L’ala sconosciuta del minimalismo: conversando con Giulio Andreetta
Il giovane compositore e pianista padovano, che terrà un concerto in streaming domenica 20 dicembre, alle 17.00, presso l’Associazione Immagine per Immagine della città veneta, è anche un musicologo che si è specializzato nel genere musicale nato sotto l’impulso di Philip Glass e Steve Reich. Come ci dice egli stesso in questa intervista, vi sono dei sentieri celati da evidenziare nel tessuto musicale minimalista, che rimandano a tematiche squisitamente mistiche e spirituali
Maestro Andreetta, la sua attività di compositore e musicologo si svolge in parte sul solco del fenomeno del minimalismo musicale. Come è nato questo interesse? È mutuato dalla sua passione per le colonne sonore cinematografiche, per le quali il ruolo del minimalismo, si pensi all’apporto dato da compositori quali Philip Glass e Michael Nyman, è stato fondamentale nel corso degli ultimi decenni?
Ho iniziato ad appassionarmi al minimalismo quando avevo all’incirca diciannove - vent’anni. Mi ero appena diplomato in pianoforte al Conservatorio di Padova e provenivo da uno studio e da una pratica strumentale che come si sa sono incentrati in gran parte sulla musica barocca, classica e romantica. Poca o nessuna conoscenza avevo della musica del Novecento, e di quella del nostro tempo ecc., ma un giorno ascoltai Music for 18 musicians di Steve Reich, Fu un’autentica folgorazione. Pensai che fosse uno dei lavori più interessanti che avessi mai ascoltato da molto tempo, proprio per la capacità del compositore di creare, senza cesure e per la durata di circa un’ora, una musica che riesce mirabilmente a conciliare il continuo ritorno dell’identico (carattere quest’ultimo tipico di una poetica minimalista) e il continuo mutevole sperimentare l’incontro con ritmi e armonie sempre diversi. Successivamente, da quell’incontro inaspettato con la musica di Steve Reich, ho approfondito lo studio di altri repertori che potrebbero esser definiti di avanguardia, sempre con molto interesse. Per la mia tesi di laurea invece ho voluto conciliare la mia ricerca musicologica con la passione per il cinema, e proprio a partire dall’analisi dell’impiego di una stilistica minimalista nell’ambito della musica applicata.
Sempre per ciò che concerne l’ambito della musica minimalista, a questo genere ha dedicato due saggi musicologici, Minimalismo e narratività musicale e Minimalismo e misticismo, nei quali sviluppa da una parte la nota attinenza di tale genere per la settima arte, mentre dall’altra associa il concetto di minimalismo a quello dell’afflato mistico. Come può l’arte minimalista entrare in contatto con una concezione votata al misticismo?
In quel saggio, prendendo spunto almeno in parte dalle pregnanti considerazioni del musicologo Heinrich Bessler sull’ascolto musicale, arrivo a presentare una particolare modalità di ascolto che definisco mistica. Senza voler entrare nei dettagli specialistici di uno sfondo d’indagine semiotica, in quel saggio tento di dimostrare che la musica minimalista possa andar oltre una codificazione convenzionale del linguaggio musicale, attraverso la “riduzione al minimo” del significato musicale di un singolo inciso ritmico-tematico. Ma la diffidenza per le forme convenzionali e univoche di espressione linguistica è propria di tutta una grande tradizione mistica occidentale, da Meister Eckhart a Santa Teresa D’Avila, a San Giovanni della Croce, solo per fare qualche esempio. In sostanza, questo tentare di andare oltre la funzione di significazione normalmente associata alla musica accomuna il minimalismo a quelle grandi esperienze mistiche che sembrano scavalcare il linguaggio della quotidianità per proiettarsi in una contemplazione estatica dell’Assoluto. A me pare che in molti “momenti” del minimalismo sia presente questo “andar oltre” il linguaggio musicale, che a mio avviso proietta il minimalismo, o almeno i suoi esempi migliori, in una dimensione sacrale e contemplativa.
