La modernità classica di Francesco Pennisi
Affrontando un artista, più che un compositore, a tutto tondo come il siciliano Francesco Pennisi, si dovrebbe tenere a mente quanto ha scritto di lui Mario Messinis, vale a dire «Il mondo di Pennisi è inaccessibile, delicatamente sfingeo, pagine aeree che librano nel vuoto». Ed è vero, in quanto questo grande musicista, pittore e promotore culturale incarna una complessità artistica che tende a rifuggire le trappole dell’etichettatura tout court, disancorandolo da agganci identificativi che alla lunga potrebbero svilire quelle peculiarità che hanno fatto di Francesco Pennisi una voce particolare, quasi isolata, nel panorama musicale del Novecento italiano (nato ad Acireale nel 1934, l’artista siciliano è morto prematuramente nel 2000 a Roma, dove risiedeva da anni).
D’altronde, come gli altri musicisti, vale a dire Aldo Clementi, Franco Evangelisti, Domenico Guaccero e Daniele Paris, che diedero vita con lui alla nascita di quella fabbrica di cultura, analisi e propaganda della musica contemporanea quale è stata l’esperienza di Nuova Consonanza, Francesco Pennisi ha lasciato con la sua opera una traccia indelebile, la quale dev’essere in un certo senso ancora scavata a fondo, perlustrata con attenzione e sensibilità, illuminata con quegli stessi colori che l’artista siciliano utilizzò nei suoi acquarelli e nei suoi disegni, acquerelli e disegni che rappresentano un ineludibile “corollario autonomo” della sua produzione musicale, un ampliamento sotto altre frequenze fisiche e metafisiche di un’arte enigmaticamente sfuggente, espressa emblematicamente soprattutto attraverso l’impiego di strumenti delicati come il flauto (da lui prediletto), l’arpa e il clavicembalo, con i quali porre in un sottile e precario (e per questo così affascinante) equilibrio il concetto di modernità e quello di classicismo, come ha ben delineato Massimo Ferrante in uno studio dedicato al compositore siciliano.
Ma in un catalogo ampio, ma squisitamente selezionato, comprendente opere teatrali, a cominciare da quella Sylvia Symplex con la quale nel 1972 Pennisi sfrutta la sua ricerca armonica con quella grafica e animata della scenografia pittorica e del filmato, continuando con la musica da camera, da cui emerge il raffinato Carteggio per flauto, violoncello e clavicembalo, la musica orchestrale, con il flauto ancora protagonista, come in Arioso mobile del 1981, fino a quella vocale, la quale ha attraversato tutto l’iter compositivo di Pennisi tra il 1962 e l’anno della morte, si rendono necessarie anche quelle pagine isolate, quei piani circoscritti, incastonati in una materia più vasta come quelle dedicate al pianoforte, che un giovane pianista triestino, Stefano Cascioli, ha voluto raccogliere integralmente nella sua prima registrazione discografica, pubblicata dalla Stradivarius, in un album la cui somma frammentaria (il brano più lungo non raggiunge i quattro minuti, e ciò richiama uno dei punti fermi della visione musicale di Pennisi, ossia Anton Webern) si coagula in una ipnotica densità timbrica e formale.
Questo perché l’opera pianistica dell’autore di Acireale è meno marginale di quanto si possa credere (e quindi il progetto di Cascioli è ancor più meritorio) poiché delinea, come un delicato e vaporoso passepartout, le linee guida, le matrici di un’opera musicale che deve sempre fare i conti con gli interessi, si potrebbe affermare con le necessità, extramusicali di Pennisi, un venire a patti (ma non a compromessi!) con il suo bisogno di esternare stati d’animo, prospettive, panoramiche, proiezioni visive del suo sentire l’arte, di viverla e di manifestarla compiutamente (un compiersi che è sempre problematico, a volte perfino conflittuale e da qui la volontà, fin da giovane, di seguire contemporaneamente l’arte delle linee e dei colori con quella dei suoni).
Così, seguendo la breve ma densa analisi che Graziella Seminara, un’attenta studiosa dell’opera pennisiana, esplica nelle note di accompagnamento al disco, si può ardire a costruire o, meglio, a costruirsi un’immagine dell’immagine del compositore siciliano attraverso una produzione pianistica che inizia sul finire degli anni Cinquanta e prosegue fino a quel fatidico 2000, e ciò grazie a dei punti cardine, a cominciare da una pagina sperimentale come Afterthoughts, risalente al 1962, in cui la densità dell’eloquio weberniano cerca di coniugarsi con la crisi della sua immagine venuta poi, un tentativo di mediazione, di ennesimo richiamo a un possibile e necessario equilibrio timbrico e strutturale. Un equilibrio in cui, la già citata modernità può mediare con il rassicurante ingombro volumetrico dato dalla classicità (non dimentichiamo le radici siciliane di Pennisi, mai accantonate, e quindi il richiamo incessante di un barocco che si delinea anche nell’esemplificazione spaziale presente nei suoi acquerelli), come avviene nel brano Canzone da sonare (1982-83). Il binomio modernità/classicità non poteva poi non trovare una sua ragion d’essere in Pennisi nei risultati, soprattutto proprio con il pianoforte, raggiunti dalla scuola francese, da quella rappresentazione di un gusto che è anche sapere, presa di coscienza di una conoscenza, di una forma che è innanzitutto spessore esistenziale, di pensieri e sfumature che assurgono alla dimensione di una realtà delineata in Debussy (a cui Pennisi dedica un acquarello) e in Satie, la cui ombra materica non abbandona la tavolozza della tastiera e il cui richiamo può essere individuato nel primo dei Sei pezzi brevi (1955-57), dal titolo Preludio francese, nella Promenade del 1980 (per pianoforte con tre corde preparate, poiché non dobbiamo escludere dalla materia sonora di Pennisi anche l’influsso di John Cage) e ne Le fantôme de la valse oubliée del 1998 (che Cascioli registra in prima mondiale), in cui il richiamo raveliano si coniuga con la dolce estraniazione di Satie.
