Niccolò Castiglioni, il “puro lucido” della musica contemporanea
La figura di Niccolò Castiglioni, splendido esempio di compositore e pianista capace anche di essere un formidabile didatta, è emblematica nel panorama della musica contemporanea non solo italiana. I motivi di tale emblematicità sono diversi, a cominciare dal fatto che il compositore milanese, morto a soli sessantaquattro anni nel 1996, musicalmente parlando è stato uno di quei pochissimi autori attuali capaci anche di essere allo stesso tempo degli eccelsi interpreti, in questo caso del pianoforte (altrimenti non si può essere stati allievi di Friedrich Gulda e di Carlo Zecchi, come nel caso del nostro, oltre a dimostrare la capacità di saper comporre per questo strumento, come lo attesta la registrazione in questione); inoltre, in un momento storico ancora politicamente complesso, Castiglioni seppe fare ammenda di quell’impianto ideologico che contraddistinse buona parte della musica contemporanea dell’epoca, infarcita da un’ideologia musicale che partiva dagli scritti dei filosofi francofortesi, a cominciare da quelli di Adorno e Horkheimer, e sedimentati dal pensiero, in chiave culturale ed estetico, di Lukács, senza contare il rigorismo esasperato e “talebano” dato dalla Scuola di Darmstadt e la cui fermentazione engagée veniva applicata sistematicamente nel corso dei leggendari (a torto o a ragione) Ferienkurse estivi.
Quindi, se il compositore milanese fu attivo e sostenitore, in un certo senso, della politica musicale incarnata da Darmstadt, è anche vero che a partire da un processo di revisione e di “riscoperta” tonale a partire dagli anni Settanta, la sua posizione artistica ed estetica mutò, andando a smussare a livello personale quelle spigolosità e quegli estremismi concettuali e sonori di una certa avanguardia che si illudeva di essere e di restare sempre tale. Una mutazione, sia ben chiaro, che partiva anche da un altro aspetto che ha contraddistinto l’uomo e l’artista Castiglioni, quello di essere un raffinato e profondo conoscitore della musica antica, in particolar modo di quella rinascimentale (al punto da insegnarla nelle università americane negli anni Sessanta); una peculiarità, questa, che lo ha legato a un altro grande esponente della musica contemporanea europea di quell’epoca, Bruno Maderna, anch’egli in seguito pentitosi, se così si può affermare, degli eccessi darmstadtiani, guidato dall’equilibrio e dal prodigioso senso delle proporzioni che si annidano nei meandri della musica antica, attraverso la quale si sorregge, è bene ricordarlo, il costrutto di buona parte della musica contemporanea. Ed è proprio in nome di questa revisione, di questo mutamento di rotta che Castiglioni ebbe modo di esprimere una musica, soprattutto nell’ambito del “suo” strumento prediletto, capace di manifestare e proiettare una dimensione di “grazia”, di liquidità timbrica che doveva incarnare la sua concezione di lucidità e di purezza, entrambe derivanti proprio da quell’ideale di una classicità che affondava le sue radici fin dall’antichità musicale.
E da qui, in un’inevitabile correlazione, il rapporto che Castiglioni seppe imprimere tra il pianoforte e gli altri strumenti (e di cui questa registrazione della Stradivarius, che vede protagonista il pianista Aldo Orvieto, accompagnato da Marco Angius alla testa dell’Orchestra di Padova e del Veneto, ne rappresenta una debita e ineludibile testimonianza) rientra di diritto in quell’operazione in cui la lucidità formale e la purezza timbrica dovevano rappresentare lo spunto creativo per dare vita a un nuovo linguaggio non esente da una raffinata e diafana ironia, da sempre segno distintivo delle menti più acute e geniali. Ed ecco, allora, che questo disco, il quale raccoglie tutte le opere per pianoforte e orchestra composte da Castiglioni nell’arco della sua breve vita, intende dare modo di tracciare un sentiero disseminato da stazioni di sosta all’interno delle quali il compositore milanese seppe costruire di volta in volta un percorso di ricerca espressivo-formale che adesso, nel suo ascolto globale, si mostra oltremodo chiarificatore, permettendo all’ascoltatore di rendere il giusto merito al coraggio “riformatore” e alla lungimiranza compositiva dell’artista.
