Lo stile “aggradevole” del Paisiello strumentale
La recente pubblicazione, per l’etichetta discografica Aulicus Classics, dei Quartetti per flauto, violino, viola e violoncello op. 23 di Giovanni Paisiello (la cui autenticità sembra ormai essere del tutto stabilita), ci permette di fare un minimo di luce su uno scorcio della produzione strumentale di un musicista che costruì la propria fama grazie al repertorio operistico, per il quale fu celebrato in tutta Europa, così come del genere cameristico riconducibile alla cosiddetta “scrittura a quattro”.
L’ascesa della classe borghese, che non comincia nel XIX secolo, ma già a inizio del Settecento, modificò di fatto l’accesso e la fruizione delle opere strumentali cameristiche, coinvolgendo, di fatto, anche quello che fu denominato “concertino a quattro”, ossia basato sulla presenza di quattro strumenti, e che ebbe il suo periodo di gloria, almeno nel nostro Paese, con autori come Galuppi, Sammartini, Tartini, senza dimenticare le “sonate a quattro” di Albinoni e Durante. Ma il successo di questo genere, è bene ricordarlo, avvenne con l’avvento di un quartetto senza la presenza del “basso continuo” e con il progressivo utilizzo della forma sonata. In quegli stessi anni, in centri musicali come Parigi e Vienna, questa nuova forma mostrò una tendenza a dir poco curiosa nei suoi effetti, visto che coincise con un’apparente contraddittoria convivenza di tendenze opposte: da una parte, la tipica omofonia dello stile galante e, dall’altra, le classiche tradizioni contrappuntistiche ancora profondamente radicate nella capitale austriaca.
Però, già a partire dal settimo decennio del Settecento, si può notare un ulteriore cambiamento, poiché il costrutto basato sulle leggi contrappuntistiche, polifoniche, fu gradualmente sostituito da un’armonia decisamente più semplificata. Tale mutamento fu dovuto soprattutto dagli editori musicali, i quali invocarono di fatto una maggiore “semplicità” nelle opere cameristiche per venire incontro alle richieste di quei musicisti dilettanti, appartenenti per l’appunto alla rampante classe borghese, aumentando di conseguenza le vendite e i profitti. Da ciò, è facilmente arguibile che la qualità, la profondità della scrittura musicale si abbassò, portando così all’affermazione di quello stile “galante”, basato su una cospicua produzione di quartetti composti di soli due movimenti, come quelli di Cambini, di Boccherini e, come nel nostro caso, di Paisiello. Questa tendenza cancellò di fatto, come avviene proprio nei Quartetti op. 23, la presenza dell’Adagio, il quale venne sostituito da tempi contrassegnati da una più incisiva semplificazione espressiva. Un’espressività, frutto di semplicità e d’immediatezza, che trovò strumentalmente una concreta attuazione attraverso la presenza del flauto, strumento che venne celebrato da Peter Lichtenthal nel suo celebre Dizionario e Bibliografia della Musica, apparso in quattro volumi nel 1826 a Milano per i tipi di Antonio Fontana, in cui si legge testualmente: Il Flauto si distingue per l’estensione, per la ricchezza e varietà de’ suoi suoni ed accenti. Oltre che ha molto brio, riesce anco molto aggradevole, allorché cerca di imitare il Canto della voce umana ne’ suoni medj, e non modula troppo ne’ suoni molto acuti o molto gravi. Proprio la possibilità, per questo strumento a fiato, di essere «molto aggradevole», gli permise di diffondersi in Italia nel corso degli ultimissimi decenni del XVIII secolo nel tessuto della classe benestante, divenendo di fatto un antagonista del violino per quanto riguardò il ruolo principale nel genere cameristico, soprattutto nella scrittura a quattro.
Ora, coinvolgendo nel nostro discorso di presentazione i sei Quartetti per flauto di Paisiello, si è ipotizzato che furono composti nella Napoli di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat nei primissimi anni del XIX secolo (quindi, di poco posteriori a quelli scritti sempre nella città partenopea dall’acerrimo rivale Domenico Cimarosa); data la loro immediata fruibilità, sia d’esecuzione, sia d’ascolto, si è propensi nel credere, anche sulla base di ciò che si è scritto sul ruolo dell’editoria musicale del tempo, che furono composti per un pubblico di musicisti dilettanti che a quell’epoca, anche in Italia, stava aumentando in modo esponenziale. Quindi, non bisogna meravigliarsi dell’estrema mancanza di spessore e di profondità della scrittura, ma ci si deve concentrare proprio su quel concetto di “aggradevolezza”, usato da Lichtenthal nella sua opera, con il quale il flauto, nel ruolo di strumento principale, assolve il proprio compito. Cinque di queste Sonate sono composte da due tempi, mentre la Sesta ne vanta solo uno; se lo strumento a fiato dialoga quasi sempre con il violino, la viola e il violoncello hanno il compito di creare una solida e articolata base di accompagnamento. Nonostante la brillantezza e la briosità della linea melodica portata avanti dal flauto, è intuibile fin dal primo ascolto che la sua parte potesse essere eseguita anche da un musicista dilettante debitamente abile nel districarsi nel gioco dell’esposizione e del dialogo. Va da sé che un’altra componente presente in queste sei pagine è fornita dalla piacevolezza di una cantabilità che richiama inevitabilmente i postulati operistici dell’epoca (d’altronde, qui la funzione del flauto è anche quella di imitare la voce umana).
Dell’op. 23 di Paisiello la discografia è alquanto nutrita ed ora, per l’appunto, va ad aggiungersi questa registrazione della Aulicus Classics, che vede impegnati Siro Cavalet al flauto, Dino Scalabrin al violino, Daniele Pagella alla viola e Carlo Bertola al violoncello (nelle note di accompagnamento risulterebbe che la presa del suono risalga addirittura al 2000, ossia ventitré anni fa). Quando si affronta un tipo di repertorio cameristico che non presenta particolari asperità di ordine tecnico, come in questo caso, la peculiarità stilistica della lettura è di evidenziarne maggiormente la portata espressiva, facendo affidamento sulla brillantezza della scrittura e su possibili sfumature psicologiche e anche velate da una sottile ironia (aspetti che in Paisiello, ovviamente, non mancano, per fortuna). Facendo ciò, nonostante l’elementarità del tutto, l’eloquio diventa più intrigante e rende più piacevole l’ascolto, proprio come avviene con i quattro artisti in questione grazie alla cui interpretazione riescono a trasformare queste pagine in un afflato sonoro dietro il quale possiamo scorgere uno spicchio d’epoca in cui la componente “galante” assume un ruolo sempre più marcato nelle classi agiate dell’Europa di fine Settecento. Inoltre, c’è da notare anche la delicatezza, la capacità di restituire una timbrica piacevolissima, impalpabile come una nuvola sulla quale distendere il dialogo tra il flauto e il violino, con il corroborante intervento della viola e del violoncello.
Anche la presa del suono effettuata da Andrea Chenna è di ottima fattura, contraddistinta da una ragguardevole dinamica capace di fornire spazialmente la fisicità dell’evento sonoro per ciò che riguarda il palcoscenico sonoro, con i quattro artisti scolpiti al centro dei diffusori. L’equilibrio tonale non denota sbavature di registri o indebite sovrapposizioni, così come il dettaglio è ricco di matericità.
Andrea Bedetti
Giovanni Paisiello - 6 Flute Quartets, Op. 23
Siro Cavalet (flauto) - Dino Scalabrin (violino) - Daniele Pagella (viola) - Carlo Bertola (violoncello)
CD Aulicus Classics ALC 0091
Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4/5