La sonata per violino in Schumann l’enunciatore e in Grieg il mediatore: crisi e fresca tragicità
Disco del mese di Dicembre 2022
Com’è sua consuetudine, anche la nuovissima produzione discografica, effettuata per l’etichetta tedesca ECM, da parte del Duo Gazzana (composto da Natascia Gazzana al violino e dalla sorella Raffaella al pianoforte), è stata fonte di alcune riflessioni che intendo riportare nell’analisi del disco in questione. Disco che vede la presenza di tre autori, Robert Schumann con la Sonata n. 1 in re minore op. 105, Edvard Grieg con la Sonata n. 3 in do minore op. 45, e il compositore contemporaneo estone Tõnu Kõrvits, del quale il Duo Gazzana esegue, in prima assoluta mondiale, Stalker Suite (Homage to Andrei Tarkovsky) e i quattro Notturni (tra l’altro, queste due opere sono state composte espressamente per le due artiste laziali).
Anche qui, com’è loro costume, Natascia e Raffaella Gazzana hanno inteso dare vita a una traiettoria, a un vettore di raccordo tra la prima delle due sonate schumanniane e l’ultima delle tre sonate del compositore norvegese, per poi frantumare tale linearità tra un’alfa e un omega con l’apporto disgregante delle due pagine di Kõrvits. È bene ricordare che, rispetto alla coeva Sonata n. 2 op. 121 di Schumann, la cosiddetta Große Sonate, la Prima sonata offre i risultati migliori in fatto di brillantezza, coesione e sagacia inventiva e che viene creata dal compositore di Zwickau nell’autunno del 1851, in un momento particolarmente difficile della sua vita professionale, ossia all’indomani della sua decisione di accettare l’incarico di direttore musicale a Düsseldorf, avvenuto nel settembre dell’anno precedente, incarico che non seppe affrontare e dirimere per via delle grosse lacune e manchevolezze che Schumann denotò in tale ambito artistico. Le inevitabili controversie, gli attriti con orchestrali e coristi, i continui litigi con le autorità amministrative della città, minarono gravemente il fragile equilibrio psichico del compositore, spingendolo a rinchiudersi sempre più nella sfera meramente compositiva.
Le due Sonate in questione rappresentano, quindi, solo un minimo tributo dell’estro compositivo di quei giorni, i quali annoverano, tra l’altro, capolavori come il Trio op. 110, la Sinfonia n. 3 Renana, il Concerto per violoncello, il Manfredi e moltissimi Lieder, quando ormai il processo di crisi emotiva ed esistenziale era destinato a mutarsi nel crollo esploso nel febbraio del 1854, con il tentativo del suicidio nelle acque gelide del Reno. Entrando maggiormente nello specifico, è indubbio che Schumann considerò il genere della musica da camera il più puro e il più severo sotto il profilo formale, anche se il musicista fu sempre in grado di immettere in tale severità di intenti una feconda freschezza e naturalezza d’inventiva, unitamente al caro concetto di Sehnsucht, intriso di passione e malinconia. Di ciò, ne sono una diretta dimostrazione le due opere per violino e pianoforte, le quali, anche se in esse viene rispettata la tipica forma classica della sonata, con debito richiamo dei temi da un tempo all’altro (proprio per ciò che riguarda l’op. 105, la frase iniziale si ripresenta nel terzo e ultimo tempo), dando così luogo a una sapiente fusione tra aspetti melodici e ritmici. Partendo da tali presupposti, entrambe le Sonate violinistiche fanno esemplarmente affiorare il tipico modo di comporre presente in Schumann, ossia un concentrato di slanci ardenti e di subitanei ripiegamenti, di straordinari impeti e di incommensurabili tenerezze, di squarci che gettano lo sguardo nelle introspezioni psicologiche e di immagini potentemente oniriche, senza dimenticare la consueta presenza allegorica data dal Doppelgänger schumanniano, ossia il saturnino Eusebio (che si annida soprattutto nella Sonata in la minore) e dal dionisiaco Florestano (che movimenta e “destabilizza” la Sonata in re minore).