Si diceva di una mai rinnegata “classicità” che permea la musica di Castiglioni e che nel corpus delle opere per pianoforte e orchestra viene soprattutto manifestata in due pagine, la Fantasia concertata (risalente al 1991) e da Fiori di ghiaccio (1982-83). Al di là dei titoli dati ai tempi di queste pagine (Ottaviario, Prosopopea, Aria e Romanza per la Fantasia e Cavatina, Preludio e Fuga, Au bord d’une source e Walzer per la seconda opera) il rimando classico va a identificarsi con Anton Webern, ossia con colui che si pone a livello di spartiacque tra il Novecento storico e l’avvento delle avanguardie e viene fornito da una scrittura nella quale il pianoforte attua un dialogo sistematico con l’insieme strumentale (e questo è maggiormente ravvisabile nella Fantasia concertata), pur mantenendo una propria autonomia, come nel caso di Prosopopea, in cui il movimento in questione si stempera come un Trio, nel quale lo sviluppo pianistico si focalizza nella parte centrale (stupefacente è l’uso di cluster all’interno di un fraseggio matericamente tonale!), demandando il dialogo con gli altri strumenti all’inizio e nella brevissima coda, mentre gli ultimi due tempi della composizione propongono parallelismi, anche temporali, con la visione weberniana, trasudanti un’ammirevole densità concettuale.
Fin da quest’opera si può notare la propensione in Castiglioni per una liquidità timbrica, un fraseggio perlaceo e cristallino che si concretizza soprattutto nel registro acuto e medio-acuto della tastiera, accompagnato e reso più vivido dall’uso di strumenti come la celesta e il glockenspiel. Una cristallinità che non decade mai in una glacialità del suono, ma che ne attesta sempre una conturbante rotondità, la quale promuove incessantemente una linea costruttiva, un dialogo mai represso, ma sempre ricercato verso le zone timbricamente più acute, più diafane, più pure (d’altronde, non appare esagerato affermare che la musica di Castiglioni, anche quella non dedicata al pianoforte, è contrassegnata da quella che può essere definita una “rotondità lineare”). E se Fiori di ghiaccio (dedicato a György Ligeti), appare paradigmatico in ciò (la ricerca del freddo inteso come segno fisicamente tangibile della purezza e di ciò che resta vivo grazie alla protezione data dalla bassa temperatura), elemento musicale fattivo di quella scelta da parte dello stesso compositore milanese di lasciare il capoluogo lombardo per rifugiarsi a Bressanone, scelta che non appare dissimile, nella sua forzatura interpretativa, da quella fatta da Wittgenstein quando, già in odore di essere uno dei più grandi filosofi dell’epoca, nel 1919 decise di andare a insegnare a Trattenbach, uno sperduto villaggio austriaco, quasi si trattasse di trovare una dimensione geomantica del proprio pensiero).
L’afflato recuperante una tonalità aggregata alla forma di una materia perennemente cangiante nella sua liquidità cristallina si scopre anche in Gorgheggio per pianoforte e otto strumenti (1988), in cui la ricerca sul registro acuto si rende più articolata, più ampia e presenta un’analisi timbrica del pianoforte che è, allo stesso tempo, espressione compiuta fine a se stessa e “senso di attesa” angosciosa, quasi aleggiasse quel senso di Erwartung connotato da Schönberg nell’opera omonima, che precede l’irruzione finale degli strumenti i quali espongono un reiterato accordo (il gorgoglio timbrico con il quale si conclude l’atto unico schönberghiano!) teso a concludere/offuscare quanto enunciato precedentemente dallo strumento a tastiera. La concrezione dell’opera in questione pone anche attenzione su come Castiglioni presenti una pagina che non dev’essere interpretata nell’ascolto nel modo consueto quando ci si trova di fronte uno strumento solista e una compagine strumentale, ossia di concepire il tutto come un con, un insieme dialogante, ma cogliendo nell’accezione di “pianoforte e otto strumenti” un senso di prosecuzione e sviluppo temporale/costruttivo, vale a dire la materializzazione timbrica del pianoforte e, a livello di congiunzione (e), l’affioramento subitaneo finale degli otto strumenti, come se si trattasse di una sorta di “serialismo figurativo”.
A proposito di serialismo, Movimento continuato per pianoforte e strumenti (scritto nel 1959 e dedicato a Luciano Berio e agli amici di “Incontri musicali”), vuole essere un omaggio, un tributo “evoluto” alla letteratura dodecafonica della Scuola di Vienna, un larvato sentore nostalgico che si estrinseca nell’irradiazione di una struttura formale ed espressiva in cui il pianoforte e l’accompagnamento orchestrale dipanano linee sonore perennemente in bilico tra l’ortodossia seriale e l’identificazione di nuovi strati sonori che vanno necessariamente oltre la storicità dodecafonica, come a sottolineare la ricerca di un significato musicale nel quale lo storicismo (la musica stessa non ne è esente) dell’atto creativo si deve necessariamente confrontare con ciò che lo vuole superare («Finalmente Schönberg è morto!», scrisse nel 1952 il ventiseienne Pierre Boulez).
