La Missa Novem Vocum di Carlo Alessandro Landini, ovvero quando il sacro si unisce all’estetica
Quando vengo a sapere che un compositore di mia conoscenza ha scritto un’opera di musica sacra, soprattutto una Messa, il mio irrefrenabile desiderio è quello di chiedergli perché lo abbia fatto. Questo perché mi pongo sovente la domanda per quale motivo, ancora oggi, al sorgere del terzo millennio, un musicista senta il bisogno, la necessità di comporre una pagina che abbia il dichiarato scopo di innalzare lo sguardo verso il cielo o per commemorare o ricordare qualcosa o qualcuno. E ciò, senza dimenticare una domanda ben più importante e risolutiva, quella che Adorno si pose all’indomani di Auschwitz, chiedendosi se dopo quanto avvenuto avesse ancora un senso il fare poesia. Sarò anche pessimista, ma osservando il mondo di oggi, o la sua rappresentazione in odor di Schopenhauer, reputo che se l’uomo quotidiano alza gli occhi al cielo lo fa solo per sincerarsi che il tempo non stia cambiando, mentre il senso della rimembranza, da intendere come omaggio e come atto di ammirazione, lo considero ormai scomparso tra le coscienze attuali, strenuamente engagées nel meccanismo perversamente funzionalistico incarnato da questa società.
Così, quando ho chiesto a Carlo Alessandro Landini perché avesse voluto comporre la sua Missa Novem Vocum, il compositore milanese con il suo tipico, disarmante candore intriso d’implacabile logos, rispose che non c’era di base alcun motivo particolare, che la sua pagina sacra non aveva destinatari e neppure un sentore di ricordo o di dediche a uno o più personaggi, a vittime di una strage o di un’ingiustizia. Sapendo benissimo che dietro la facciata del geniale musicista si cela una logica grazia, questa sua risposta non poté non rallegrarmi e rendermi criticamente felice. Sì, felice, poiché le sue parole non volevano comunicarmi un’indifferenza, una dimostrazione di abissale cinismo (sia ben chiaro, Landini può essere anche “cinico”, ma nel senso etimologico e filosofico greco del termine, soprattutto quando lascia briglia sciolta al suo verbo, risultato di una conoscenza sapienziale a tutto tondo), un distacco asettico dal mondo in cui si ritrova a vivere e ad agire, ma al contrario dandomi ulteriore conferma di quanto vado a scrivere e a dire da tempo riguardo la sua figura e la sua opera artistica, vale a dire che l’atto creativo del compositore milanese è soprattutto improntato da una ricerca che sostituisce (o, per meglio dire, abbina) al tempo proustiano la volontà dichiarata, e ciò denota squassante coraggio, di dare un senso squisitamente estetico al suo plasmare suoni e accordi.
Da qui, il suo affermare che la Missa Novem Vocum non ha padrini, non ha dedicatarii, non è stata composta per ricordare chissà quale misfatto o atto mirabolante, rappresenta solo il risultato di un ésprit derivante dal voler dare voce alla creazione in sé di un qualcosa, esaltando la dimensione puramente estetica della quale si ammanta. Ciò può anche rappresentare un’intrigante aporia, se teniamo a mente che la musica sacra rientra a pieno diritto nel vasto e variegato arcipelago, con buona pace della visione hanslickiana, della “musica programmatica”, in quanto scrivere una messa, un mottetto, un oratorio, un Requiem, è un atto artistico che vede al centro degli assi cartesiani un processo creativo che ha sempre una finalità tale da indirizzare l’opera a un’indubbia funzionalità nel momento stesso in cui si rende vocalmente e strumentalmente suono. Finalità che si rivolge a un Dio (quello che ogni credente, in fondo al suo animo, immagina e costruisce attraverso la sua visione del mondo, al di là dei paletti fissati dalle dottrine ecumeniche), a un ricordo o a una commemorazione, perfino a un’idea o a una concezione (ci è voluta quella spugna marina intrisa di spinoziano Deus sive natura che portava il nome di Leóš Janáček, per dare vita a quel sublime inno panteistico che è la Messa Glagolitica, ossia la più bella e commovente di tutto il Novecento storico!). Qui, l’afflato estetico è quello chiarito esemplarmente dall’ultimo punto “programmatico” che Oscar Wilde elenca a mo’ di prefazione in The picture of Dorian Gray, «Tutta l’arte è perfettamente inutile», vale a dire che l’opera artistica per essere esteticamente tale non dev’essere funzionale, non deve attingere da altro o da altri se non da se stessa, facendo passare inevitabilmente in second’ordine o annullando, lo scopo più o meno dichiarato della sua funzionalità per la quale si deve la sua creazione.
