Marco Angius, il paladino della contemporaneità
Direttore artistico dell’Orchestra di Padova e del Veneto, il direttore italiano è anche uno dei maggiori specialisti di musica contemporanea al mondo, artefice di esemplari letture dei più grandi musicisti della nostra epoca. Lo abbiamo intervistato per parlare della sua attività di direttore, ricercatore e battitore di territori musicali poco frequentati
Maestro Angius, la sua attività direttoriale si basa principalmente sulla valorizzazione delle opere orchestrali contemporanee e su una ricerca che vede queste opere o i loro autori legati indissolubilmente ai retaggi musicali del passato. Una visione artistica, non solo legata alla musica, che mi riporta alla mente la concezione direttoriale di uno dei maggiori musicisti contemporanei del recente passato, Bruno Maderna, il quale, oltre ad essere stato il sommo compositore che ben conosciamo, è stato anche un grande conoscitore della musica antica, sulla quale ha avuto molto da dire, soprattutto per i continui rimandi che aveva con quella contemporanea, insegnando che la musica di oggi, del nostro tempo, non è una cosa a sé, un arcipelago a sé stante, ma un continente che è ineludibilmente collegato con i territori della grande tradizione musicale occidentale dei secoli precedenti.
In effetti Maderna rappresenta una figura di riferimento come direttore e come musicista totale del XX secolo (“musicista europeo” lo definì Massimo Mila in una calzante immagine). Dopo molti anni dedicati alla musica contemporanea dura e pura ho gradualmente riscoperto il valore innovativo dell’interazione col passato: cosa succede quando un compositore d’oggi rielabora le musiche di un’altra epoca? Chi è il vero Autore del risultato finale? Il fenomeno si ripete da sempre e la post-modernità si è fortemente orientata verso queste declinazioni a oltranza di opere antecedenti: penso in particolare a Berio che è stato una sorta di apripista storico (peraltro molto imitato). Forse si tratta di un’attrazione fatale verso un passato irraggiungibile e rappresenta un sintomo di decadenza del presente, ma i due concetti sono ambiguamente intercambiabili. Restaurare il passato può tuttavia diventare un sorta di necrofilia travestita da approccio rigoroso (l’illusione di un avvenire che restituirebbe l’autenticità dell’opera attraverso una definizione presunta della volontà del compositore) o, peggio ancora, un recupero nostalgico di stilemi decrepiti e a buon mercato (l’avvenire di un’illusione, come se l’unico fine di un compositore consista nel soddisfare un pubblico/massa attraverso una comunicativa accattivante e disimpegnata). Tornando a Maderna, sto studiando con grande curiosità e meraviglia il “suo” Orfeo monteverdiano, sconosciuto in Italia, in vista del centenario del 2020, confrontandomi in questo percorso con illustri figure della musicologia attuale come Angela Ida De Benedictis. Insieme con la versione di Respighi, del 1934, l’elaborazione di Maderna mi sembra un tentativo riuscito di rispondere alle inquietudini creative di diverse generazioni reinventando un passato solo presunto e mostrando i lati più inattesi di un capolavoro indiscusso ma poco frequentato come l’Orfeo. Nel colmare il vuoto tra linea di canto e basso continuo originali, Maderna appare molto più umile e autentico di tanti altri che si arrovellano di riempirne i margini con criteri di sterile filologia. La filologia non può coincidere col fine di un’interpretazione quanto piuttosto rappresentarne un mezzo d’avvicinamento lessicale, essendo segno e suono drammaticamente divaricati, se non inconciliabili. Con la partitura non siamo dunque di fronte all’opera in quanto suono ma al suo simulacro muto, ben lontano dall’essere il testamento delle reali volontà dell’Autore come si vorrebbe invece spacciare: laddove si arresta la decifrazione del segno inizia l’interpretazione del suono. Del resto, Monteverdi sarà sempre un contemporaneo perché dotato di una logica compositiva sorprendente e prismatica. Recentemente con l’Orchestra di Padova e del Veneto abbiamo presentato il Combattimento di Tancredi e Clorinda nella versione psichedelica di Giorgio Battistelli e si è trattato di una riscoperta visionaria per la drammaturgia del suono e la forza rappresentativa dei testi, per le possibilità di soluzioni strumentali, di tempi, di connessioni sceniche con una scrittura apparentemente spoglia ai limiti dell’ineffabile.