Il superamento, però, è anche adattamento, adeguamento, allineamento. E questo può essere il cono interpretativo dall’ultimo brano presente nel CD in questione, il Quodlibet – Piccolo concerto per pianoforte e orchestra da camera, risalente al 1976. Il concetto di Quodlibet, è bene ricordarlo, nella musica è rappresentato da un brano che è composto da diverse melodie unite attraverso l’uso del contrappunto, melodie che spesso sono di matrice popolare, quindi spensierate e di facile memorizzazione. In tal senso, la trasformazione di un Quodlibet prosaico in un elemento colto e rafforzativo in un’opera di alto profilo artistico ne rappresenta, per l’appunto, sia il suo superamento, sia il suo adattamento (come dimenticare il Quodlibet che Bach utilizza chiudendo le Goldberg Variationen prima della ripresa dell’Aria iniziale e che è desunto da due melodie popolari, “Ich bin so lange nicht bei dir g’west, ruck her” e “Kraut e Rüben haben mich vertrieben”?). Similarmente, Castiglioni con il suo Quodlibet immette anche un elemento sottilmente ironico, con un uso quasi parodistico (nel senso anche rinascimentale del termine!) di melodie e di temi dal richiamo popolare che sembrano uscire da una scatola musicale ad uso e consumo di bambini che devono addormentarsi. Rimandi stravinskijani, allegorie deliziosamente irriverenti (sempre che si possa associare un aggettivo simile a un artista come Castiglioni), dimensioni fiabesche sezionate e filettate dall’uso delicatamente spietato degli strumenti in chiave timbrica, in nome di una trasmutazione sonora che dallo stato solido passa a quello liquido, perennemente mutante e cangiante.
La staticità, l’immobilismo mentale, la fossilizzazione creativa: sono stati questi i nemici dichiarati della musica di Niccolò Castiglioni. Come ci spiega magnificamente questa registrazione.
Certo, la densità di queste opere, per essere colta e assimilata, dev’essere dipanata e resa palpabile da una lettura che sia in grado di evidenziare ed esprimere contemporaneamente il pulviscolo creativo ed estetico che si annida in esse. E in ciò Aldo Orvieto ci è riuscito benissimo, perché lo ha fatto attraverso un pianismo che è semplicemente identificativo con quanto vi è nella partitura, così come lo è nella sua dimensione aggregante nella resa acustica e timbrica del suono. Un suono che enuncia, offre, entra in simbiosi o si distacca dalla tentazione simbiotica con gli altri strumenti, che rende il pianoforte totalmente autonomo e titanico oppure supplicante e bisognoso del sostegno timbrico e fisico altrui. La musica di Castiglioni, come avviene per i più grandi, richiede empatia e simpatia allo stesso tempo e il pianista padovano dimostra di possederne in dosi massicce, trovando in Marco Angius, l’ideale compagnon de route al quale affidarsi per dare luogo a un suono orchestrale (reso ottimamente dalla compagine padovana) in cui la manifestazione fisica del suono rispetta sempre il volere dell’autore in nome di un’incessante mutevolezza nei piani timbrici e in quelli armonici. Solo così si riesce a ottenere quel necessario e indispensabile equilibrio tra strumento solista e accompagnamento orchestrale.
Matteo Costa ha effettuato la presa del suono, restituendo una dinamica pregnante ed energica. Questo vale soprattutto per il pianoforte, il quale viene ricreato all’interno dello spazio sonoro in una posizione decisamente (e non so quanto “dichiaratamente”) avanzata rispetto agli altri strumenti, dando luogo a un’immagine sovrastrutturale con lo strumento solista che rappresenta il vertice di un triangolo timbrico rispetto all’accompagnamento orchestrale che ne concretizza invece la base. Scelta che può essere condivisa o meno, ma che pone l’ascoltatore in una dimensione di assimilazione del suono che è fonte di riflessione e di inevitabili rimandi concettuali.
Andrea Bedetti
Niccolò Castiglioni – Quodlibet-Complete Works for Piano and Orchestra
Aldo Orvieto (pianoforte) – Orchestra di Padova e del Veneto – Marco Angius
CD Stradivarius STR 37097
Qualità artistica 5/5
Qualità tecnica 4/5