Ci sono dei progetti discografici, come quello in oggetto in questa analisi, che nascono dal desiderio di unire simbolicamente la musica con una determinata immagine o con un preciso concetto artistico o culturale. Immagini o concetti che colpiscono i compositori e che vengono poi tradotti in suoni o in altrettante “visioni sonore”. Appare scontato, a questo punto, ricordare come la classicità, in tutte le sue forme e i suoi aspetti, abbia rappresentato un formidabile serbatoio di spunti, idee, sperimentazioni applicati al contesto artistico musicale, soprattutto grazie agli inesauribili apporti forniti dai miti e dalla loro tradizione continuamente rinnovata nel corso dei secoli.

Tra i concetti che nella cultura classica hanno saputo rappresentare e tramandare al meglio la nozione del mito c’è sicuramente quello offerto dalla metopa, come viene denominato nell’architettura dell’antica Grecia lo spazio presente tra i triglifi di un fregio dorico, il quale soventemente veniva ornato, “riempito” con raffigurazioni scultoree di scene mitologiche. Così, in un’epoca in cui la veicolazione scritta era ancora riservata a pochi, le metope furono un mezzo, una sorta di “dipinto” tridimensionale attraverso il quale raccontare le storie e le leggende mitologiche. Parallelamente, il progetto discografico in questione, intitolato emblematicamente Métopes. Myths, Legends, and Tales at the Piano e pubblicato dalla Da Vinci Classics, vede la giovane pianista italo-americana Giulia Contaldo presentare sette pagine pianistiche di sei compositori che coprono un lasso di tempo che va dal barocco fino al tardoromanticismo. Pagine che attingono proprio dal concetto evocato dalla metopa e dalle sue forti connotazioni simboliche ed espressive.

Gli autori e i brani scelti dalla giovane pianista partono, seguendo l’ordine della playlist, dal compositore polacco Karol Szymanowski, nato in Ucraina nel 1882, il quale nel 1914 compose il trittico pianistico Métopes “Trois Poèmes”, op. 29, formato dai brani L’île des Sirènes, Calypso e Nausicaa. Impressionato dal soggiorno fatto in Sicilia, durante un lungo viaggio in diversi Paesi europei, colma di tesori artistici e archeologici, ultime vestigia dell’epopea della Magna Grecia, Szymanowski rimase colpito, durante una visita al Museo di Palermo, proprio da alcune metope. La folgorazione provocata da queste metope, unito all’influenza data dalla lettura dell’Odissea di Omero, portò il musicista polacco a creare attraverso la tastiera del pianoforte un preciso universo timbrico a sé stante, costruito efficacemente mediante un continuo equilibrio tra pesi e contrappesi sonori. Si è detto universo timbrico non a caso, in quanto qui l’influenza e la lezione di Debussy sono evidentissime. E ciò si avverte soprattutto nei primi due dei tre brani, in cui la cristallinità che affiora porta l’ascoltatore ad assimilare una sorta di bellezza immobile, destinata ad essere contemplata con l’udito. Il racconto e i ricordi che riesce a promuovere si trasformano così in una pletora di evanescenze cangianti mutuate dagli stessi titoli del trittico, chiaro retaggio della tradizione romantica, che vede la musica come ideale prosecuzione di un messaggio proveniente da altre espressioni artistiche. Ascoltando Métopes e il processo interpretativo che bisogna adottare per poterne esaltare la sua sonorità, non si può fare a meno di recriminare al pensiero che un genio come Arturo Benedetti Michelangeli, soprattutto alla luce del “suo” Debussy, non abbia mai preso in considerazione la possibilità di affrontare il fascino e la magia di questo trittico. Ma da questa osservazione si può ben comprendere anche un altro dato di fatto, ossia quello che concerne la sua difficoltà non solo tecnica, ma soprattutto espressiva, che impone a chi affronta Métopes la continua ricerca di un tocco timbrico rarefatto, diafano, scavato incessantemente, senza però perdere il contatto con la dimensione geometrica dell’opera, della sua arcata generale, proprio in virtù di quel gioco di pesi e di contrappesi di cui ho accennato sopra.