Tale “destabilizzazione” continua a minare ortodossamente ed eterodossamente anche tutto il flusso della Sonata op. 105, a cominciare dalla predilezione in Schumann di mantenere il suono del violino/Florestano nell’alveo del registro medio e grave dello strumento, rinunciando a fare emergere quello acuto, se non in alcuni frangenti per così dire “titanici”. Di realmente “romantico”, nella sua accezione più pura, si distingue il tema iniziale espresso dallo strumento ad arco con morbidezza di accento, quasi privo di enfasi (e trattando di Schumann, è tutto dire!). Ma il tratto schumanniano viene fuori quando tale tema viene sottoposto al processo di elaborazione, facendo sì che affiori quella tradizionale tensione interiore con la quale il compositore tedesco ammanta le sue pagine; una tensione che rimbalza continuamente tra volontà e dubbio, ribadita in questo caso dal fatto che il violino ritorna più volte a enunciare la medesima frase: come a dire essere in completa balia di una dimensione volitiva che trova albergo negli abissi introspettivi dell’artista. La distensione, subito dopo ls contrazione, avviene come sempre nel movimento centrale più lento, in questo caso un soave Allegretto, con il violino che si pone indiscutibilmente in primo piano per dare agio a una pletora di armonie cantabili e riflessive, quasi fosse una sorta di pit-stop, di ricaricamento delle batterie, prima dell’esplosione tellurica finale, espressa dal tempo conclusivo, con la quale Schumann vomita tutta l’inquietudine (cosa che in quel nefasto 1851 non gli mancava di certo) e la veemenza interiore che albergava nella sua psiche. Qui, il pedale dell’acceleratore viene pigiato anche dal pianoforte, che fa a gara con le mitragliate dionisiache espresse dal violino, trionfali singhiozzi di rabbia e di amarezza, di incomprensione e di impotenza di fronte a un destino che si fa sempre più tetro.
Ciò che viene enunciato nella forma e nella sostanza musicali da Schumann e, più in generale, dagli stilemi del Romanticismo tedesco, trova in Edvard Grieg, di formazione essenzialmente germanica, un potenziale ed effettivo, almeno in parte, mediatore di tale materia (attenzione: ho scritto mediatore, non sterile imitatore). In parte, poiché il compositore norvegese è un po’ il Guy de Maupassant in chiave musicale del secondo Ottocento, nel senso che come il romanziere francese offrì il meglio nella forma breve, concisa, quella del racconto, rispetto ai romanzi, Grieg riesce a padroneggiare indubbiamente meglio il processo di mediazione della lezione romantica tedesca nelle strutture altrettanto concise, nelle miniature pianistiche innanzi tutto. D’altronde, basta vedere il suo rapporto con il genere cameristico, del tutto striminzito e non certo suscettibile a una pianificazione organica: tre sonate per violino, una sonata per violoncello e due quartetti per archi, il secondo dei quali, tra l’altro, rimasto incompiuto.
Con indubbia onestà intellettuale ed artistica, Grieg si rese perfettamente conto di tali limiti, al punto di avvertire la necessità, nella seconda metà degli anni Settanta dell’Ottocento, di approfondire e rendere più articolata la propria tecnica compositiva, cosa che si manifesta nel Quartetto per archi op. 27, il quale, oltre ad essere un lavoro di assoluto valore, testimonia anche la volontà in Grieg di comporlo a guisa di vero e proprio studio. E, in tal senso, la composizione e il risultato ottenuti con la Sonata n. 3 per violino e pianoforte op. 45 possono rientrare nel novero di tale approfondimento e studio. Composta tra il 1886 e il 1887, la Sonata fu eseguita in prima assoluta nello stesso 1887, il 10 dicembre al Neues Gewandhaus di Lipsia, da Adolf Brodskij al violino e con lo stesso Grieg al pianoforte. Per i motivi testé addotti, l’op. 45 risulta essere la Sonata violinistica più riuscita, più matura, più aderente a quella ricerca di maggior dominio di una forma estesa e più complessa, attraverso la quale mediare quanto tramandato dalla tradizione romantica germanica. Una mediazione che si avvale di una rimarchevole freschezza dell’invenzione melodica, di una più convincente raffinatezza del linguaggio armonico, di uno sfruttamento più articolato dell’apporto tematico, oltre al consueto riferimento alla musica popolare scandinava come fonte continua di ispirazione. Tutto ciò permette a Grieg di confezionare una pagina alla cui porta il tragico può finalmente bussare, offrendo e mettendo a disposizione degli interpreti e degli ascoltatori un bagaglio di drammaticità a cui si aggiungono anche strati di slancio passionale e di quel sentore di Sehnsucht che rimandano necessariamente al buon, caro e vecchio Schumann.
