Marco Enrico Bossi, l’alfiere della “musica assoluta”
Ho già avuto modo di accennare su queste pagine, nel corso di articoli e critiche discografiche, di come l’Italia musicale pre e post risorgimentale, per motivi che sarebbe troppo lungo dibattere in tale sede, concentrò attraverso i suoi compositori più famosi e accreditati anche all’estero la propria attenzione nei confronti del melodramma e del teatro musicale, emarginando di fatto quelle esigenze squisitamente “europee” che attraversavano trasversalmente in quegli stessi decenni il vecchio continente dalla Francia fino ai Paesi dell’Est, questi ultimi impegnati a valorizzare il loro patrimonio musicale attraverso il fenomeno delle scuole nazionali. Il nostro Paese, invece, per buona parte del Romanticismo rimase fedele (personalmente preferisco dire invischiato) nei meandri del “bel canto”, mentre all’estero la cosiddetta “musica assoluta”, ossia quella puramente strumentale, propugnata filosoficamente da pensatori come Schopenhauer e Wackenroder e da teorici come Hanslick, forgiò un “nuovo suono” destinato a confluire dapprima nel tardoromanticismo e poi nella modernità del primissimo Novecento, con l’irruzione di nuovi linguaggi e di nuove sensibilità estetiche.
Ma ciò non significa che l’Italia uscita dal Risorgimento sia stata del tutto “repellente” ai richiami della musica strumentale, alle sue progressive conquiste in ambito cameristico e orchestrale, tenuto conto che alcuni coraggiosi musicisti decisero di esporsi, andando à rebours e manifestando di conseguenza un interesse quasi esclusivo nei confronti della “musica assoluta” strumentale, guardando con interesse ed entusiasmo verso la Francia, l’Inghilterra e soprattutto verso l’Austria e la Germania. E tra costoro, vale a dire, tanto per ricordare qualche nome, Antonio Bazzini, Giovanni Sgambati, Giuseppe Martucci, Roffredo Caetani, vi fu anche il lombardo Marco Enrico Bossi, nato a Salò nel 1861 e morto nel 1925 su un piroscafo nell’Oceano Atlantico durante una traversata che da New York lo stava riportando in Italia. Bossi fu un valentissimo organista, uno dei più grandi virtuosi di questo strumento con il belga César Franck e Camille Saint-Saëns, trasformando l’organo da strumento squisitamente sacrale a quello di mezzo per esprimere colori e strutture che rimandano a una visione realmente sinfonica (sulla falsariga di quanto Liszt e Schumann avevano fatto decenni prima con il pianoforte). Ma Bossi fu anche un entusiasta esploratore della musica cameristica, sebbene la sua produzione sia limitata a due Sonate per violino e pianoforte e a due Trii per violino, violoncello e pianoforte. Questi ultimi sono stati recentemente registrati per l’etichetta Brilliant dal Trio Archè, formato da Francesco Comisso al violino, Dario Destefano al violoncello e Francesco Cipolletta al pianoforte, rispettivamente il Trio in re minore op. 107 (dedicato tra l’altro proprio a Giuseppe Martucci) e il Trio in re maggiore op. 123. Questi due lavori rappresentano altrettante pagine sintomatiche della temperie della musica strumentale italiana tra il finire dell’Ottocento e l’inizio di quello successivo, ossia in un’epoca a dir poco cruciale, tenuto conto che coincide con la morte di Johannes Brahms (1897), punto di riferimento assoluto di Bossi (contrariamente a Sgambati, il quale fu amico e ammiratore principalmente di Liszt) e con quei segni che si rendono sempre più manifesti e che annunciano la repentina disgregazione del linguaggio tonale attraverso un infittirsi di elementi dissonantici e di aggregati armonici che destabilizzavano sempre più il costrutto musicale. I compositori italiani, tra cui Bossi, si trovarono quindi in ritardo di fronte a coloro che all’estero avevano già posto da tempo le basi per costruire un nuovo linguaggio che andava di pari passo con la progressiva distruzione di quello precedente e il rischio di imitare stilemi, concezioni, costruzioni armoniche fu inevitabilmente forte e ineluttabile, come appunto dimostrano questi due Trii che in un certo senso riassumono idealmente quanto elaborato, in termini di musica strumentale, al di là delle Alpi, proiezioni più o meno speculative di un sentore, di un’irrequietezza che sarebbe esplosa pochi anni dopo con l’irruzione delle avanguardie e con l’instaurarsi, tra gli altri, del linguaggio seriale.
