Le Sonate per violino e pianoforte di Aleksandr Gëdicke, artista mite e dimenticato
Ci sono tanti modi per denigrare e umiliare un uomo, figuriamoci un artista. Se un uomo viene depauperato della sua vita e delle sue azioni, un artista, che vive della sua creatività, viene annullato nel momento stesso in cui il suo fare arte viene mutilato, represso, zittito. Togliete a un artista la sua arte, la sua capacità di creare, e avrete un uomo a cui hanno tolto anche i sogni. E il Novecento, in fatto di annullare la voce degli artisti, chiunque fossero, non è stato secondo a nessuno, soprattutto quando a farlo sono stati i sistemi dittatoriali. Un esempio lampante è quello rappresentato dalla Entartete Musik, la cosiddetta “musica degenerata”, bandita dai nazionalsocialisti, colpevole a loro dire di aver ripudiato il linguaggio tonale e la grande lezione dei classici, soprattutto tedeschi, del passato. Ma sovente si dimentica ciò che fece, magari in modo meno eclatante e più dissimulato, la dittatura sovietica, la quale, in nome del famigerato “realismo socialista” propagato da Andrej Aleksandrovič Ždanov, colui che sotto lo stalinismo dettò la linea culturale in Russia, sottopose a un autentico stato di terrore quei poeti, pittori e musicisti che cercarono di esprimere con la loro produzione artistica una visione che non era allineata con i principi voluti dalla nomenklatura dirigenziale.
Un non allineamento che durante il periodo staliniano si espresse attraverso svariate sfumature di grigio, da quello più scuro, quasi nero, manifestato da Dmitrij Šostakovič, tanto per citare l’esempio più famoso, il quale pagò sulla propria pelle il fatto di aver creato capolavori, come Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk, contrari alla dottrina del partito e per i quali, come ricordò egli stesso qualche tempo prima di morire, fu costretto ad andare a dormire ogni notte per più di vent’anni completamente vestito e con la valigia pronta sotto il letto per il terrore di vedersi piombare in casa gli agenti del KGB, fino a quello più chiaro, portato avanti in modo per così dire “mimetizzato” da altri artisti, i quali non si adeguarono ai dettami del “realismo socialista” e che per il fatto di usare dissonanze, di giungere al limite dei confini del linguaggio tonale, di non usare la musica per osannare il regime furono costretti a vivere ai margini della società, oppure irreggimentati all’interno di quei canoni compositivi dettati da Ždanov, pur di non perdere il loro lavoro o peggio. Furono in tanti e di loro qualcosa sappiamo, soprattutto dopo il crollo del comunismo e la conseguente apertura degli archivi. Tra questi musicisti possiamo includere anche il moscovita Aleksandr Gëdicke, nato nel 1877 e morto nella stessa capitale sovietica nel 1957. Un artista, quindi, che nacque sotto i Romanov e morì quando Chruščëv avviò il processo di destalinizzazione e di distruzione del culto della personalità del dittatore georgiano. Gëdicke, eccezionale pianista, ottimo compositore (come si vedrà), virtuoso organista e insigne docente di pianoforte per diversi anni al Conservatorio di Mosca non fu certo protagonista o vittima di eclatanti prese di posizione, così come non si discostò mai da una linea di demarcazione che, una volta oltrepassata, lo avrebbe messo in cattiva luce o peggio, come invece accadde a Šostakovič, giungendo perfino ad acquisire onorificenze di Stato, come l’essere nominato nel 1946 artista del popolo dell’Unione Sovietica e destinatario del prestigioso Premio Stalin due anni più tardi, ma se ciò avvenne è perché Gëdicke non alzò mai la testa, non tanto per paura o vigliaccheria, ma per il fatto che di essere stato un uomo fondamentalmente mite, delicato, buono.
Una bontà d’animo che in certi casi portò inevitabilmente il suo artefice a camuffarsi, a non distinguersi agli occhi altrui, soprattutto quelli che c’erano dall’altra parte della cortina di ferro, impossibilitati a conoscere, “mimetizzato” nel suo grigiore, le sue opere e la sua attività di musicista. Un’attività che, a dire il vero, si era distinta quando l’artista moscovita, cugino, tra l’altro, di Nikolaj Metner, nel 1900 concorse come pianista e compositore alla terza edizione del Premio Rubinštejn, vincendo il concorso di composizione con il suo Konzertstück per pianoforte e orchestra e giungendo terzo in quello di pianoforte. Ma dopo lo scoppio e l’avvento della Rivoluzione, Gëdicke, contrariamente a ciò che fecero altri musicisti, a cominciare da Rachmaninov, ammirato dallo stesso compositore moscovita, non volle abbandonare la Russia e con la famiglia si trasferì nel piccolo appartamento a lui assegnato nel complesso gravitante al Conservatorio di Mosca, dove rimase fino alla morte, incarnando, malgré soi, la grigia figura del docente di pianoforte, autore di composizioni apparentemente ligie ai diktat dittatoriali, un “borghese piccolo piccolo”, per dirla con Vincenzo Cerami, costretto a vivere in una realtà molto più grande di lui, estranea alla sua sensibilità. In fondo, Gëdicke non fu né abbastanza ribelle da attirare l’attenzione del mondo intellettuale occidentale, come invece fecero Šostakovič e Prokof’ev, né abbastanza ambizioso o, per essere più chiari, con più pelo sullo stomaco, in modo da ritagliarsi una carriera all’interno dell’apparato del regime.