Quindi, pur nella sua appartenenza a un genere per così dire “programmatico”, nella Missa Novem Vocum non è contemplato alcun “programma”, in quanto questa pagina sacra vive, si realizza, si manifesta grazie al suo solo esistere (e di ciò Hanslick sarebbe enormemente grato a Landini), poiché il suo compositore ha avvertito unicamente la pulsione, la necessità di non resistere al suo volere creativo. Da qui, si può ben comprendere come questa pagina rappresenti allora una sfida che va a toccare l’ambito compositivo attraverso il suo linguaggio (sul quale tornerò a breve), la sua non-finalità (per i motivi che ho appena descritto) e il desiderio, da parte del musicista milanese, di mettersi alla prova, di tastare nell’ambito della “sfida nella sfida” la possibilità di offrire delle perle alla ristretta categoria dei non-porci, e questo perché non dev’essere mai obliato, da parte di chi si accinge ad ascoltare la musica di Carlo Alessandro Landini, che il suo ascolto è inscindibile dal suo pensare l’ascolto stesso. Al di là dell’ascolto acustico, fisico del suono, la musica di questo musicista continua nel momento stesso in cui la sua fisicità smette di manifestarsi fisicamente in colui che ascolta, poiché il suo costrutto, la sua applicazione come forma, le leggi armoniche che la governano, la sua spietata logicità obbligano l’ascoltatore a pensare ciò che si ammanta dietro ciò che ha appena ascoltato, prolungando di conseguenza a livello speculativo le emozioni e le reazioni che l’opera artistica comporta.
E qui si giunge all’applicazione formale, alle leggi armoniche, di linguaggio, che permeano la Missa Novem Vocum e che, si badi bene, devono dare corpo, spazio e tempo a una composizione, la quale appartiene al principio di questo terzo millennio, che più contemporanea non potrebbe essere. Ebbene, chi si sente musicalmente e creativamente contemporaneo (e una certa musica postweberniana lo dimostra in modo chiaro e inconfutabile) è conscio anzitutto del fatto che la Storia della musica, sia cronologicamente, sia fattivamente, è il risultato di un processo artistico, sociale, culturale e finanche economico che si basa sullo stato evolutivo del contrappunto, ossia la più sublime conquista fatta dall’uomo per ciò che concerne la scienza dei suoni, rispetto al tempo in cui si ritrova ad operare e ad essere espresso. Tale stato evolutivo si estrinseca in un fatidico filo rosso più o meno sotterraneo, più o meno emergente dalle pieghe della storia occidentale, che a volte viene spezzato e necessariamente annodato in un secondo momento, un filo rosso che sorge dall’araba fenice del gregoriano, passando attraverso il filtro dell’ars nova e, infine, ergendosi maestosamente e compiutamente con l’irruzione della scuola fiamminga, madre di tutte le madri.
