a un “eterno ritorno” può essere dunque intrapreso anche per l’altra pagina respighiana e per le pagine malipieriane, in queste ultime due la rarefazione timbrica che le contraddistingue collima con il presupposto di un elemento Ur-in cui la ricchezza della tavolozza dei colori viene ri-condotta a un’ineludibile essenzialità; e proprio in Pause del silenzio, sette espressioni sinfoniche (il cui organico orchestrale, come si evince dalla partitura, era composto da 3 flauti, 3 oboi, 3 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, timpani, piatti, triangolo, tamburo basco, celesta, arpa, archi) quest’opera di ritorno alla “dea madre” esalta il principio primi-genio di un silenzio evocato come fisicità sonora (in codesto senso dobbiamo intendere la volontà da parte di Malipiero di rendere il dramma della Prima guerra mondiale, l’opera risale al 1917 ed eseguita in prima assoluta due anni dopo a Parigi, evocando la rassicurante presenza di un silenzio capace di riequilibrare il caos cacopedico causato dalla perdita irreversibile dell’orthòs).
Nella sua rigenerazione materna data dal pianoforte, tutte queste opere finalmente manifestano la loro visionarietà, mettendo a nudo il vero principio Ur- che le contraddistingue, dando luogo a un dis-occultamento sonoro, timbrico, armonico, che nella versione orchestrale viene inevitabilmente occultato dalla ricerca effettistica dei colori. Vi è, dunque, una nuova luce che li anima, che li mostra, che li rende epifanici, e ciò sia Respighi, sia Malipiero lo sapevano perfettamente. Guai, alla “luce” di ciò, a considerarle delle semplici trascrizioni!
Confido che la scelta della pagina del diciassettenne Martucci, da parte del duo Buttà & Terekiev, valga a questo punto come cartina al tornasole rispetto allo spessore, a dir poco imbarazzante, di quelle di Respighi e di Malipiero, in quanto l’onnipresente patina data dalla letteratura melodrammatica dev’essere considerata come un’assenza della funzione materna del pianoforte, ossia sfruttando (nel senso denigratorio del termine) la tastiera come contraltare virtuosistico senza che vi sia in atto un processo ri-generativo, ma solo continuativo di ciò che è presente nella versione-madre operistica.
Un modo esemplare, mi auguro vivamente, da parte delle due interpreti di far comprendere l’importanza dei due primi autori in questo processo di “eterno ritorno” al pianoforte come “strumento amniotico”.
Va da sé che un’operazione discografica di tale portata aveva bisogno di due figure interpretative di alto rango, in grado di incarnare questa idea della “dea madre” che perpetua il rito della fecondazione musicale-esecutiva; in ciò Gilda Buttà e Victoria Terekiev hanno saputo essere le adeguate vestali per adempiere tale rito. La loro identificazione nei confronti della materia musicale presa in oggetto è a dir poco totale, e non mi riferisco tanto all’affiatamento che dimostrano di avere con il loro respiro esecutivo, quanto alla capacità di ri-creare la materia stessa non come una parodia (nel senso rinascimentale del termine), ma infondendo un’unicità delle opere affrontate e riconducendole a un’autonomia artistica, conferendo loro un DNA che è sinonimo di dignità creativa. Dietro questa esecuzione vi è pensiero, vi è in primis speculazione che diviene interpretazione, vi è quella padronanza del gesto pianistico che è prima di tutto consapevolezza di ciò che dev’essere reso. Ecco, in questo senso l’identificazione fatta dall’artista siciliana e da quella milanese d’origine bulgara è immedesimazione con l’opera tratteggiata, è l’opera stessa che si concretizza idealmente, poiché l’elemento interpretativo si annulla perfettamente nel suo stesso compimento: resta il suono, fissato, scolpito, perpetuato in una dimensione che è assonanza della perfezione. Punto di riferimento.
Pietro Tagliaferri si è occupato della presa del suono, ulteriore ciliegina sulla torta; la dinamica è granitica e delicata allo stesso tempo, con lo strumento che esprime tutte le sue qualità timbriche in fatto di energia e velocità nei transienti e negli armonici. La ricostruzione fisica nel palcoscenico sonoro del pianoforte lo restituisce con la dovuta spazialità al centro dei diffusori e il suo posizionamento ravvicinato rispetto all’ascoltatore non appare innaturale. L’equilibrio tonale, così fondamentale in una registrazione a quattro mani, è ottimo ed è sempre rispettoso e delineato nel forgiare i registri acuti e gravi delle due artiste; infine, il dettaglio è un concentrato di matericità, tale da restituire la fisicità tridimensionale dello strumento.
Andrea Bedetti
Ottorino Respighi-Gian Francesco Malipiero-Giuseppe Martucci – Postcards from Italy - Piano 4 Hands
Gilda Buttà & Victoria Terekiev (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00346