La filosofia del registro medio-grave in Brahms
Disco del mese di Luglio 2023
Potrà sembrare strano, visto che stiamo parlando di un dio, almeno per me, ma capitò spesso che Johannes Brahms dovesse essere stimolato, quasi pungolato, per dare vita ai suoi capolavori cameristici, grazie a pressioni, a vere e proprie sollecitazioni da parte di musicisti che desideravano vedere il genio di Amburgo creare opere per i loro strumenti. Così, anche le due Sonate per violoncello e pianoforte, la prima in mi minore op. 38, la seconda in fa maggiore op. 99, separate nella loro composizione di quasi venticinque anni (l’op. 38 fu scritta tra il 1862 e il 1865, l’op. 99 durante la “magica estate” del 1886), videro la luce grazie all’interessamento di due artisti, rispettivamente l’insegnante di canto e violoncellista dilettante Josef Gänsbacher, il quale si era adoperato affinché Brahms ottenesse nel 1863 l’incarico di direttore della Wiener Singakademie, e il violoncellista del leggendario Quartetto Joachim, Robert Hausmann.
Fornendo qualche nota sulla creazione di questi due capolavori, c’è da ricordare che la Sonata n. 1 ebbe una gestazione più lunga e anche più problematica, con i primi due tempi, oltre all’Adagio affettuoso in seguito eliminato per essere riproposto ventiquattro anni dopo nell’op. 99, che risalgono al soggiorno estivo del 1862 a Münster am Stein, mentre il finale al soggiorno del 1865 a Lichtental, nei pressi di Baden-Baden. La problematicità di questa composizione risiedette nel fatto che all’epoca Brahms era ancora alla ricerca di un proprio “stile” in ambito cameristico, fissato progressivamente sul registro medio-grave degli strumenti chiamati in causa (e che, in questo caso, trova un perfetto connubio tra la voce del violoncello e quella del pianoforte). Ma se lo stile è, per così dire, ancora in progress, la capacità di distribuzione dei ruoli, la caratura del dialogo e la sapienza nel miscelare l’interazione tra i due strumenti sono di altissima levatura. E poi, quasi immancabile, la presenza di precisi riferimenti alla grande e solenne tradizione del passato, che in questo caso viene fissata dal compositore amburghese nell’esplorazione di due precisi passaggi del bachiano Die Kunst der Fugue, visto che il tema principale del primo tempo, l’Allegro non troppo, trae spunto dal soggetto del Contrapunctus 4, mentre quello del finale, l’Allegro, che rappresenta un mirabile punto d’incontro tra la fuga e la forma di sonata, ricalca il soggetto del Contrapunctus 13. Il tempo centrale, l’Allegretto quasi menuetto, si ricollega idealmente all’epoca classica, con un’affinità che può essere colta con una sonata, opera del violoncellista e compositore tedesco Bernhard Romberg, che Brahms prese quale modello e fonte d’ispirazione nel trattamento della struttura violoncellistica. Questo tipo di accostamento, di richiamo continuo a un remoto o prossimo passato, fa in modo che l’intera Sonata sia imbastita, agglomerata, unita dalla presenza distinta di tre tempi capaci di vantare una loro precipua autonomia stilistica: se il primo tempo colpisce e affascina per la sua oscura eloquenza (il famoso “stile” basato su un registro medio-grave), quello centrale sembra assumere una valenza metatemporale, per via di un’eleganza che non appartiene di certo all’epoca romantica; infine, nell’ultimo tempo, la severa lezione contrappuntistica, il senso di una costruzione perfetta, sublimemente bilanciata nel suo rigore logico.
Il sentiero tracciato dall’op. 38 fu poi ripreso e rinsaldato grazie alla creazione di quel capolavoro assoluto che è l’op. 99; dobbiamo ringraziare Hausmann, come si è accennato, per il quale Brahms scrisse nel 1887 anche la parte di violoncello del Doppio Concerto op. 102. Hausmann già nel 1884 aveva richiesto a Brahms di comporre una seconda Sonata violoncellistica a Brahms, un desiderio che il sommo compositore esaudì solo due anni dopo, durante l’estate trascorsa in Svizzera, a Hofstetten, sulle rive del lago di Thun, con il violoncellista berlinese e l’autore stesso che presentarono in prima assoluta l’opera il 24 novembre di quello stesso anno a Vienna.