A proposito del legame che collega armonicamente la musica antica, quella, tanto per intenderci, che va dal XV al XVII secolo, con quella contemporanea, condivide quello che disse Glenn Gould a proposito del Romanticismo, ossia si è trattato fondamentalmente di un “accidente” che, per quasi un secolo, ha provocato una sorta di blackout nei termini di quel processo musicale votato all’evoluzione della forma armonica a discapito di quella melodica, evoluzione armonica che accomuna indubbiamente la musica antica con quella contemporanea?
Non vedo il processo storico e formale della musica come una parabola necessariamente evolutiva o decadente e non mi sembra che ci stiamo muovendo verso conquiste future in questo ambito, soprattutto se i criteri di gusto e gradimento vengono stabiliti da parametri consumistici (vedi sopra) o da un’estetica che non riconosce il legame tra valore culturale e interesse del pubblico. Almeno nella mia esperienza ricevo segnali diversi pur concordando con lei sull’indubbio collegamento tra musica antica e contemporanea che ci riporta, anche in questo caso, al discorso iniziale. Oggi siamo piuttosto alle prese con un’archeologia della musica contemporanea avendo finalmente occasione di approfondire la produzione musicale del secolo scorso con maggiore coscienza critica, esplorando cioè i ruderi della modernità. Non si tratta di proclamare la fine liberatoria dall’ideologia dell’Avanguardia opponendovi sbobbe neo-tonali o neo-banali e spacciando odiosi semi negazionisti: tra decadente, scadente e scaduto c’è una bella differenza! Come operatore del settore cerco in ogni caso di lasciar spazio a posizioni legittimamente diverse e io stesso come interprete sono stato talvolta complice di estetiche tutt’altro che condivise. Certamente va anche distinto l’ambito di teatro musicale dalla composizione di genere assoluto, distinzione tornata oggi fortemente in auge. Tornando alla Sua domanda, anche l’Ottocento è stato un secolo rivoluzionario e penso che il termine Romanticismo non sia molto adatto a sintetizzare tutte le trasformazioni musicali avvenute in quell’epoca. Pensiamo al Macbeth di Verdi, per esempio: nel 1847, rispetto alla situazione europea, Verdi compie un balzo enorme, lavorando sulla drammaturgia musicale in modo sperimentale, spericolato direi. Se spostiamo lo sguardo in avanti, esattamente cento anni dopo, troviamo Stravinskij che con The rake’s progress conferma la necessità/ossessione di attingere a strutture antiche per esprimere il proprio tempo. Ecco dunque vacillare le categorie storicistiche che assegnano i connotati di modernità e antichità in relazione alle singole epoche.
Per il quarto anno, Maestro Angius, lei è stato l’artefice del cartellone concertistico dell’Orchestra di Padova e del Veneto che prenderà il via nella città veneta dall’11 ottobre 2018 fino al 9 maggio 2019. Ancora una volta, si tratta di un cartellone che vanta scelte coraggiose (vedi articolo di presentazione, N.d.R.) che parte e lega il tardo Cinquecento fino ai giorni nostri, passando attraverso quella stimolante iniziativa che è “Lezioni di suono”. Quest’anno, il tema conduttore è dato dal concetto del “tempo” e della “tempesta”, tempo sia come scorrere temporale, sia come “battito musicale”, e tempesta intesa nell’accezione di “svolta squassante”, “punto di non ritorno”. Alla base di questa programmazione, il celebre passaggio iniziale tratto dal ciclo letterario Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann da lei citato e che recita testualmente: “Profondo è il pozzo del passato. O non dovremmo dirlo imperscrutabile?”. Musicalmente, rispetto alle scelte fatte per questo cartellone, quanto è profondo questo pozzo del tempo e come affiora sulla superficie della contemporaneità?