La striminzita discografia di questo autore (la maggior parte della quale pubblicata dalla casa discografica sovietica Melodija, che lo vede nel ruolo non di compositore, bensì di organista in recital bachiani) viene ora arricchita da un disco della Brilliant Classics dedicato alle sue due Sonate per violino e pianoforte e dai Dieci pezzi op. 80, eseguiti da Francesco Parrino al violino (leggi qui la sua intervista) e da Michele Pentrella al pianoforte. La Sonata per violino in la maggiore op. 10 n. 1 risale al 1899 e pubblicata nel 1901, ed è dedicata al violinista ceco Jan Hřiìmalyì, collega di Gëdicke al Conservatorio di Mosca. Il soprannome della sonata, Vesennjaja(Primavera), è un chiaro riferimento alla canzone di Sergej Rachmaninov Acque primaverili op.14/11, la quale viene citata all’inizio del primo e alla fine del tempo finale della sonata. Ma, ascoltandola con attenzione, ci si rende conto che le maggiori influenze vengono dal repertorio del romanticismo tedesco.
Se l’op. 10 è un’opera chiaramente giovanile, ma indubbiamente assia interessante, la Sonata per violino op. 83, composta tra il 1948 e il 1953 (ma pubblicata solo postuma nel 1972), rappresenta una composizione che ha anche un’evidente motivazione “ideologica”, nel senso che è una diretta risposta ai frequenti attacchi portati dal compositore Tichon Nikolaevič Chrennikov, nominato da Andrej Ždanov nel 1948 segretario generale dell’Unione dei compositori sovietici, carica che ricoprì fino allo scioglimento dell’Unione Sovietica nel 1991. Chrennikov fu l’artefice di una politica fermamente votata all’anti formalismo culturale promossa dal regime e i suoi strali polemici colpirono sovente tra gli altri anche Šostakovič e Prokof’ev. La Seconda Sonata di Gëdicke appare così provocatoriamente “anacronistica”, votata a una dimensione squisitamente “classica” (in alcuni passaggi sfiora addirittura uno stile che fa tornare in mente Haydn e Beethoven), da vantare una forma a dir poco impeccabile, anche da un punto di vista dell’“ortodossia ideologica”.
Oltre a queste due Sonate, Parrino e Pentrella hanno voluto aggiungere i Dieci Pezzi op. 80, composti anch’essi nel 1948, un altro tributo dato ad una visione “antiformalista”, sempre in ossequio a un ideale che affonda le radici nelle pagine schumanniane e nell’Album per la gioventù op. 39 di Čajkovskij, con l’evidente scopo di essere un’opera votata alla didattica.
Che cosa si può notare in queste due Sonate? La prima cosa che si può constatare è come entrambe, sebbene scritte a cinquant’anni di stanza, rappresentano indubbiamente un atto di omaggio da parte del compositore moscovita nei confronti della grande lezione classica del passato, reso con un nitore di scrittura davvero notevolissimo (non a caso Gëdicke fu allievo di Arenskij per ciò che riguarda la composizione); per ciò che riguarda la Prima Sonata, sebbene scritta a soli ventidue anni, colpisce l’articolazione del costrutto e il serrato dialogo tra violino e pianoforte con il quale imbastiscono un fraseggio nel quale la linea melodica non risulta mai stucchevole, ma emanatrice di continue immagini che si alternano a momenti di accesa passionalità (Rachmaninov che scende a patti con la tradizione tedesca del secondo Ottocento), con quest’ultima che si concentra soprattutto nel tempo Finale.
