La sensualità della spiritualità in Liszt
Se esiste una frase capace di riassumere in poche, pochissime parole, la vita e l’opera di Franz Liszt, probabilmente è quella che lo stesso compositore e pianista ungherese proferì pochi anni prima di morire, quando ormai aveva smesso di esibirsi in pubblico: «L’amore mi ha salvato da me stesso, l’arte mi ha salvato dall’amore, la religione mi ha salvato dall’arte. Perché tutto passa, tranne Dio». La vita, quindi, con tutte le sue lusinghe e le sue rinunce, con le sue tentazioni e le sue espiazioni, come atto continuo di salvazione, di remissione, di purificazione; un atto, per Liszt, che di volta in volta fu attuato attraverso una progettualità sentimentale, artistica, spirituale. Un continuo ricorso a qualcosa d’altro, come una sorta di agognato transfert con il quale trovare conforto, che fossero delle curve muliebri, la tastiera di un pianoforte o il pentagramma di una partitura o ancora, o per meglio dire, infine, come un alter ego di Joris-Karl Huysmans, i piedi di una croce.
Così, l’alfa e l’omega di Liszt corrispondono all’eros da una parte e allo spirito dall’altra, passando attraverso il ponte dell’arte. Chi ha letto le confessioni di Angela da Foligno o di Giovanni della Croce, sa perfettamente che la sensualità talvolta non fa rima con carnalità, bensì con spiritualità, poiché prima o poi gli opposti sono destinati a toccarsi e a riconoscersi. Quindi, eseguire e, parallelamente, ascoltare la musica di Liszt, a cominciare da quella pianistica, significa fondamentalmente esprimere e recepire due forze apparentemente contrastanti: il richiamo del trascendente (di cui il richiamo della natura ne è una testimonianza che va ben oltre a un’insufficiente idea di mero panteismo) e quello di un’immanenza che coinvolge, più o meno costantemente nel corso della vita del pianista e compositore ungherese, questa palese ricerca di una sensualità in grado di ammantare lo sguardo esterno dell’artista. Quella stessa sensualità che, decenni dopo, Pablo Picasso riassunse in un’espressione che ricalca la sua concezione di un’estetica che non è solo artistica, ma soprattutto esistenziale: «Com’è bello andare la mattina a messa, il pomeriggio alla corrida e la sera al casino». Una proiezione squisitamente vitalistica che rovescia, senza alcun dubbio, la celebre prospettiva kierkegaardiana, la quale, partendo dall’estetica giunge fino alla religiosità passando attraverso l’etica.
Non so se sia voluto o meno, ma questa traccia evolutiva (o involutiva, dipende dai punti di vista) che conduce da una posizione estetica ad una religiosa, è stata discograficamente seguita dalla pianista calabrese Ingrid Carbone, della quale recentemente è stato pubblicato dalla Da Vinci Classics il suo secondo CD dedicato alle opere pianistiche di Liszt, intitolato Le sentiment de la nature, e che potrebbe essere considerato (sempre che l’artista continui ad essere affascinata e avviluppata dal pianismo del magiaro) il work in progress di un possibile trittico al quale già appartiene il titolo precedente, Les harmonies de l’esprit dove sono state presentate pagine oserei definire obbligatorie come l’Après une Lecture du Dante - Fantasia quasi Sonata S. 161/7, le Consolations: 6 pensées poétiques - S. 172, così come l’immancabile Liebesträume n. 3 e la Légende n. 2 - St. Francois de Paule “marchant sur le flots” S. 175, dunque titoli appartenenti ora alla dimensione letteraria, ora a quella religiosa spirituale, e che nel secondo disco, invece, oltre a queste due polarità musicalmente proiettive, rappresentate da brani quali la prima Légende, S. 175: n. 1, St François d’Assise: la prédication aux oiseaux, da due delle dieci Harmonies poétiques et religieuses, per l’esattezza la prima, Invocation, e la settima, Funérailles, lo è anche dal tertium non datur rappresentato dall’elemento della natura attraverso due pagine degli Années de Pèlerinage, Les jeux d’eaux à la Villa d’Este e Vallée d’Obermann.