Certo, non mancano le rotondità timbriche, le rimembranze fattive di una tonalità, come avviene in Una pastorale etnea (1995), che però evaporano immanentemente quasi fossero delle essenze volativi, fatte con la stessa consistenza impalpabile delle rimembranze. Questo per ricordarci che il pianismo di Pennisi è parallelo, a livello di materia e di strumento, alla caratura della china o del carboncino, con la prima che fissa il segno, lo delimita, lo focalizza nell’istante in cui si propone (In un foglio, 1983) e con il secondo che, al contrario, tende a frammentare la precisione, la resa fotografica del segno e della linea in una proiezione che appartiene al regno dello sfumato, del granulare (Frammento 99, 1981, Raccolta dei frammenti, 1984 e Frammento naxiota, 1985). C’è da chiedersi, e questo vale soprattutto per il pianoforte, se Pennisi, quando componeva, aveva in mente il foglio bianco e non il pentagramma, tale è la forza inerziale della raffigurazione emotiva da raggiungere con i colori e con le prospettive dati da piani e linee.
Ma questa è la forza, la «verde miccia» direbbe Dylan Thomas, che rende unica la memoria umana e dalla quale l’autore siciliano ha sempre attinto per tentare di “pianificare” la sua arte, vuoi che fosse pittorica, vuoi che fosse musicale; memoria che rappresenta (sarà un caso o l’intervento del destino?) la concretizzazione ideale di tale percorso e che incarna l’ultimo pezzo pianistico di Pennisi, scritto nell’anno della sua morte, Na nuttata tanta ranni, tratto da un canto natalizio siciliano, simbolo definitivo, nella sua precarietà dell’umano vivere, di quel rimando al mondo infantile (a tale proposito, citare l’Antigrazioso di Carlo Carrà, con i suoi struggenti richiami allegorici, non risulterà fuori posto) nel quale l’artista di Acireale trovava idealmente rifugio non solo per creare, ma anche e soprattutto per sognare la propria arte.
Stefano Cascioli ha voluto registrare l’integrale pianistica di Francesco Pennisi con un pianoforte Steinway M del 1939, con il diapason a 440 Hz; mi piace pensare che tale scelta sia stata fatta proprio nel tentativo di trovare una mediazione timbrica tra un suono che potesse esprimere l’inchiostro di china compositivo dell’autore, così come il carboncino, entrambi evocati sopra. In effetti, la linea di lettura del giovane pianista triestino ha il merito di richiamare continuamente un’immagine sonora, una proiezione nella quale la densità sonora è un ininterrotto rimando alle linee costitutive del messaggio artistico di Pennisi; ciò significa che la timbrica enunciata, la spontaneità del fraseggio, quando è presente, così come i suoni espressi nella loro individualità, concretizzazione di vere e proprie monadi, vantano un potere altamente evocativo, un transfert sonoro con il quale allacciare la messe di stimoli, ricordi, messaggi attraverso i quali il compositore siciliano ha voluto dipingere la sua musica. Ciò significa non solo proprietà d’intenti, ma anche una precisa consapevolezza interpretativa, la volontà di trasmettere un’esecuzione che fosse non solo testimonianza storica, ma chiara precisazione estetica del fare musicale. D’altronde, alla chiave filologica dell’impresa, come spiega lo stesso Stefano Cascioli, in una nota nel booklet, si accompagna anche la sensibilità propria di chi è demandato a tale compito, ossia all’esecutore stesso, poiché la musica di Pennisi richiede espressamente tale sensibilità, in quanto la sua modernità si regge su quell’aulica idea di classicità, da intendere come dono espressivo, eloquio da porre in risalto.
La presa del suono effettuata da Andreas Schmidtberger al Theater Erfurt nell’omonima città tedesca ha il merito di esaltare il suono dello strumento in questione; in effetti, l’equilibrio tonale è molto pulito, netto, preciso nella restituzione dei registri e nella paletta timbrica, quasi a rendere la china degli acuti e il carboncino dei gravi. La dinamica è altresì corposa, ricca di velocità e di energia, il che avvantaggia il dettaglio, in cui primeggia la matericità dello Steinway. Da ultimo, il palcoscenico sonoro presenta lo strumento correttamente al centro dei diffusori, inserito in una spazialità sonora sufficientemente profonda.
Andrea Bedetti
Francesco Pennisi – Complete works for solo piano
Stefano Cascioli (pianoforte)
CD Stradivarius STR 37167
Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4,5/5