Lo spirito classico viennese dal cuore filologico
La registrazione prodotta dall’etichetta discografica NovAntiqua Records vede la compagine cameristica de Il Tetraone, con tutti i componenti che provengono da quella splendida realtà che porta il nome dell’Accademia Bizantina di Ottavio Dantone, affrontare due opere che, in un certo senso, rappresentano l’alfa e l’omega del cosiddetto classicismo viennese, vale a dire il Quartetto con pianoforte in mi bemolle maggiore op. 16 di Ludwig van Beethoven e, con la presenza del contrabbassista Giovanni Valgimigli, il celeberrimo Quintetto con pianoforte in la maggiore Forellenquintett D667 op. post. 114 di Franz Schubert. Le peculiarità che riguardano la stesura di queste due pagine cameristiche ci fanno capire meglio il concetto dell’alfa e dell’omega del classicismo viennese, con il quartetto beethoveniano che vide la luce tra il 1796 e l’anno successivo nella versione originale per Quintetto, composto da pianoforte, oboe, clarinetto, corno e fagotto, ed eseguito a Vienna il 6 aprile 1797 con lo stesso Beethoven al pianoforte, nel corso di un concerto tenuto dal violinista Ignaz Schuppanzigh. Il Quartetto in questione, invece, fu elaborato dal genio di Bonn per sfruttare sia il successo ottenuto con il quintetto, sia per rendere la pagina più adatta ad essere eseguita con strumenti più consoni allo spirito di quella Hausmusik che cominciava a diffondersi all’epoca nei Paesi di lingua tedesca, vale a dire, oltre al pianoforte, il violino, la viola e il violoncello.
Da parte sua, il Forellenquintett fu composto da Schubert nel 1819 su commissione del mecenate e direttore della miniera di Steyr, nell'Alta Austria, Silvester Paumgartner, discreto musicista dilettante e violoncellista, oltre che animatore di un cenacolo musicale che si riuniva in casa sua. Il quintetto fu definito con questo termine per il fatto che il compositore austriaco utilizzò su espresso desiderio di Paumgartner, nel quarto tempo, l’Andantino, come tema per le variazioni il suo Lied La trota (Die Forelle). Riposto nella biblioteca del direttore minerario, il Forellenquintett fu poi pubblicato postumo da Joseph Czerny come op. 114 a un anno di distanza dalla morte del musicista avvenuta nel 1828.
Ecco, l’alfa e l’omega in questione stanno nelle diverse finalità di queste due composizioni, con il quartetto beethoveniano che rappresenta il primo stile del compositore tedesco, votato alle convenzioni estetiche della società viennese del tempo, oltre a manifestare una serenità (si potrebbe addirittura parlare di “solarità”) che confluisce amabilmente in una cantabilità, destinata inevitabilmente a prosciugarsi con l’andare del tempo e della maturazione, segno tangibile di un ottimismo nel quale il ventisettenne Beethoven, nei primissimi anni della sua permanenza viennese, era ancora immerso. Quindi, non dobbiamo meravigliarci di scoprire in questa pagina cameristica le caratteristiche, le tipiche peculiarità di una musica di intrattenimento, la quale aveva al tempo lo scopo di allietare un pubblico selezionato ed altolocato, come quello dei salotti aristocratici viennesi nei quali in quel periodo il giovane genio di Bonn era assiduo frequentatore. Musica di intrattenimento che ovviamente non poteva già avere in sé i germi di una volontà innovatrice, quelli che invece si ritroveranno più avanti a partire dalla Sinfonia n. 3 Eroica e in quelle Sonate pianistiche che verranno poi elaborate a partire dai primi anni del secolo successivo; insomma, prima che Beethoven decidesse di diventare, anche per via della trasformazione da una concezione ottimistica in una pessimistica, il “Kant della musica”, per usare un’espressione in cui si fa riferimento al filosofo preferito del genio di Bonn e nel quale si riflette la sua concezione estetica ed esistenziale.
Al contrario, il Forellenquintett del ventiduenne Schubert mette in evidenza un ben altro spessore compositivo, oltre a sottolineare il processo evoluto del lessico musicale del classicismo viennese (non perdiamo di vista il fatto che la composizione del Quartetto op. 16 di Beethoven coincide con la stessa data di nascita di Schubert) e anche se la pagina è uno splendido esempio di serenata contraddistinta da un tono di fecondo dialogo tra i quattro archi e il pianoforte, in cui il compositore di Himmelpfortgrund rivela tutta la sua prodigiosa maestria di costruttore di raffinate armonie, è anche vero che quest’opera, come ben asserisce Riccardo Ravani nelle note di accompagnamento al disco, mette in luce se non le ombre, almeno le penombre tipiche della concezione estetico-musicale schubertiana, in cui perfino le sementi della gaiezza, riflesso del meraviglioso periodo trascorso in quell'estate a Steyr presso l’abitazione del dottor Schellmann che lo ospitava, dovettero poi fare i conti con il “dopo”, il cui velo che tutto copre e sfoca è quasi onnipresente nella musica del compositore austriaco, dando così luogo a un’immagine, come hanno ben sottolineato Carlo Cavalletti da una parte e Giovanni Carli Ballola dall'altra, in cui malinconia e rimpianto si insinuano tra i facondi dialoghi tra archi e pianoforte.