Parafrasando Bachofen, il contrappunto è il matriarcato sul quale si regge tutto l’edificio della musica colta occidentale, un edificio al quale di volta in volta sono mancati i debiti sostegni, le cui fondamenta sono parzialmente crollate nel corso dei secoli, soprattutto per via dell’uso sistematico dato dai martelli pneumatici del Romanticismo, e che il Novecento storico prima (Paul Hindemith su tutti, dopo aver ricevuto il testimone da parte di Max Reger e Ferruccio Busoni) e alcuni affluenti della musica postweberniana poi, hanno cercato di puntellare e rinforzare. Ora, il fascino che è in grado di irradiare una fetta della contemporaneità musicale attuale sta proprio nel fatto che al bar della Storia la musica antica, rappresentata dal contrappunto fiammingo, e quella moderna, scevra da rigurgiti neotonali, tentazioni minimaliste e masturbazioni sperimentali, riescono nonostante tutto ancora a stringersi la mano, dando modo oggigiorno, a chi intende esteticamente creare, di forgiare opere nelle quali le sirene del sistema modale, quelle che permettono di plasmare il calcestruzzo con il quale edificare il contrappunto, non possano trovare un Ulisse con le orecchie tappate di cera in grado di resistere loro.
Ecco perché la Missa Novem Vocum di Landini rappresenta un’irresistibile sirena posta tra lo Scilla e Cariddi del nostro presente, la cui forma è data dal linguaggio modale, attraverso le nove voci, senza alcuna presenza strumentale (ciao, ciao Romanticismo e tanti saluti a casa), che si tramutano in un mirabile ordito intessuto da altrettanti fili capaci di legarsi, sciogliersi, annodarsi senza per questo risultare gordiani al punto di invocare, da coloro che sanno ascoltare, la lama affilata di un’alessandrina “orecchiabilità” per spezzarli. E, tanto per essere ulteriormente chiari, in tutta la concezione musicale di Carlo Alessandro Landini viene bandita, ostracizzata, ghettizzata ogni tentazione che porti a un ascolto “a presa rapida”, veicolato da dinamiche melodiche e consonantiche tali da portare il suo assioma creativo su una strada in discesa: la musica del compositore milanese, al contrario, tanto per usare una similitudine ciclistica, è fatta per gli scalatori, non per i velocisti.
Se è vero, come ha affermato il già citato Janáček, che la Storia della musica non è altro che la storia di come il principio dissonantico abbia saputo progressivamente penetrare nei gangli compositivi e ricettivi nell’epoca in cui venivano proposti da chi componeva a favore di chi ascoltava, allora è altrettanto vero che la scelta da parte di Landini di utilizzare il linguaggio modale per rendere esteticamente la sua Missa Novem Vocum è per far comprendere anche (e questa può essere l’unica finalità lecita che possiamo riscontrare in essa) il suo rapporto intimo, appassionato, problematico con il divino. Il compositore milanese, attento e sensibile alla spiritualità prima ancora che alla religiosità, si pone di fronte al mistero e alla tentazione della fede così come fecero a loro tempo un Giovanni Testori o un Sergio Quinzio, e non certo un Antonio Rosmini. Un porsi di fronte che ha il sapore agrodolce del dubbio, della riflessione, del “non-dare-per-scontato”, ma investendo la fede stessa di una disamina speculativa che avviene dopo che un credente viene preso sottobraccio da una parte dall’ultimo Carlo Maria Martini e dall’altra da David Maria Turoldo, dalle riflessioni lucide e ardite del primo rispetto all’uomo davanti a Dio e alla Chiesa, e dai pungenti e appassionati versi poetici del secondo, capaci di tradurre il logos umano, accolto dalla sofferenza di un credo che non si ciba della sola certezza.
La non canonica suddivisione delle nove parti della Missa Novem Vocum (Introibo - Gloria Patri - Kyrie - Gloria In Excelsis - Credo - Sanctus - Agnus - Gratias - Benedicamus) non ricalca il modello della tradizionale messa tridentina in latino, anche se ha un indubbio richiamo simbolico, come a rimarcare, ancora una volta, la piena adesione da parte di Carlo Alessandro Landini il quale non riecheggi solo la forma data dalle istanze ecumeniche, ma anche una linea ideale che, partendo dal contrappunto fiammingo, tanto per intenderci quello incarnato da Guillaume Dufay, Josquin Des Prez, Adrian Willaert, Jacob Clemens non Papa, conduca fino a Giovanni Pierluigi da Palestrina e Orlando di Lasso. Ossia, guardando più l’aspetto teologico che quello musicale, a una matrice culturale e antropologica che resta insensibile all’irruzione della Riforma.