A questo punto, il Duo Gazzana ha pensato bene di incrinare e “destabilizzare” non il senso di unità tra l’enunciazione schumanniana e la mediazione griegiana, ma la portata di quell’inevitabile sviluppo decostruttivo/costruttivo che la musica contemporanea ha apportato al genere cameristico del violino con pianoforte. Ecco, allora, la scelta delle due pagine di Kõrvits che, se si vuole, portano a far quadrare il cerchio del programma di questa registrazione. Nel primo caso, ossia con la Stalker Suite, l’apporto si fa altrettanto apporto di qualcosa-di-altro, vale a dire la materia cinematografica, con un rarefatto omaggio a uno dei capolavori di Tarkovskij, nel secondo quale rigurgito metastatizzato di un concetto/immagine caro ai romantici, quello della notte e della relativa formulazione musicale del “notturno”. Preciso fin da subito che ascoltare la prima composizione senza aver visto l’omonima pellicola del regista russo è come succhiare una caramella senza averla prima scartata. Oltre ad essere uno degli autori cinematografici più visionari della storia del cinema, Tarkovskij è anche uno di coloro che utilizzano e plasmano la dimensione del suono al servizio dell’immagine con una profondità e con un’introspezione da togliere il fiato. La musica in Stalker fa da imbuto a una spiritualità che pervade e satura tutta la pellicola, una spiritualità però, che nelle sue fattezze distopiche, spinge gli interpreti a non alzare mai lo sguardo, ma di fissare sempre il basso, costringendo lo spettatore a fare lo stesso. E la musica del compositore estone, a tale riguardo, rappresenta un omaggio in tal senso, presentando e obbligando i due strumenti a confrontarsi con le zone ctoniche della “Zona” in cui è ambientato il film, in un perpetuo viaggio sedimentato in un grigiore che deve necessariamente soffocare.
L’arte della distorsione, della frantumazione, nella sua portata ri-generante, è invece la cartina al tornasole che movimenta i quattro Notturni. Qui, si deve prima di tutto rintracciare le mollichine lasciate quasi due secoli prima dai “pollicini” Schumann e Grieg, poiché il tessuto armonico e la sua rifrazione timbrica che formano questi pezzi sono altrettante microcellule che a volte ampliano il retaggio simbolico, in altre restano tali, proponendo un percorso di germinazione riuscita che si alterna a semenze che non danno frutto nello sviluppo, ma che hanno valore per l’appunto allegorico, tratteggiando l’impulso dato dal mistero della notte senza andare a scandagliarlo con una ricerca della forma e della sua possibile complessità.