Quel sottile equilibrio distintivo che aveva contraddistinto l’op. 38 viene ulteriormente scolpito nell’op. 99: se il primo tempo, l’Allegro vivace, si caratterizza per via di una geniale concisione resa attraverso uno straordinario flusso impetuoso, il secondo tempo, un Adagio affettuoso, è intriso di una sublime intensità espressiva, che lascia poi spazio, nell’Allegro passionato, a un’implacabile energia, mentre il finale, l’Allegro molto, è un incanto in cui la sua cifra liricheggiante sembra quasi stemperare la grandiosità formale e stilistica di quanto lo aveva preceduto. Ancora una volta, quella ricerca di stabilità dialettica, di assenza di sterile antagonismo tra i due strumenti, rinforzata da uno stile supremamente conquistato da parte di Brahms nel registro medio-grave, permette di ammirare una sorta di “intima solidarietà” che si viene a creare tra il violoncello e il pianoforte, una solidarietà capace di ispessire, potenziare, ampliare a dismisura la volumetria timbrica, da far pensare, ormai, a un suono orchestrale che fa irruzione nella cornice cameristica.
Questi due capolavori sono stati registrati da una coppia di artisti ormai pienamente collaudata, la violoncellista e gambista valdostana Matilda Colliard e il pianista milanese Stefano Ligoratti (leggi qui la loro intervista), in un CD pubblicato recentemente dalla Da Vinci Classics. Certo, la discografia relativa all’op. 38 & op. 99 è, a dir poco, cospicua e vanta gemme assolute, ma la registrazione del duo Colliard & Ligoratti, lo anticipo subito, non è da meno, anzi. Cominciamo con un aspetto che mi sta particolarmente a cuore e del quale ho già scritto sopra: il grande fascino che la musica cameristica del genio amburghese riesce a esprimere andando a toccare, a solleticare, a smuovere il registro medio-grave e che trova nel violoncello uno strumento a dir poco ideale. Fin dal primo impatto timbrico, il suono del violoncello usato da Matilda Colliard, un Riccardo Bergonzi del 2011, con archetto di Emilio Slaviero, risulta essere a dir poco ideale nel riproporre tale assunto tecnico/estetico.
Quando Brahms cominciò la stesura dell’op. 38 non aveva ancora trent’anni, ma non mi stanco mai di chiedermi che cosa avesse già potuto maturare allora per offrire all’ascoltatore un incipit così abissale, così carico di quella nostalgica malinconia che ammanta l’intera struttura del primo tempo, nel quale l’eloquio discorsivo e il sottile fraseggio devono fare incessantemente i conti con quel continuo richiamo dato dal registro medio-grave che necessita di una delicata “vellutatezza” capace, però, appena la partitura lo indica, di innalzarsi a proclami timbrici che sembrano, in realtà, grida disperate. Una delicatezza e impennate timbriche che il violoncello deve dominare enunciandole; e qui subentra Matilda Colliard, la quale con naturalezza indossa i paramenti del suo strumento, dando inizio a una mesta processione sonora, condita da momenti di pacata solitudine. Istanti che ogni interprete che si ritenga tale deve affrontare e districare con sovrumana naturalezza espressiva, poiché solo così l’inespresso che si cela tra le note brahmsiane può essere evocato: lei ci riesce perfettamente, cogliendo sempre l’attimo dell’indugiare, tramutando il suo violoncello in una dimensione temporale in cui la stasi si unisce con il movimento.
Dolorosa passione, questo è il nome e il cognome che sono iscritti nel passaporto di questa composizione, con la foto che ha le fattezze del primo, colossale tempo, manifesto programmatico di una psiche già scolpita nei tratti distintivi di ciò che poi sarà: il sentiero è tracciato e la violoncellista valdostana lo percorre tutto, con coraggio e anche con un’insana dose di incoscienza, sul filo di letali cavate e passaggi che trasudano di sofferenza in cerca di lenimento (ho sempre ritenuto indispensabile, in chi interpreta e “decodifica” la musica di Brahms, il dono del dolore personale e, senza nemmeno avvicinarmi alla privacy di Matilda Colliard, posso arguire che il dolore, sotto questo aspetto, non le sia sconosciuto).