Come compositore, oltre a colonne sonore, nel 2018 ha creato un’opera per coro e orchestra dedicata alle vittime della Prima guerra mondiale. Com’è nata l’idea di questa composizione, al di là della commemorazione del primo centenario dell’immane conflitto? Benjamin Britten, nel creare quel capolavoro che è il War Requiem, prese spunto dalla consacrazione della nuova cattedrale di Coventry, la cui struttura originale fu rasa al suolo durante il tragico bombardamento tedesco avvenuto il 14 maggio 1940. Nel caso della sua opera vi è un episodio in particolare legato alla Prima guerra mondiale?
Voci di Guerra è certamente un’opera che nasce nella mia mente a partire da tutta una serie di luoghi a me cari, che testimoniano del primo conflitto mondiale: si tratta di tutta una serie di fortificazioni sulla linea di confine tra Trentino e Veneto, e che fin da bambino hanno stimolato la mia curiosità nei confronti della storia. La composizione è una Cantata per soli, coro e orchestra, che si articola in tre movimenti, ciascuno dei quali è raccontato da una poesia, (per il primo movimento Al soldato caduto di Renzo Pezzani, per il secondo Pasubio di Robert Skorpil, per il terzo Sono una creatura di Giuseppe Ungaretti). Sebbene mi siano state d’aiuto le poesie per ispirarmi, ciò che veramente ha fatto “scattare la molla” dell’idea compositiva consiste nei miei ricordi di questi forti austroungarici che sin da bambino suscitavano in me sentimenti contrastanti, da un lato di profonda curiosità, dall’altro di spavento per i segni terribili dei bombardamenti che sono impressi su quelle rovine e che testimoniano dell’orrore della guerra.
Il prossimo 20 dicembre terrà un concerto in streaming a causa del COVID-19, nel quale eseguirà da una parte brani di autori legati al mondo della cinematografia, quali Philip Glass, Michael Nyman, Ennio Morricone, John Williams e Nino Rota, con altri decisamente più “classici”, come Fryderyk Chopin, Franz Liszt e Jean Sibelius. Vi è un filo conduttore che collega e che può simboleggiare idealmente questo programma concertistico?
Sì, sono tutte opere che hanno una qualche attinenza al mondo cinematografico. Gli autori “classici” che ho voluto inserire nelle mie intenzioni potrebbero rimandare infatti a quelle forme di accompagnamento al pianoforte che erano adoperate come commento musicale dei primi film muti. In ogni caso questo repertorio di Chopin, Liszt e Sibelius è spesso utilizzato anche oggi dai registi. Tutti questi brani presentano i caratteri di un’invenzione melodica che definirei sorprendente e geniale, e che motiva il loro immortale successo presso il grande pubblico. Si tratta di un programma che indubbiamente non concede nulla alle possibilità di sfoggio virtuosistico del pianista, ma richiede una grande concentrazione emotiva sia per l’interprete che per l’ascoltatore.
Maestro Andreetta, quali sono i suoi progetti futuri nel campo compositivo e in quello musicologico?
Sto ultimando un testo, che spero di pubblicare quanto prima, nel quale, avvalendomi di qualche esempio musicale, spero di mettere in luce alcune criticità e pericoli che sono sorti dall’applicazione in ambito musicologico di un approccio alla ricerca che potrebbe definirsi positivistico. In sostanza, anche se è difficile ovviamente sintetizzare, mi sono posto l’obiettivo di mettere in luce delle “traiettorie d’indagine” che possano muoversi su una ipotetica linea di confine che divide - a volte in modo netto e altre volte in modo molto più sfumato - il pensiero logico-razionale dall’espressione del sentimento e dell’irrazionalità propria del mondo dell’arte e della musica. Ho inoltre appena pubblicato una composizione in un unico movimento della durata di circa quaranta minuti per organo, coro e orchestra, che spero di portare ad esecuzione quanto prima, e che si intitola Bagliori estivi di un giorno qualunque.
Andrea Bedetti