Il punto di aggancio alla “metopa” successiva riguarda proprio Claude Debussy del quale Giulia Contaldo presenta la versione pianistica a opera di Leonard Borwick di una celeberrima pagina, il Prélude a l’après-midi d’un faune, pagina concepita originariamente per orchestra e che prende liberamente spunto dal poema di Stéphane Mallarmé. Non è semplice tradurre per il pianoforte un brano così sofisticato come quello debussyano, in quanto la tavolozza timbrica è una pletora di continue mutazioni timbriche rese a livello orchestrale, ma che nell’arrangiamento pianistico fortunatamente non si disperde grazie al lavoro certosino ed efficace effettuato dal pianista britannico, il quale è riuscito a trasferire idealmente l’esprit di questa pagina, restituendo la trama infarcita di continue impressions e dipanando lo svolgimento narrativo del poema attraverso un album emotivo fatto di immagini e sensazioni.
È ovvio che una stretta relazione tra immagine, narrazione e debita applicazione in termini sonori si possa reggere principalmente, come dimostra il brano debussyano, sulla dimensione fornita da una melodia suadente e che faccia presa immediata sull’ascoltatore. Ed è quanto avviene anche nella pagina successiva del CD della pianista italo-americana, che presenta la trascrizione pianistica fatta da uno degli artefici del tardoromanticismo strumentale italiano, Giovanni Sgambati, della Melodia presente nell’opera Orfeo ed Euridice di Christoph Willibald Gluck. Qui, il tema melodico viene potentemente illanguidito sulla falsariga di quel crepuscolarismo che infarcì non solo parte della letteratura nostrana di quel periodo, ma anche una fetta consistente della temperie borghese della quale il compositore e pianista romano fu esemplare cantore.

Sgambati fu, tra l’altro, fortunato allievo di Franz Liszt e proprio al genio magiaro Giulia Contaldo esegue due famose pagine, oltre a una trascrizione wagneriana, vale a dire la prima delle Due leggende S. 175, quella dedicata a San Francesco d’Assisi: la predica agli uccelli, e La Vallée d’Obermann, dagli Années de pèlerinage (I - Suisse), mentre la trascrizione riguarda l’immancabile Isoldes Liebestod dal Tristan und Isolde. Certo che con San Francesco l’applicazione “transitiva” della metopa risulta un po’ forzata, visto che la figura del santo non appartiene di certo alla leggenda mitologica ma alla realtà storica. Ma la pagina in questione (soprattutto nella prima e nell’ultima parte), in un certo senso, può essere considerata come una sorta di anticipazione a quanto farà poi nel Novecento Olivier Messiaen con la sua ricerca sonora sul canto degli uccelli e la pura potenza che traspare dalla fitta trama pianistica appare come una vera e propria forma esplorativa escogitata da Liszt.
Anche il brano dagli Années de pèlerinage può rientrare nell’ambito di un’esplorazione sonora, anche se in questo caso ci troviamo a strettissimo contatto con una materia letteraria che viene presa di peso e messa sopra la tastiera del pianoforte, cosa che può dare adito a un risultato villain, ma che se fatta da Liszt allora diventa opera chirurgicamente perfetta. Qui ci sono in gioco masse timbriche non indifferenti, volumi da spostare repentinamente senza dover far saltare il banco, escursioni dal fff al ppp degne delle montagne russe, pennellate che passano in un attimo da Jackson Pollock al Beato Angelico, insomma una pagina che a livello tecnico/espressivo è una prova mica da ridere, anche perché alla fine il tutto deve avere una sua coesione dalla prima all’ultima nota, con il pianoforte che assume en travesti i contorni di una compagine orchestrale liofilizzata alla bisogna.
L’ultimo brano in programma è un cameo della durata inferiore ai quattro minuti che però riassume perfettamente il DNA di questo progetto discografico, visto che ci proietta nel cuore del barocco francese, per la precisione quello di Jean-Philippe Rameau, con Les Cyclopes tratto dai Pièces de clavecin. Al di là del fatto che questa raccolta si coniuga perfettamente con il timbro “moderno” del pianoforte, è ovvio che il concetto della metopa venga esaltato dal brano in questione, visto che rappresenta un vero e proprio trionfo della narrazione mitologica vista attraverso la lente, deliziosamente deformante, della musica, soprattutto se considerato nell’ottica estetica di quel tempo. In questo pezzo dedicato al mito dei ciclopi, Rameau riesce a instillare due opposti riuscendo a farli toccare e combaciare, quello del grottesco, dato dalla figura del ciclope, gigantesco e dotato di un solo occhio, con quello del sublime, fornito da una scrittura tastieristica capace di depurare, di filtrare e di edulcorare l’orrido, il brutto in qualcosa che assume i contorni della meraviglia (in questo caso, le note ribattute dello strumento che simboleggiano il lavoro del fabbro, quali erano i ciclopi, che colpiscono con il martello il metallo da forgiare sull’incudine).