Veniamo, adesso, alla lettura fatta da Natascia & Raffaella Gazzana. Partiamo proprio dalle due composizioni di Kõrvits a loro dedicate. La resa del rapporto timbrico tra violino e pianoforte è a dir poco perfetta, a mio modo di vedere, con il primo che permette al secondo di non soggiacere in una dimensione astrusa, immota, ma sempre compartecipe nelle linee essenziali proposte. La glacialità che viene emanata nella Stalker Suite è straordinariamente esasperante, lancinante, poiché qui la tensione dev’essere spasmodica, perfino nella proposizione “melodica” del secondo pezzo della Suite, ossia The room. Tutto rimane in sospensione, un suono fluttuante ma che, come si è già accennato prima, non alza mai gli occhi al cielo, fisso e falsamente immoto sul pelo dello spazio terreno. E poi la diafana bellezza del registro grave del pianoforte in Waterfall, che conclude la Suite, mentre il violino di Natascia Gazzana dipana un tema estenuante, prosciugante, desolante, come le immagini del capolavoro di Tarkovskij, con un dominio assoluto dello strumento. E poi i quattro Notturni, la cui rarefazione, soprattutto dal côté pianistico, sembrano rimandare a un Debussy miracolosamente sfuggito alla febbre spagnola, in cui il bilanciamento tra i due strumenti dev’essere a dir poco ideale nel rendere lo straniamento, lo sperdersi di un suono che esonda e che cerca in uno spazio, il quale tende continue trappole al decorso temporale di ciò che viene manifestato, arrivando, come succede sul finale del secondo segmento, al quasi inudibile.
Schumann. L’incipit dato da Natascia Gazzana con il violino è la quintessenza dell’anima del sommo autore: poche battute per liofilizzare e inchiodare il manifesto delle tesi romantiche sul portone dell’edificio musicale dell’Ottocento. Capacità espressive spinte al limite dell’esprimibile, oltre a saper trasmettere quell’inquietudine esistenziale, emotiva, palpabile alla luce di un violino che in realtà tra le sue mani si trasforma in un prodigioso sismografo con il quale non enunciare, ma raccogliere e preservare ciò che la partitura cela agli occhi di altri. E poi Raffaella con il pianoforte che non vive mai di luce riflessa, ma diviene protagonista ineludibile (certo, ho capito, stiamo parlando di Schumann, che diamine… ); quindi, tonnellate di apprensione, singhiozzi repressi e stridor di denti che masticano incomprensione e amarezza, ma anche tanta, sconfinata dolcezza racchiusa magari in pochi, fuggevoli accordi, come a dire che il violino non è tutto, non è l’ombelico del mondo, ma solo un compagnon de route da fiancheggiare quando si entra in empatia con esso. Senza dimenticare gli incontri fugaci con quelle rare oasi di paradossale pace (il primo tempo docet), nelle quali i due strumenti si lasciano andare a un fittizio riposo timbrico, lasciando al tempo di stringere ulteriormente il nodo scorsoio. E il fraseggio, la dimensione lirica e cantabile che vengono lasciati colare nel prezioso Allegretto, cesellato in modo miracoloso, limpido, con accenni sbarazzini (le maschere carnevalesche che non lasciano mai in pace Schumann!), con singulti che non si sa se siano spasimi piacevoli o dolorosi, capaci di trascinare i due strumenti su un improvvisato palcoscenico teatrale, sul quale danno vita a un’aria, a un duetto nel quale, letteralmente, cantano. Infine, il tellurico, il Paradiso rovesciato che va in frantumi con l’irruzione del Lebhaftfinale. Ma, attenzione, fate caso al volume timbrico che non squassa, non rutta blasfemamente, ma viene sempre reso dalle sorelle laziali con un’inusitata “grazia”, come se la fine si presentasse con una rosa tra i denti. Raramente mi è capitato di avvertire in questo tempo una simile rotondità, una totale mancanza di asprezze che invece di rimandare a Dioniso fanno pensare al fragoroso sciacquone di un water. Come a dire che si può essere dissolutori, atomizzatori, ma senza mai abbandonare l’idea di un’eleganza formale, di una noblesse oblige che non stona mai, poiché l’apollineo, ci vuole ricordare il Duo Gazzana, è sempre in agguato, anche quando meno te lo aspetti.