La differenza fondamentale che separa i due Trii è che l’op. 107, rispetto al presente di Bossi, guarda verso il passato, mentre l’op. 123 già si proietta verso un non ben specifico futuro, raccogliendo di fatto inquietudini e tentativi di sdoganamento rispetto a un linguaggio, come quello manifestato nel primo Trio, in cui il giovane Brahms e il radioso Mendelssohn dettano le fila dell’eloquio, in bilico tra un Romanticismo “solare” e un Classicismo del quale, però, non si può fare ancora a meno, delineato da una struttura il cui l’equilibrio formale è evidenziato dalla distribuzione del costrutto tra i tre strumenti. Costrutto ed equilibrio, invece, che non contraddistinguono il secondo Trio (denominato emblematicamente “Trio sinfonico”, che rimanda inevitabilmente a quel concetto di “sinfonico”, ossia di espansione, esplorazione timbriche rispetto alle consuete connotazioni strumentali, tipiche appunto del pianismo di Schumann e di Liszt), che proprio partendo da una manifesta priorità del pianoforte, che introduce, dipana e sviluppa seguito dai due strumenti ad arco, pone un’evidente frattura che manda in frantumi l’apollineo equilibrio evidenziato nel primo Trio (si badi bene, questi due lavori non sono separati da svariati anni o decenni, ma il primo è del 1896 e il secondo è del 1901, ossia appena un lustro, ma che in termini di ribaltamento artistico condensano e assorbono, come un buco nero, una moltitudine di mutazioni repentine, di esplorazioni e sviluppi racchiusi in un battito di ciglia), trasformando di fatto l’op. 123 in una sorta di cartina al tornasole che lascia trasparire l’ultimo Brahms, il giovane Strauss (quello del Quartetto per pianoforte ed archi op. 13, che risale al 1885) e quella tipica matrice austro-germanica che proiettano, almeno in parte, questa composizione verso nuove e future frequenze stilistiche (è forse esagerato connettere l’impianto dissonantico, sebbene ancora in fase germinale, alle future conquiste in tal senso di uno Zemlinsky?). È in tale ottica, quindi, che devono essere ascoltati questi due Trii, quadratura del cerchio di un passato idealizzato e mai dimenticato per il primo, ed elaborazione per il secondo di un laboratorio in progress rivolto a un futuro che riguarda non solo le nuove conquiste armoniche d’oltralpe, ma anche un rappel à l’ordre nei confronti della musica italiana di quel tempo, ormai immersa nel variopinto arcipelago del verismo lirico.
L’interesse di questi Trii è dato anche dalla lettura che il Trio Archè ha saputo dare (che, per quanto mi riguarda, per i motivi che dirò, risulta più coinvolgente e avvincente rispetto a quella pur buona del SchuberTrio che li ha registrati nel 2009 per la Tactus), fissando un paletto ben preciso tra il primo e il secondo Trio, ossia restituendo non solo le arcate, ma anche sceverando all’interno di esse le cellule tematiche, evidenziando rigore e capacità introspettiva. Ciò vuol dire riprodurre timbricamente certezze e dubbi, punti esclamativi e punti interrogativi, delineare cameristicamente il trio nella sua forma e ampliarlo alla ricerca di nuove sonorità, facendo confluire, insomma, il passato nel futuro. Un’operazione delicata, rischiosa, non solo per la scelta di un autore ancora troppo poco frequentato se non in chiave organistica, ma anche per la struttura evocativa di queste due opere, che però il Trio Archè ha saputo proporre e manifestare fissando le luci e tratteggiando le ombre, quasi si trattasse di un Giano bifronte.
In ambito tecnico la presa del suono effettuata da Raffaele Cacciola è in grado di esaltare sufficientemente la bellezza del suono espresso (tra l’altro, Francesco Comisso suona un Dom Nicolò Amati del 1735, mentre Dario Destefano un Giacinto Santagiuliana del 1821), con una dinamica che fa giustizia del loro sontuoso timbro; il palcoscenico sonoro è corretto, con il pianoforte al centro posto leggermente in profondità rispetto ai due strumenti ad arco, con tanto nero intorno ad essi in fatto di dettaglio e con un equilibrio tonale decisamente convincente.
Andrea Bedetti
Marco Enrico Bossi – Piano Trios
Trio Archè (Francesco Comisso, violino – Dario Destefano, violoncello – Francesco Cipolletta, pianoforte)
CD Brilliant 95581
Giudizio artistico 5/5
Giudizio tecnico 4/5