Ma il compositore milanese considera, e questo nel campo squisitamente musicale, una propria “Controriforma”, che si attua in un’assoluta purezza armonica in nome della quale il patto tra antico e contemporaneo, sancito dal linguaggio dei modi, è un’ulteriore conferma di quella “classicità” ricercata ed esaltata, nella seconda metà del Novecento, soprattutto dalla scuola veneziana. E, a proposito della gloriosa scuola lagunare, la concezione di Carlo Alessandro Landini, la sua Weltanschauung, più che la sua visione musicale, si ricollega idealmente a quella di un Bruno Maderna, fautore di quell’unione, di quel “patto d’acciaio” tra la musica polifonica del Quattrocento e le ricerche scaturite dalla Scuola di Darmstadt (pochi, nel corso del secolo scorso, hanno conosciuto in profondità e amato la musica antica come il grande compositore e direttore orchestrale veneziano).
Al primo impatto, la Missa Novem Vocum colpisce per la sua apparente asciuttezza espressiva, come se il timbro delle nove voci fosse discretamente rappreso in una dimensione in cui la contemplazione trattiene come un buco nero la densità data dal suono. In tal senso, è paradigmatico l’Introibo iniziale in cui il canto è un disincarnato calarsi e innalzarsi con un andamento quasi ipnotico, cullante, una sorta di liquido amniotico nel quale i registri acuti e gravi vocali sedimentano, attendendo lo sviluppo della loro sostanza formale. Lo strappo avviene con l’irruzione del tenore che declama il Gloria Patri, dando origine al conseguente pulsare corale, stimolato dall’elettrochoc contrappuntistico, il quale dà forma a una rotondità sonora, con le voci che idealizzano dei cerchi concentrici nell’alternarsi dei registri femminili e maschili. Vi è quindi un apparato geometrico che governa il tutto (la stessa geometria celestiale che struttura il Paradiso dantesco), con la proiezione della circolarità temporale, ergo assoluta e infinita, che viene simboleggiata ancora dal tenore nella chiusura del Gloria Patri.
La potenza strutturale del linguaggio dei modi è testimoniata dal Kyrie: timidezza e dolcezza, un atto di gioia che non diviene mai significativamente tale, incapsulata in un guanto di lattice, essenza alchemica che richiama la volatilità della perfezione materiale un attimo prima che diventi spirito; lo sguardo delle voci è rivolto in alto, ma non è fisso nel vuoto, quasi perpetuato in una struggente ricerca, con le linee geometriche che si tramutano in pura liquidità in una curva senza fine, che porta la chiusura del Kyrie ad assaggiare ancora il placebo ricco di nutrimento dell’Introibo iniziale, una sorta di cocoon primordiale, fonte di una vita biologicamente ancora intatta. Potenza del modale che può essere tranquillamente confrontata con lo splendido, ma rassegnato, linguaggio tonale che sovrintende un’altra Messa a nove voci, quella eminentemente barocca del bolognese Giovanni Paolo Colonna, i cui ottani armonici rendono fin troppo lussureggiante il carburante vocale e il propellente strumentale di cui si avvale; al contrario, la sconfinata essenzialità dei modi orditi da Landini sono altrettante rotte sonore con le quali cabotare i contorni polifonici, al punto da trasformare il Kyrie in una olografia da trafiggere con l’ascolto.
Finora c’è stata luce debitamente polarizzata per permettere all’animo dell’ascoltatore di abituarsi agli spazi sonori in cui è solito agire il compositore milanese; ora, paradossalmente, con il Gloria In Excelsis è il caso di togliersi gli occhiali da sole per prendere confidenza con i propilei della penombra timbrica data dalla proiezione gotica dell’edificio sonoro. Le luci bisogna rincorrerle nelle sacche d’ombra. Gli accenni dissonantici tendono a portare in superficie le profezie armoniche di un Béla Bartók che ha dimenticato di portare con sé il martello, scegliendo invece un bulino con il quale intarsiare la plasticità della materia sonora (i glissandi che si affacciano riportano alla mente l’incantato incipit del britteniano A Midsummer Night’s Dream), tale da portare la chiusura del brano a una dimensione dolcemente e spettralmente disincarnata.