La sua lettura è esatta e analitica. A Padova ho impostato programmi che rispettassero le attese del pubblico e allo stesso tempo rivelassero aspetti meno evidenti quanto essenziali della produzione contemporanea, anche nella sua valenza maieutica: non è stata solo una strategia ma un obiettivo perseguito con intenti innovativi perché credo profondamente nella curiosità e nell’affetto del pubblico e in questo caso si è subito innestato qualcosa di speciale che perdura. Ne ho avuto una prova ulteriore anche nel lavoro di presentazione delle recenti Lezioni di suono alle scuole inferiori e medie: nessuna barriera di comprensione con opere stratificate e complesse come L’imbalsamatore o I Cenci di Battistelli ma un entusiasmo pari all’attenzione ricettiva. Quest’anno c’è un brano di Novecento o di musica contemporanea praticamente in ogni concerto e da più parti è stato apprezzato questo dato peraltro assai insolito (se confrontato con l’andamento nazionale). Non si tratta di aprire alla musica contemporanea per partito preso o di aggiungere ulteriori protocolli al nostro naufragio (come avrebbe detto Donatoni), quanto di mostrare il valore di crescita culturale e musicale che può portare tale esperienza sia per il pubblico che per il lavoro dei compositori con i musicisti dell’Orchestra di Padova e del Veneto. A ottobre ci sarà Claudio Ambrosini con una novità assoluta in apertura di Stagione (commissionata dall’OPV) che partirà da Andrea Gabrieli come punto d’origine di un universo di tempi, suoni e spazi risonanti. Poi diversi lavori di Berio in diagonale col passato: con Boccherini, Brahms e Verdi che non a caso citavo prima e che avremo l’onore di presentare anche all’interno della Stagione Sinfonica della Fenice. Ho invitato Nicola Sani come nuovo compositore in residenza perché, oltre a essere una personalità di indiscusso rilievo internazionale, possiede una visione precisa e globale di come si sta muovendo il mondo della musica. Per dirigere il suo nuovo brano indosserò dei guanti speciali che trasformano il suono in tempo reale e lo direzionano nello spazio. Conto di proseguire in questo percorso di apertura al pensiero musicale presente fino alle generazioni più giovani secondo un criterio sistematico e non scontato. Del resto, non programmo concerti leggendo gli organici sui cataloghi ma per esperienza diretta e seguendo un criterio costruttivo (o decostruttivo) che crei percorsi di orientamento multipli ed estesi nel tempo. La fantasia e l’istinto giocano certo una parte determinante, oltre alla complicità dell’Orchestra che svolge un ruolo altrettanto decisivo e fondamentale: mentre in passato erano solo i grandi nomi del concertismo a portare attenzione intorno all’attività dell’Orchestra di Padova, ora il soggetto è l’Orchestra stessa e le recenti apparizioni televisive in opere come Inori di Stockhausen all’apertura della Biennale 2017 o le serie di Lezioni di suono con i più importanti compositori italiani d’oggi, hanno rivelato ben altre implicazioni e potenzialità di questa straordinaria compagine che si sta trasformando con l’innesto di figure artistiche giovani e nuove. Ora sto pensando a delle lezioni-match, una sorta di tribuna musicale in cui due compositori, dalle posizioni estetiche assai diverse, espongano al pubblico la propria visione del mondo con esempi in tempo reale dell’Orchestra.
Lei è impegnatissimo anche nell’attività delle registrazioni discografiche, basate anch’esse quasi esclusivamente sul repertorio della musica contemporanea, e due novità che la riguardano sono la registrazione, entrambe per la Stradivarius, di Quodlibet del compianto Niccolò Castiglioni (guarda caso, un altro eccelso musicista specialista di musica antica) e del Prometeo di Luigi Nono. Per quale motivo ha voluto registrare questi due lavori e quando saranno disponibili?