Eppure, tra questi due mondi, rappresentati dal Quartetto beethoveniano op. 16 e il Quintetto schubertiano op. 114, che sono agli antipodi rispetto alle loro finalità, sono trascorsi solo poco più di due decenni, un lasso di tempo, però, che chiarisce la forza delle spinta propulsiva data dal classicismo viennese, con l’inevitabile mutamento delle sue caratteristiche, nato per esaltare un certo ésprit sociale e culturale in cui la musica aveva principalmente una funzione aggregante, per poi trasformarsi in una pletora di voci, di cui Schubert fu indubbiamente la più importante e autorevole, la cui funzione fu quella di manifestare, di portare in superficie il disagio esistenziale che l’uomo, ormai in bilico tra un rassicurante classicismo e un inquietante romanticismo, stava provando in sé. Ecco perché ascoltare il Forellenquintett significa addentrarsi in quel mare magnum di estatica beatitudine di cui uno spirito come Schubert era assetato, pur sapendo che in quella stessa beatitudine si annidava un irrinunciabile sentore di incompiutezza, di buio oltre la siepe che rimanda ineluttabilmente a Leopardi, di senso di annullamento di fronte alla pochezza di cui è fatto sostanza l’essere umano.
Alla luce di ciò, la registrazione, la prima in assoluto, che il Quartetto Il Tetraone (composto da Ana Liz Ojeda al violino, Alice Bisanti alla viola, Paolo Ballanti al violoncello e Valeria Montanari al fortepiano) ha effettuato, unitamente a Giovanni Valgimigli al contrabbasso per ciò che riguarda l’esecuzione del Forellenquintett, è assai interessante partendo dal fatto che tutti i componenti fanno utilizzo di strumenti filologici, a cominciare da una copia di fortepiano Conrad Graf del 1819 ad opera di Paul McNulty, ossia lo stesso tipo di strumento utilizzato a quell’epoca da Beethoven. Ascoltare questi due lavori con strumenti filologici vuol dire approcciarsi ad essi in un modo del tutto differente rispetto a un ascolto effettuato con l’uso di strumenti moderni. Questo perché l’ascolto stesso dev’essere più attento, più focalizzato, cosa non facile per l’ascoltatore attuale, in quanto un’esecuzione filologica obbliga chi ascolta ad andare verso il suono e non viceversa, poiché il suono stesso, a causa della tipologia degli strumenti impiegati, è meno scontornato, con gli armonici che risultano avere una decadenza più repentina. Il risultato è così un suono più “breve”, meno presente nello spazio acustico, il che comporta una fase decisamente più attiva da parte di chi ascolta. Differenze timbriche e acustiche a parte, trovo che la resa del Forellenquintett sia stata leggermente più convincente rispetto al Quartetto beethoveniano, in quanto a quest’ultimo viene a mancare in alcune fasi quella totale lietezza, quella spensieratezza di fondo che a priori mal si concilia con l’universo di Beethoven, ma che in quest’opera, come in altre di quel periodo, pensiamo al Settimino op. 20, è elemento fondante e costituente.
Si avverte una sorta di trattenimento, di una briglia (e questo soprattutto nei tre strumenti a corde) che non viene sciolta del tutto, di un suono che resta confinato, agglomerato intorno a una soluzione stilistica senza però che sia lasciato andare del tutto. Al contrario, la lettura del Forellenquintett è all'altezza dell’opera; questo avviene poiché gli archi riescono ad avere un timbro più consono, più aderente alle necessità espressive dell’opera, permettendo al fortepiano di Valeria Montanari, elemento chiave di queste due composizioni, di offrire una linea, una tessitura a tutto tondo, imprimendo quelle debite sfumature capaci di cangiare in un batter di ciglio una dimensione solare in una nella quale le nuvole si addensano all’improvviso. Vi è anche maggiore fluidità, maggiore coinvolgimento, maggiore capacità nell'imprimere nel dialogo quei pesi e contrappesi che le sono propri e che l’utilizzo di strumenti squisitamente filologici rende più impervio, e non solo a livello tecnico, nella resa espressiva.
Per ciò che riguarda il dato tecnico della registrazione, la difficoltà maggiore che si riscontra nella fase di presa del suono, quando si ha a che fare con strumenti filologici, è quella che riguarda il dettaglio, in quanto il suono espresso soprattutto dagli archi manca di quella compattezza, di quel “muro timbrico” presente al contrario negli strumenti più moderni. Ciò ha comportato in tale sede a una mancanza di nero intorno agli archi, cosa invece che si denota assai meno nel fortepiano, con il risultato di avere una minore distinzione timbrica e materica degli strumenti stessi, il che ha influito almeno in parte anche sull’equilibrio tonale, con conseguente perdita di nettezza e di rispetto tra i registri acuti e gravi degli archi, soprattutto quando sono presenti all'unisono. La dinamica è più che accettabile, veloce nei transienti e capace di restituire sufficientemente la naturalezza delle corde in budello senza giungere a punte di saturazione nel registro acuto. Allo stesso tempo, però, a volte, a livello di palcoscenico sonoro, si nota una presenza accentuata di riverbero (il suono è stato catturato nella Chiesa di San Girolamo a Bagnocavallo), come sovente può capitare in registrazioni effettuate in chiese dove già la fase di riverbero è accentuata.
Andrea Bedetti
Ludwig van Beethoven - Franz Schubert – Piano Quartet op. 16 - “Trout” Quintet D667 op. post. 114
Il Tetraone - Giovanni Valgimigli (contrabbasso)
CD NovAntiqua NA30
Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 3,5/5