Un dolore che, nelle fattezze di uno spettrale Minuetto, espone magnificamente, in punta di archetto, attraverso il déroulement del secondo tempo, giocato sulla lama di un’agogica che i casi sono due: o riesce nell’impresa di uscire indenne dal campo minato che ha voluto scegliere, oppure la vengono a raccogliere pezzetto a pezzetto; ebbene, siamo felici che sia arrivata fino all’incipit del finale sana e salva, dove ad accoglierla sono gli slalom tra i piani cartesiani di quella perfezione chiamata contrappunto nel quale il genio amburghese trovava rifugio e accettazione. Ora, la cosa che mi ha colpito maggiormente è stata come Matilda Colliard abbia saputo aggiungere due ingredienti che nella ricetta originale spesso non vengono messi nelle dosi richieste, ossia sentimento e un pizzico di ironia (chi soffre non può farne a meno), in modo da far sì che la struttura contrappuntistica perda una sempre pendente rigidità formale, e facendo sì che il suo strumento, tramutatosi in una meravigliosa Husqvarna 701, con la quale impennare senza danni, possa addentrarsi nelle montagne russe che innervano questo travolgente, geniale finale.
La lettura riguardante l’op. 99 non è meno convincente rispetto a quella dell’op 38. Qui la resa deve vantare un piano lirico sul quale vanno ad innestarsi quelle irradiazioni propulsive di sviluppo che tanto affascineranno in seguito Arnold Schönberg quando le racchiuderà nell’espressione entwickiende Variation (variazione evolutiva), risultato di una vera e propria spinta cinetica in Brahms. Ci vuole enorme chiarezza d’intenti, sottigliezza espressiva, ardore e padronanza della materia e Matilda Colliard, con il suo violoncello, ce le elenca una per una, dando forma a uno stato di continua tensione, in piena collaborazione con il pianoforte, soprattutto nelle isole che compongono il placido arcipelago della stasi che costella il primo tempo. E poi anima, tanta anima che deve sgorgare dall’Adagio affettuoso che segue, nel quale il violoncello fa la parte del leone. Un’anima intrisa di tenerezza, ma sempre accompagnata da una linea d’ombra, che l’artista valdostana manifesta con soave delicatezza, per poi abbandonarsi a imperiosi pizzicati che fanno da metronomo interiore, prima di abbandonarsi in un colloquio intimista con il pianoforte (qui la cantabilità dello strumento ad arco non è mai intinta nella melassa, ma vanta quasi un accenno di fiera virilità, un proporsi in modo per così dire “eroico”, anche se non viene mai meno un languore emotivo, reso altrettanto magnificamente). E se l’Allegro passionato vede l’interprete in perfetto equilibrio tra la dimensione ritmica (sollecitata dal pianoforte) e l’andamento dell’elaborazione tematica, il tempo finale, costruito con l’impalcatura di un Rondò, ci mostra una Matilda Colliard capace di restituirlo con una grazia di tocco davvero rimarchevole, poiché le sottigliezze psicologiche (ed ironiche) non mancano e vanno puntualizzate una ad una, per far sì che il dialogo con il pianoforte risulti essere più efficace.