Solo affrontando l’ascolto del brano che ne consegue, ci si rende conto che il Gloria In Excelsis è stata la zolletta di zucchero impregnata con alcune gocce di vaccino per contrastare l’irruzione del Credo, che per lo stridor di denti dissonantico del quale si fa vanto, rappresenta una poliomielite resa suono. Con i suoi quasi venti minuti di durata, il Credo è meravigliosamente annichilente, proscenio desolato, regno ctonio, dal quale sorgono i Quelli-di-prima magistralmente descritti da Howard Phillip Lovecraft nel suo ciclo di Cthulhu. Mi piace immaginare che un maestro del coro, con sommo e incosciente coraggio, potrebbe chiedere alle nove voci di enunciare questo brano tenendo lo sguardo verso il basso, verso la terra e il suo humus, per rimirare gli effetti che la dissonanza, unitamente al contrappunto, riescono a produrre. Dov’è il divino? Dov’è la mano del servitore posta sotto la coscia di Abramo? Perché il Credo di Carlo Alessandro Landini è il concretizzarsi di quanto scrisse Gustave Flaubert: «C’è stato un tempo in cui l’uomo, dopo la morte degli dèi e prima dell’avvento del Cristo, si è ritrovato da solo», come a dire che a prendere il sopravvento è un canto che va incontro alla propria ombra, poiché la prima parte del Credo è un’iperbole che si evira, un proiettile di obice che ricade stancamente sull’ordigno che l’ha proiettato inutilmente nel cielo (al teologo svizzero Hans Urs von Balthasar, il quale ha scritto che l’inferno esiste ma è vuoto, a testimonianza della bontà di Dio, indirettamente ha risposto George A. Romero, che nel secondo capitolo della trilogia dedicata agli zombie, fa dire a un sacerdote con la gamba di legno «Quando l’inferno sarà pieno, i morti torneranno a camminare sulla terra»). Eppure, a soccorrere la speranza dell’ascoltatore concorre la svolta, il mutamento che nella seconda metà del Credo, dove gli elementi dissonantici vengono stemperati ancora dalla rotondità, dalla circolarità (nella sua opera lirica in tre atti Genesi, Franco Battiato fa cantare alla fine alle voci soliste e al coro Gloria gloria curva / in excelsis Deo / Gloria alleluia / Gloria nella curva) non più concentrica bensì centripeta delle voci, capaci di assemblare un andamento miracolosamente ritmico, con il ritorno consolante e cullante dei glissandi.
E se il Sanctus è il ritorno di un’azione lenitiva, capace di innalzare ancora gli occhi delle voci al cielo, contrassegnate da un timbro che cerca di trasmettere l’attonito di colui che è reduce dalle tenebre e che ha ancora la forza di cercare(amare Dio non è forse cercarlo?), l’Agnus è il progressivo ritorno a quella contemplazione timbrica che aveva contraddistinto la prima parte della Missa Novem Vocum, un nirvana armonico dal quale emergono le voci femminili (simbolo di purezza) rispetto a quelle maschili (simbolo di dispersione), galleggiando su un placido mare di serenità distaccata, come se l’uomo volesse cercare nella fede la necessità di un riposo che manca da tanto tempo, con le voci che ancora una volta divengono magmaticamente ipnotiche. Il Gratias sorprende per le ventate che all’inizio hanno il profumo dei madrigali monteverdiani, anche se poi la chiusura data dal Benedicamus riporta la proiezione spaziale e formale dell’opera a quella rigorosità che aveva trasmesso fin da subito il suo DNA; le voci ora trasmettono un’indubbia verticalità e l’edificio sonoro viene progressivamente investito da una solarità che è totale accettazione, tale da dare adito a vorticismi timbrici che idealmente ascendono verso il cielo, con l’ascolto che permette di respirare gli effetti benefici di un aerosol dal quale fuoriesce un flusso ininterrotto di serenità.
Andrea Bedetti