Come nel CD precedente, è il caso di approfondire il tipo di lettura fatto da Ingrid Carbone, soprattutto alla luce di quanto è stato enunciato all’inizio di questo scritto; cominciamo dalle pagine che rimandano tout court al côté spirituale di Liszt. A tale proposito, la prima delle due Légendes è tutta giocata su una cristallinità timbrica che sembra quasi fare da contraltare al primo brano del CD, Les jeux d’eaux à la Villa d’Este, e in cui il trillare si incastona nel senso ritmico della composizione, traducendolo quasi in un respiro, in un afflato cosmico-religioso reso dagli uccelli che circondano il santo. Il trillo iniziale in sé non rimanda a una stereotipata immagine impressionista (sempre che si possa impiegare una traslazione pittorica più che l’anticamera debussyana) quanto ad una maggiormente oggettiva, più “razionale”, ergo più vicina, sempre in termini pittorici, a una concezione puntillistica, in cui l’elemento fisiologico prende il sopravvento su quello puramente emotivo. Da qui, un gioco di proporzioni, di volumi timbrici sempre debitamente proporzionati, restituiti nello spazio circostante, come se l’artista calabrese avesse voluto restituire l’ambiente che circonda il santo e i volatili. Certo, la parte centrale del brano, con il suo mutamento riflessivo e introspettivo, si cala nella dimensione di una preghiera sonora, in cui la solennità del momento deve lasciare posto a una commozione che il suono non deve assolutamente tradire: cosa che Ingrid Carbone rende con partecipazione, dosando la timbrica dello Steinway utilizzato e traducendolo in una ricerca continua di cristallinità, da intendere come espressione di purezza, di trasparenza, di immacolata visione che si sprigiona nelle orecchie di chi ascolta.
Mi piace pensare che la scelta di Invocation sia stata fatta dall’artista calabrese come ideale punto di collegamento tra la dimensione spirituale e quella estetica-naturalistica che ammanta Les jeux d’eaux à la Villa d’Este e la Vallée d’Obermann, ossia da considerare come un punto d’incontro tra le aspirazioni trascendentali e le necessità immanenti di Liszt, in cui la sensualità che la natura riesce a manifestare negli animi irrequieti (e chi più del compositore e virtuoso ungherese, a parte Schumann, lo fu?), viene stemperata dall’irruzione del religioso (e allora si ascolti come Ingrid Carbone restituisce le architetture gotiche, innalzanti, nella seconda parte del brano in questione; architetture che però non perdono mai anche in questo caso una loro oggettività, con l’uso della pedaliera che in tal senso crea forma e confini nella rappresentazione sonora del gesto espressivo), visto però attraverso la sensibilità di un’artista che, oltre ad essere una musicista, è anche una matematica (come a dire che il razionalismo della scienza si unisce con il mistero della magia ultraterrena).
Ed ecco, allora, la conseguente scelta di Funérailles, poiché in Ingrid Carbone vi è sempre la ricerca di ciò che, prima o poi, assume la conformazione di una cosa dolente, accomunata dal senso del movimento, di un andamento che può essere lineare o circolare, ma che non deve mai fermarsi, sublimazione di una sensualità che mi fa venire in mente i versi di una Patrizia Valduga, ossia con l’eros e thanatos che vanno a braccetto, di comune accordo finché devono muoversi, articolarsi in un ritmo che dev’essere prima di tutto interiore, come richiede per l’appunto il pezzo in questione, in cui il costrutto ritmico-dolente della prima parte cede il passo all’inevitabile status riflessivo-spirituale della seconda, con un cambio di marcia espressivo, in cui subentra il muro del pianto dato dal ricordo, dall’album delle reminiscenze, e dal quale poi prende avvio il ripido sentiero che porta fino alla radura finale di Funérailles, una sorta di Lichtung heideggeriana in cui la luce deve accecare tutto, quasi presagio del terzo atto del Parsifal wagneriano. Tutto ciò deve venire fuori e Ingrid Carbone lo fa, lucidamente, quasi con una punta di dolce sadismo, da squisito commesso viaggiatore dell’interpretazione che tira fuori dalla valigetta tutti gli articoli che fanno parte del suo mestiere.