Per quanto riguarda la Seconda Sonata in re maggiore, lo stile compositivo del musicista moscovita risulta essere, ovviamente, più ricco e variegato, maggiormente intessuto di sviluppi tematici e anche di una sotterranea e sottile nota umoristica (concentrata nel terzo tempo Scherzo e in quello Finale); lo stesso vale per le sfumature timbriche che intridono il primo tempo Allegro con brio, dando vita a un esemplare mix che unisce la tradizione cameristica russa con quella germanica. E se nella Prima Sonata lo spessore violinistico superava di gran lunga per eloquio quello del pianoforte, qui invece avviene quasi il contrario. Questo non è dato tanto dalla volumetria sonora espressa dai due strumenti, ma per come lo strumento a tastiera riveste un piano psicologico e di introduzione allo sviluppo musicale che invece mancava nella Sonata in la maggiore (non si dimentichi che Gëdicke studiò pianoforte con fior di didatti come Vasilij Safonov, Anatolij Galli e Paul Pabst). Si ascolti, a tale proposito, come il pianoforte guidi in un certo senso il costrutto del violino nel Largo, indicando il sentiero timbrico, descrivendo il carattere degli incisi e immergendo l’ascoltatore in un susseguirsi di dimensioni psicologiche che vengono analizzate e ispessite, di volta in volta, dal violino.
Che Gëdicke sia stato anche un ottimo didatta (come ebbero modo di raccontare diversi studenti che lo ebbero come insegnante, sebbene fosse severo, oltre che scrupoloso) è confermato dalla ricerca di una progressiva difficoltà che contraddistingue i Dieci pezzi op. 80, abbinata a una pianificazione della melodia che tende ad esaltare la linea del violino, mentre il pianoforte retrocede per volume e apporto, relegato a un compito di mero accompagnamento. Qui, spiccano brani come Aria per il suo acceso lirismo, Waltz per la dimensione di sottile malinconia che esprime, il rarefatto melodismo che distingue l’eterea In meditation, e per la loro difficoltà tecnica ottimamente distillata i due Etudes che chiudono la concisa, ma densissima, raccolta.
A dir poco encomiabile la lettura fatta da Francesco Parrino e da Michele Pentrella, con il violinista capace di estrapolare continue sfumature, andando ad arricchire la già fitta tavolozza armonica e melodica presente nelle due Sonate, oltre a descrivere, in punta di archetto, i scontorni psicologici che sono presenti nei Dieci Pezzi (quindi, guai a considerarli esclusivamente didattici!); l’artista valtellinese coglie appieno l’anima, il tessuto interiore di tutte le opere qui proposte e le ravviva, le rende pienamente conchiuse e autonome grazie a un’interpretazione che si distingue per lucidità, pulizia tecnica (le due Sonate, soprattutto la Seconda, non sono delle passeggiate ma campi minati nei quali bisogna sapersi muovere con attenzione e sensibilità), oltre a connotarle di una bellezza resa da un suono sempre terso, deciso e delicato allo stesso tempo. Da parte sua, il pianista pugliese non si limita, come si è già accennato in sede di presentazione delle Sonate, al mero ruolo di accompagnatore, di efficace sostegno al violino, ma si cala perfettamente nel ruolo di catalizzatore emotivo, di antesignano assoluto rispetto a opere (le due Sonate) nelle quali il pianoforte ha un ruolo decisivo e che se non viene reso adeguatamente, svilisce inesorabilmente tutto il costrutto attraverso il quale si reggono. Tocco magistrale, il suo, altrettanto lucido, pervasivo, capace di aprire la strada e di fiancheggiare il violino, dialogando alla pari, intessendo e sciogliendo, considerando che anche qui gli aspetti di difficoltà tecnica abbondano e non poco, soprattutto quando la difficoltà dev’essere tramutata in espressività. Un degno risultato per un disco che vuole essere un elogio a un musicista ingiustamente messo da parte dal tempo e dagli uomini.
Andrea Dandolo ha curato la presa del suono, effettuando un ottimo lavoro d’insieme, visto che qui si trattava di rendere al meglio il timbro vellutato e corposo del prezioso violino Giuseppe & Antonio Gagliano, risalente tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo, utilizzato da Francesco Parrino (Michele Pentrella, invece, si è avvalso di un pianoforte Yamaha CFIIS); la dinamica è oltremodo energica, ma anche molto pulita e veloce, il che ha permesso al palcoscenico sonoro di vedere ricostruiti adeguatamente i due strumenti nello spazio fisico nel quale è stato catturato il suono, con il violino leggermente più avanzato, in modo corretto, rispetto al pianoforte. L’equilibrio tonale non mostra sbavature, con il registro grave e quello medio-acuto del violino e del pianoforte che non si sovrappongono e il dettaglio è contraddistinto da un’adeguata matericità, in grado di rendere piacevole e coinvolgente l’ascolto.
Andrea Bedetti
Aleksandr Goedicke – Music for Violin & Piano
Francesco Parrino (violino) – Michele Pentrella (pianoforte)
CD Brilliant Classics 95973
Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 4/5