Grieg. Natascia Gazzana, all’inizio del primo tempo, chiarisce subito come stanno le cose, con un timbro straordinariamente ingrassato nel registro medio-grave per poi lanciare stilettate affilate su quello acuto. E poi, ecco la capacità di enunciare il famoso tema con un bouquet di fiori di bosco, talmente freschi e profumati da lasciare allibiti, mentre Raffaella è impegnata a trasformarsi in una ninfa dei torrenti scandinavi, lasciando che la tastiera sia uno stagno nel quale immergere le dita, tale è la liquidità dei suoi accordi. La tensione di una tragicità che sa di muschio, di rocce che danno sul mare, di un oltre di cui non si vede la fine, ma che non spaventa più di tanto. Slanci trasmessi da cavate così potenti da fare a braccio di ferro con Schwarzenegger, eppure così precise, scontornate, scolpite sulle corde del violino da togliere il fiato. Ecco che cosa significa essere interpretativamente lucidi.
Ascoltando e riflettendo sul secondo tempo, l’Allegretto espansivo alla Romanza, mi sono reso conto che il Duo Gazzana appartiene a quella razza, meglio, a quell’Olimpo che racchiude il meglio della grande tradizione italica nel rendere e restituire i capolavori dell’arte musicale occidentale, con la medesima capacità non solo di esprimere idealmente, ma di arricchire con quell’aggiunta del tutto mediterranea (sì, a volte il levantino porta perfino a qualcosa di buono) di tramutare il suono con una patina di soffuso, di ammorbidito, di “melodico”. Mi riferisco, se proprio devo stilare un catalogo improvvisato, al Toscanini che fa cantare come nessun altro i violini nella Morte e marcia funebre di Sigfrido, al Tristano di De Sabata che faceva piangere di commozione i musicisti e i critici tedeschi, ai quartetti beethoveniani affrescati dal Quartetto Italiano, allo Schubert reso come un mosaico bizantino dal Trio di Trieste. Quel quid materico e impalpabile in più che solo noi, per un miracolo trasmesso dai geni nostrani, a volte, raramente ma implacabilmente, sappiamo donare. E come fa il Duo Gazzana nel finale della sonata griegiana, con un rapporto volumetrico delle forme e del timbro che è semplicemente osmotico, la mela platoniana tagliata in due; eppure, saldamente unita (gli attacchi di Natascia, in tal senso, sono più taglienti di una katana da bushi affilata!).
Ovviamente, e non potrebbe essere altrimenti, Disco del mese di dicembre 2023 per MusicVoice.
La prodigiosa rotondità espressiva del Klang del Duo Gazzana è stata fortunatamente preservata nella presa del suono effettuata da Markus Heiland, che ha saputo catturarlo in modo adeguato, evitando, sia a livello di microfonatura, sia di editing, di metterlo in un freezer sottozero, come a volte capita con le registrazioni della ECM. Il calore, la vaporosità del violino e del pianoforte sono resi da una dinamica spaziale, mandata in orbita grazie a un propellente trafugato dai vettori del Saturno 5 e da una velocità degna del medesimo missile, oltre a denotare, meno male, una squisita naturalezza negli armonici e del loro decadimento. La ricostruzione del palcoscenico sonoro mostra la differenza di posizionamento delle due interpreti tra l’esecuzione di Kõrvits e quella di Schumann e Grieg, con una dilatazione spaziale presente nel primo, come a rendere maggiormente lo status di straniamento perfino fisico, oltre a restituire un’ottima profondità, senza rinunciare a una sapiente messa a fuoco. Anche l’equilibrio tonale rasenta la perfezione, con una netta separazione dei registri dei due strumenti, che restano sempre magnificamente scontornati e senza che il violino raggiunga, in quello acuto, il regno dell’acidità. Infine, il dettaglio è un inno al dio materico, con una caratura fisica degli strumenti che spinge a un’esperienza tattile dei medesimi.
Andrea Bedetti
Tõnu Kõrvits-Robert Schumann-Edvard Grieg – Stalker Suite-Notturni-Sonata No. 1 in A minor, op. 105-Sonata No. 3 in C minor, op. 45
Duo Gazzana (Natascia Gazzana, violino & Raffaella Gazzana, pianoforte)
CD ECM New Series 2706
Giudizio artistico 5/5
Giudizio tecnico 4,5/5