All’alfa e all’omega, guarda caso, della registrazione, vi sono i due brani “naturalistici”, entro i quali Ingrid Carbone allegoricamente ha conchiuso la sfera sensuale-spirituale lisztiana. Cominciamo dalla porta d’ingresso del CD, ossia la pagina dei giochi d’acqua, anch’essa premonitrice di altre future rappresentazioni musicali-pittoriche, che dà modo all’artista calabrese di articolare un dipanarsi musicale in cui l’elemento H2O assume una fluidità sulla tastiera che sembra più avere una valenza temporale che ludica, perché anche qui la pianista non perde (giustamente) l’occasione di tramutare questo brano altrettanto pointilliste in un richiamo riflessivo, poiché Liszt usa la natura come continuo elemento di riflessione per la sua religiosità, tramutandolo in una muta preghiera con il volto proteso all’insù.
Allo stesso modo, il brano conclusivo, il più lungo con i suoi quasi diciassette minuti, la cui articolazione doveva essere sviluppata come una porta d’uscita nelle intenzioni di Ingrid Carbone, assume però allo stesso tempo, e qui ardisco, alla fatidica scelta che l’uomo di Kierkegaard, che entrando in una caverna trova davanti a sé diverse uscite e non sa quale scegliere.
È come se l’interprete abbia voluto chiudere la sua registrazione con un magistrale punto interrogativo, poiché la Vallée d’Obermann, nella sua esuberante valenza letteraria-naturalistica, accomuna da una parte la linea generale degli Années de pèlerinage, il vagare formativo di un Wilhelm Meister goethiano, e dall’altra lo specifico rimando all’omonimo romanzo di Etienne Pivert de Sénancour, che magari non avrà formato e indottrinato una generazione come fecero I dolori del giovane Werther, ma poco ci manca. E qui il pianismo di Ingrid Carbone si muove, ora con passione, ora con costernazione, tra smarrimento e pseudo volontà di potenza, tra un vittimismo perfettamente calcolato e strumentale (come se Werther avesse indossato i panni del dickensiano Uriah Heep!) e una contemplazione che si ritrova ad essere circondata, come la zattera della Medusa di Géricault, dai flutti dell’indifferenza altrui, così agognata e benedetta dalla Weltanschauung romantica. Si tratta ovviamente di calibrare tutto ciò nell’ambito della tastiera, e ancora una volta Ingrid Carbone lo fa, ma senza entrare mai nell’agone della tenzone, ma mantenendo quel salutare mezzo metro di distanza invocato dal buddhismo zen, quel tanto necessario per essere interprete-osservatrice più che interprete-complice, ossia senza farsi attrarre dal buco nero del mero coinvolgimento di un pathos che rischierebbe di falsare il necessario equilibrio sul quale il brano deve farsi carico, vale a dire un equilibrio capace di tramutare l’eroismo in vittimismo, il granito in polvere di gesso, l’eros nell’autocastrazione chimica.
La presa del suono è stata effettuata da Stefano Ligoratti e ha permesso di restituire le sonorità dello Steinway; la dinamica, quindi, è corposa, rocciosa come uno strumento del genere impone senza manifestare enfasi indesiderate (questo soprattutto sulle due estremità del registro). Il palcoscenico sonoro è ampio e profondo allo stesso tempo, con il pianoforte ricostruito idealmente al centro dei diffusori; se l’equilibrio tonale, poi, permette sempre di cogliere le differenze del registro medio-alto e medio-grave della tastiera senza fastidiose sbavature, il dettaglio vanta quella debita vagonata di nero intorno al pianoforte tale da proiettarne tutta la sua matericità.
Andrea Bedetti
Franz Liszt - Le sentiment de la nature
Ingrid Carbone (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00438