La “pudica” inquietudine di Felix Mendelssohn
In una lettera indirizzata all’amico musicista Ferdinand Hiller del 17 agosto 1838, Mendelssohn scrisse, tra l’altro, queste parole: «Un ramo molto importante della musica per piano, che amo particolarmente – Trii, Quartetti e altri pezzi con accompagnamento, in breve, l’autentica musica da camera – è oggi quasi dimenticata, e ho un desiderio fin troppo grande di qualche cosa di nuovo in questo senso. Allora vorrei anche fare qualcosa in questa direzione. È con questa idea in testa che ho scritto la Sonata per violino e quella per violoncello, e penso di scrivere prossimamente due Trii».
La Sonata per violino è la terza, in fa maggiore, del 1838, e quella per violoncello, la prima in si bemolle maggiore, è dello stesso anno, mentre i due Trii per pianoforte, il primo in re minore e il secondo in do minore, risalgono al 1839 e al 1845, ossia un lasso di tempo in cui la raggiunta maturità creativa del compositore di Amburgo gli permise di sfornare un capolavoro dietro l’altro e non solo in campo cameristico, visto che a quest’epoca risalgono, tra gli altri, la Sinfonia n. 2 Lobgesang, La Sinfonia n. 3 Scozzese, le musiche di scena di Sogno di una notte di mezza estate e il Concerto per violino in mi minore. Opere che rappresentano un summa prodigioso e ineludibile nel panorama del Romanticismo musicale europeo e che mettono in luce, contrariamente a quanto si è soliti affermare e reputare nei confronti di Mendelssohn, un’espressività nella quale trova posto un’inquietudine che si permea anche nella forma, superficialmente definita apollinea, classica, educata.
Sì, perché anche Mendelssohn fu attraversato da quell’inquietudine creativa che già Schubert da una parte e Schumann dall’altra ebbero modo di sperimentare sulla loro pelle e che trasmisero nelle loro opere; semmai, si può affermare che da un certo punto di vista Mendelssohn si sforzò di trovare un equilibrio tra l’emissione espressiva e l’istanza formale, tra il desiderio di manifestare le inevitabili pulsioni della sua arte musicale e la necessità di poterle incapsulare, incanalare in una costruzione armonica nella quale poterle non tanto stemperare, ma quantomeno farle scendere a patti con quella dimensione formale che il musicista amburghese aveva preso a modello dal rigore bachiano. Questo, però, non significa che l’aspetto “dionisiaco” presente nella sua musica sia sempre sceso a patti con la volontà formale, come appunto lo dimostrano i due Trii per pianoforte, violino e violoncello che sono stati recentemente registrati per l’etichetta Da Vinci Classics dal Trio Gustav, con Olaf John Laneri al pianoforte, Francesco Comisso al violino e Dario Destefano al violoncello.
Non dobbiamo dimenticare che quando il primo Trio in re minore venne tenuto a battesimo a Lipsia il 23 settembre 1839, con lo stesso Mendelssohn al pianoforte, Schumann ebbe parole di elogio, scrivendo sulle pagine della sua Die Neue Zeitschrift für Musik che «questo è il lavoro di un maestro, come lo furono a loro tempo quelli di Beethoven in si bemolle e in re, come lo era quello di Schubert in mi bemolle… Questo Trio è una eccellente composizione che tra qualche anno delizierà i nostri nipoti e pronipoti. Mendelssohn è il Mozart del nostro momento storico, il più brillante dei musicisti, quello che ha individuato più chiaramente le contraddizioni dell’epoca e il primo che le ha riconciliate tra di loro». Ecco, il punto è proprio questo: Mendelssohn, attraverso i due Trii in questione (e questo vale soprattutto con il primo), ha voluto evidenziare, come giustamente colse Schumann, le contraddizioni culturali, esistenziali, sociali, artistiche della sua epoca con la mediazione di una “riconciliazione” che avviene attraverso un impianto formale nel quale, miracolosamente, si riscontra un prodigioso equilibrio interiore, con i tre strumenti che vengono a fondersi in modo omogeneo, anche se il pianoforte (lo strumento ideale di Mendelssohn, come lo fu per Schumann) svolge all’interno di questo equilibrio una funzione di coordinamento, di “semaforo” che fa defluire di volta in volta l’esposizione, lo sviluppo e la ripresa di buona parte del materiale tematico. Questa capacità di rendere oltremodo coesi i tre strumenti permette a Mendelssohn di dare così vita a un’opera la cui precisione è pari alle sfaccettature di un diamante. Ed è proprio facendo leva su tale precisione che la brillante intuizione di Schumann si rende più evidente, in quanto la destabilizzazione data dall’inquietudine viene riconciliata da un’idea, da una rappresentazione del Romanticismo che nel musicista amburghese assume i contorni di un calcolo perfetto, di una poetica che affiora e che ha in sé quelle istanze moralistiche, etiche, estetiche che vanno da Lessing fino a Schiller, secondo quella visione intellettuale, culturale e artistica che è inscindibile dalla creazione musicale in Mendelssohn stesso.