Al di là degli intenti e del programma in sé, credo che Giulia Contaldo attraverso questo suo progetto discografico abbia voluto sancire anche un altro aspetto del suo percorso artistico, quello che riguarda l’acquisizione di una maturità interpretativa su più livelli. Se mi arrischio a ipotizzare ciò è per il semplice fatto che nel 2022 ascoltai la pianista italo-americana al Verona International Piano Competition (dove, tra l’altro, si aggiudicò ex aequo il secondo premio) e ora, alla luce di questo suo CD, si può affermare che di acqua sotto i ponti, così come di note sulla tastiera, ne sono passate parecchie, nel senso che il suo processo di acquisizione e di appropriazione della materia sonora da eseguire si è inevitabilmente affinato. Se prima, ossia a Verona, primeggiava la tecnica, ora la caratura espressiva e il rapporto che si viene a creare tra interprete e brano in sé, isolato nella sua dimensione assoluta, hanno raggiunto lo stesso livello della resa puramente esecutiva.
È sufficiente ascoltare la lettura che Giulia Contaldo fa del trittico di Szymanowski, in cui il risultato positivo può essere dato solo se l’interprete riesce a identificarsi totalmente non con la materia sonora, ma con l’idea della materia, ossia con quella indispensabile capacità di leggere oltre il pentagramma. La stessa cosa vale per il brano di Debussy, autore che rappresenta l’ineludibile punto di arrivo in questo processo identificativo, dove la sola tecnica, anche suprema, non è mai sufficiente, e che Giulia Contaldo riesce a padroneggiare anche a livello “immaginifico” con una “solida” liquidità, dove l’aggettivo si riferisce a come la tastiera deve tramutarsi allegoricamente in elemento orchestrale. Delle tre pagine lisztiane mi ha convinto soprattutto la caratura offerta dalla trascrizione wagneriana, nella quale la pianista italo-americana mette in evidenza la dimensione bipartisan data dal dilemma eros/thanatos senza mai cadere nella tentazione di accrescere la visione globale con un pathos magniloquente e furbesco, ma mantenendo una tensione emotiva che è sempre circonstanziata, non dico “oggettivizzata”, ma lucida, aderente, anche per via del fatto che l’arrangiamento di Leonard Borwick tende a esaltare maggiormente (giustamente aggiungo io) la geniale componente armonica rispetto a quella melodica, quest’ultima vera trappola per interpreti boccaloni.

Ora, non voglio passare per un bieco cinico, ma al di là della “programmaticità” di questo potpourris orchestrato intorno al concetto di metopa, mi sembra altrettanto evidente che Giulia Contaldo abbia voluto mostrare, a livello squisitamente pianistico, come ormai abbia raggiunto un gradino superiore, la capacità di padroneggiare stili, autori, epoche, dinamiche del tutto diversi, attraversando i secoli dal barocco fino al tardoromanticismo con quella dovuta nonchalance che contraddistingue gli interpreti dai semplici esecutori.
Ottima, comme d’habitude, la presa del suono da parte di Gabriele Zanetti, capace di restituire appieno il nitore dello Steinway Model D utilizzato da Giulia Contaldo grazie a una dinamica rocciosa e veloce allo stesso tempo, esente da colori inappropriati. A livello di palcoscenico sonoro, il pianoforte viene ricostruito adeguatamente al centro dei diffusori e posizionato a una discreta profondità, con un suono che si irradia in altezza e in ampiezza. Positivi anche l’equilibrio tonale e il dettaglio, con il primo rispettoso del registro medio-grave e acuto e con il secondo che si contraddistingue in matericità e tridimensionalità.
Andrea Bedetti
AA.VV. - Métopes. Myths, Legends, and Tales at the Piano
Giulia Contaldo (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00998
Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4/5