Capitolo Stefano Ligoratti: personalmente lo considero uno dei musicisti più intelligenti e preparati in Italia per quanto riguarda il repertorio romantico di lingua tedesca, una preparazione e un’intelligenza che gli permettono di ritagliarsi un ruolo determinante quando affronta il repertorio cameristico, poiché con il pianista milanese la tastiera non accompagna, bensì guida. Significa che la padronanza della materia musicale, a livello tecnico e a livello espressivo, è tale che un ascoltatore debitamente preparato, riesce a “leggere” con le orecchie quanto eseguito al pianoforte. Nel caso specifico di questa registrazione, Ligoratti ha voluto optare per uno Steinway D 1888 (che fa parte della collezione del restauratore Marco Barletta), il cui suono ha la capacità di non entrare in competizione con quello del violoncello, ma di assecondarlo senza rinunciare a una propria identità timbrica. Ascoltando più volte la registrazione, mi sono reso conto che il volume sonoro promosso da questo Steinway è meno pervasivo di quello di uno Steinway moderno, ma molto più aggraziato, netto nella sua rotondità, capace di sfoderare energia alla bisogna, così come di lavorare come un bulino nei momenti in cui le sfumature devono essere dettagliate. Con tali caratteristiche è ovvio che tale duttilità si presti ottimamente per poter dialogare/enunciare, caratteristica precipua del pianismo brahmsiano in chiave cameristica, soprattutto quando l’altro strumento è un violoncello, il cui registro medio-grave non dev’essere “annacquato” da quello acuto del pianoforte.
Ma, a parte tali aspetti di ordine tecnico, ancora una volta la lettura di Stefano Ligoratti mi ha semplicemente affascinato per via di una lucidità interpretativa in cui calare il suono del pianoforte rispetto a quello del violoncello; ecco dove risiede la differenza tra il semplice “accompagnare” e il più complesso e delicato “guidare”, ossia condurre l’intero piano musicale anche quando l’apporto del pianoforte è ridotto veramente al minimo. È il principio di un’assertività capace di stimolare anche l’altro interprete, permettendo così al dialogo, al confronto, allo scontro stesso, al prendere e lasciare, all’intromettersi e all’abbandonare (si noti come tutto ciò sia presente soprattutto nella scrittura dell’op. 99) di materializzarsi sonoramente su alti, altissimi livelli. Un’ultima considerazione: non posso fare altro, ogni volta che ascolto Ligoratti, di soffermare la mia attenzione sulla sua prodigiosa pulizia di tocco, di articolazione, di chiarezza nel processo di enunciazione pianistica, la quale, però, non è da rinchiudere nel recinto della tecnica fine a se stessa, ma come un nucleo primigenio dal quale poi si espandono le radici del dono dell’espressività, di una tecnica, dunque, al servizio del mistero ermeneutico.
Quando vorrò tornare al cuore, al dolore, all’inespresso che si celano in Brahms, non dovrò fare altro che ascoltare questa registrazione.
Disco del mese di luglio 2023 di MusicVoice.
Torno a parlare ancora di Stefano Ligoratti, questa volta nelle sue vesti di ingegnere del suono, visto che ha curato la presa sonora di questa incisione. E che il pianista milanese abbia le idee molto chiare anche in questo campo, lo si evince ascoltando ciò che è riuscito a fissare. La dinamica è un concentrato di trinitrotoluene, tale è la sua esplosività e la sua velocità (il decadimento degli armonici è pressoché perfetto, sia nel violoncello, sia nel pianoforte), senza che tali prerogative ipervitaminiche vadano a ledere o a scalfire la naturalezza del suono. Ne consegue una sontuosa ricostruzione del palcoscenico sonoro che vede stagliarsi nello spazio sonoro, su un piano leggermente più avanzato, il violoncello e con il pianoforte che si materializza in una posizione più arretrata, donando in questo modo la visione di una profondità di campo perfettamente conchiusa nel raggio d’azione dei diffusori. Rispetto a ciò che si è già scritto sopra relativamente al tipo di pianoforte utilizzato, il parametro dell’equilibrio tonale assume i canoni di un trattato di audiofilia, in quanto la pulizia dello scontorno del registro dei due strumenti è tra i migliori che abbia ascoltato negli ultimi anni in chiave discografica: nemmeno una minima invadenza dell’uno sull’altro e viceversa, nessuna pur piccola sbavatura nella riproposizione del registro medio-grave (soprattutto nel violoncello) e di quello acuto. Infine, il dettaglio non solo è espressione di matericità allo stato puro, ma la quantità di nero che circonda i due strumenti è tale che anche a volumi di ascolto particolarmente alti, non si avverte la minima fatica di ascolto.
Andrea Bedetti
Johannes Brahms – Cello Sonatas
Matilda Colliard (violoncello) – Stefano Ligoratti (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00676