In parte questa visione appartiene anche al mondo che sovrintende il secondo Trio che fu scritto a Francoforte nei mesi successivi alla rinuncia dell’incarico di direttore della cappella di Federico di Prussia, che Mendelssohn deteneva a Berlino dal 1841, con lo stesso autore che fu tra i primi interpreti al pianoforte di questa pagina, dedicata all’amico e collega Ludwig Spohr. L’importanza di questa composizione risiede nel fatto che rappresentò l’ultima opera di Mendelssohn nella produzione cameristica con pianoforte e questo, a livello temporale, permise al compositore amburghese di tenere presente il sentiero tracciato in precedenza da Schubert con i suoi due Trii op. 99 e op. 100 risalenti al 1827, in cui si avverte come questo genere cameristico fosse ormai approdato a una costruzione solidamente riflessiva, fondata su una materia musicale improntata a sviscerare scorci interiori intrisi di dolore e di rimpianto. Così, attraverso l’op. 66, Mendelssohn tese a recuperare quel “classicismo dilaniato” dello Schubert cameristico, ampliandone la portata costruttiva ed espressiva, allontanando le inquietudini dalle plaghe eminentemente “romantiche” che avevano contraddistinto l’op. 49 e riconducendole a una maggiore densità formale, lasciando maggiore spazio a un’interiorità espressiva che aveva il compito di stemperare gli slanci, i richiami dionisiaci (si pensi alla Terza sinfonia Scozzese) per poter continuare, in tal senso, il sentiero interrotto di Schubert. Ciò porta il secondo Trio a vantare proporzioni maggiori rispetto al primo, parallelamente a una minore capacità di equilibrare il tutto, tenuto conto anche del fatto che nell’ultimo tempo, il Finale. Allegro appassionato, Mendelssohn inserisce un tema di corale che viene esposto dal pianoforte nell’episodio centrale e che fornisce un’impronta, per via della sua densità timbrica, quasi “sinfonica”.
La capacità del Trio Gustav, in questa registrazione, è stata indubbiamente quella di mettere in risalto i diversi meriti e i pochi difetti di questi due capolavori cameristici. Prima di tutto, c’è da notare come i tre interpreti hanno evidenziato il costrutto generale di queste due opere, le loro arcate, senza per questo svilire il gusto e la ricerca del particolare, della sfumatura, della caratura psicologica, indispensabili per far affiorare quel senso di “inquietudine” di cui si è detto, diluendola in una forma che pur nei suoi accenti, nei suoi slanci, rimane “nobile”, compiuta, agogicamente esemplare. Tutto ciò si può realizzare se i componenti di una formazione cameristica raggiungono un alto livello di affiatamento, come appunto succede a Laneri, Comisso e Destefano capaci di esaltare l’espressività, le ombre, le luci, di indagare sui chiaroscuri, di cesellare i grumi timbrici che intasano la partitura del secondo Trio, così come di delineare gli equilibri stilistici del primo Trio senza mai rinunciare però a trasmetterne l’intensità, l’ardore, la tersa dimensione interiore che traspare da essi.
Se Olaf John Laneri riesce a padroneggiare esemplarmente la mole impressionante di note che sovrasta il pianoforte, mettendo a proprio agio il lavoro dei due strumenti ad arco, da parte loro Francesco Comisso e Dario Destefano hanno modo di disciplinare al meglio l’eloquio, il raffronto e l’incontro tra violino e violoncello, offrendo di conseguenza un equilibrio formale e timbrico che porta il suono ad essere più preciso e più pulito, anche nei momenti maggiormente più intensi.
La presa del suono effettuata da Dario Caroli permette un’ottima ricostruzione degli strumenti e dello spazio sonoro in cui è avvenuta la registrazione; la dinamica è in grado di restituire velocità e quella necessaria naturalezza timbrica che si deve realizzare nel decadimento degli armonici. Ciò permette di rispettare debitamente l’equilibrio tonale e di ottenere un dettaglio dei tre strumenti materico e ricco di nero. Infine, il palcoscenico sonoro presenta i tre artisti correttamente posizionati all’interno dello spazio fisico, con una notevole profondità e altezza del suono.
Andrea Bedetti
Felix Mendelssohn-Bartholdy – The Piano Trios
Trio Gustav
CD Da Vinci Classics C00200
Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4/5