Ci tengo a sottolineare che quello di Castiglioni, contenente l’integrale dell’opera pianistica realizzata con Aldo Orvieto, è il settimo disco in meno di quattro anni di collaborazione con l’Orchestra di Padova e del Veneto e fa parte di un percorso ambizioso e strutturato: rileggere il Novecento e l’Avanguardia storica italiana del secondo dopoguerra fissando dei punti di riferimento interpretativi. Infatti, questo nuovo disco è stato preceduto da passaggi cruciali come Abyss di Donatoni (2017) e An Mathilde (2016, con lavori di Luigi Dallapiccola e Camillo Togni da poeti come Heinrich Heine e Georg Trakl). Il disco sarà disponibile a fine estate. Quanto al Prometeo di Nono si tratta di una nuova edizione della partitura diretta lo scorso anno a Parma, nello spazio ideale e metafisico del Teatro Farnese dove avevo già inciso Risonanze erranti. Grazie all’intraprendenza lungimirante di Anna Meo, che ha programmato l’opera nella Stagione del Regio, il Prometeo è tornato a risuonare in modo rinnovato e ho potuto offrirne una lettura per certi versi inaudita, realizzata per la prima volta interamente con artisti italiani (a cominciare dall’Orchestra Arturo Toscanini): due dei quattro gruppi orchestrali erano a distanza di 80 metri e io stesso mi trovavo su una specie di torre aperta sulla totalità delle formazioni. Ho anche potuto scegliere personalmente le voci e l’ensemble dei solisti, oltre a usufruire della preziosa complicità di Alvise Vidolin e Nicola Bernardini sul versante elettroacustico e dell’eccellente coro del Regio preparato da Martino Faggiani. Insomma, una condizione ottimale per un progetto di questa portata che Massimo Cacciari ha collocato tra gli esiti più convincenti mai ascoltati. Il disco (SACD) sarà disponibile da settembre e per me rappresenta un traguardo non indifferente dopo decenni dedicati alla causa della musica contemporanea di ricerca. Nel 2019 conto poi di incidere l’Offerta musicale di Bach (o Sacrificio musicale, secondo la felice definizione del musicologo tedesco Hans Eberhard Dentler) nella versione di Igor Markevitch, come pendant all’altro grande progetto realizzato nel 2015 qui a Padova con l’Arte della fuga (orchestrata da Scherchen). Scherchen, insieme con Maderna, è un altro nume tutelare del Novecento e ha lavorato tutta la vita a questa impressionate rilettura di Bach, una specie di grande requiem laico puramente strumentale.
Un’ultima domanda, Maestro Angius. Nei prossimi mesi troverà il tempo, tanto per rimanere in tema, tra i suoi impegni di direttore artistico con l’OPV e le registrazioni discografiche, per fare altro per ciò che riguarda l’ambito direttoriale?
In ambito di teatro musicale ci sarà la nuova opera di Filippo Perocco prevista a settembre presso il Teatro Sperimentale di Spoleto in coproduzione con il Festival Aperto di Reggio Emilia: s’intitola Lontano da qui e prende spunto dalle tragiche vicende del terremoto del Centro-Italia. Poi sarò impegnato fino a fine ottobre nell’inaugurazione dell’Opera di Firenze con il dittico Ehi Giò di Vittorio Montalti e Le villi di Puccini. In ambito sinfonico dovrò debuttare con alcune orchestre come l’Orchestre National de Lorrain a Metz e Liegi, con la Sinfonica Siciliana in un programma dedicato a Casale, Mahler e Nono (con i bellissimi Canti di vita e d’amore); sarò inoltre a Parma per il Festival Traiettorie con un omaggio a Federico Incardona e successivamente con l’Orchestra Toscanini per un ritratto di Louis Andriessen in prima italiana (La passione) oltre all’attività con l’Ensemble Prometeo e l’Accademia del Teatro alla Scala cui sono particolarmente legato. L’estate mi servirà inoltre per gli ultimi ritocchi al mio terzo libro: Archeologia della musica contemporanea…
Andrea Bedetti