La banalità della semplificazione
Il nostro presente comporta un ascolto della cosiddetta musica classica che risulta essere sempre più conflittuale e problematico. Questo perché l’epoca che viviamo impone, sotto molteplici aspetti, un processo di assimilazione di quanto ci circonda in modo sempre più frenetico, dal consumo dei beni fino alle tecniche di apprendimento. Tutto dev’essere fatto sui principi di una velocità che non ammette repliche (in tal senso, risultano a dir poco profetici gli studi del filosofo e urbanista francese Paul Virilio sulla dromologia, ossia la scienza che prende in esame la logica della velocità) e che inevitabilmente è portata a stravolgere tutto ciò che tocca, come un blasfemo Re Mida.
Al contrario, la cosiddetta musica classica (termine a dir poco orripilante, lo ammetto, che non dice assolutamente nulla al punto che anni fa Quirino Principe propose di sostituirlo, almeno per ciò che valeva per la lingua italiana, con quello di “musica forte”, per contraddistinguerla dalla musica leggera o da quella che, usando un’espressione inglese, può essere definita easy-listening music), richiede un uso del tempo completamente diverso, il quale non contempla non solo il concretizzarsi temporaneo del concetto di tempo stesso (ma qui entriamo nel periglioso campo della filosofia della musica ed è quindi meglio non complicare ulteriormente il tutto), ma soprattutto impone tempi di assimilazione, di comprensione e di fruizione che vanno inevitabilmente a cozzare con il principio tirannico e onnipresente della velocità.
Purtroppo, il nostro tempo è semplicemente antitetico a quanto afferma quel gioiello assoluto che è il Qohelet, il libro biblico dell’Ecclesiaste, che non cessa mai di ricordarci che «ogni cosa ha il suo tempo», il che significa che il tempo dev’essere rispettato, amato e persino invocato quando si applica all’oggetto in cui viene investito, affinché l’oggetto stesso, in quanto tale, possa realizzarsi per ciò che è e che sarà (come dicevano i nostri nonni, bisogna sempre “dare tempo al tempo”).
Quindi, si può capire bene come il processo di avvicinamento di coloro che non conoscono nulla della “musica forte” nei confronti di questo genere (ma che non bisognerebbe vergognarsi di considerare alla stregua di una vera e propria categoria di aristotelica memoria, in quanto tale espressione artistica ci aiuta a capire meglio i modi e le qualità dell’essere e la maniera in cui l’uomo lo vede e lo interpreta) possa oggigiorno risultare oltremodo complesso, termine, quest’ultimo, particolarmente antipatico e indigesto per coloro che adorano il dio del “tutto e subito” in nome del quale lo “spirito santo” della velocità tutto consacra, liofilizzando la realtà che ci circonda ad usum populi.
Sulla base di ciò, l’esperienza e il buon senso mi hanno insegnato (ma il mi dovrebbe essere sostituito da un più sano e opportuno ci) a diffidare, come proferì Virgilio attraverso la bocca di Laocoonte, questa volta non dai Greci e dai loro doni, ma da quella manualistica o saggistica spicciole che si pongono l’obiettivo di stimolare l’interesse, o quantomeno la curiosità, dell’ascolto della “musica forte” in coloro che se ne sono finora tenuti alla larga, vuoi per un senso di sudditanza, vuoi perché, sebbene invogliati dalla sua incontestabile bellezza e pregnanza, per ignoranza (nel significato latino del termine) non sanno da che parte iniziare, ossia da quale porta entrare. Tale diffidenza si acuisce quando questi testi “introduttivi” provengono da una cultura, come quella anglosassone, la quale, non dimentichiamolo, è la patria del pragmatismo e, come diretta conseguenza, di quella manualistica for dummies, ossia consacrata a beneficio degli stupidi, un calderone nel quale si trovano libri che spiegano come aprire scatole di conserva senza farsi male (non scherzo), fino ad arrivare a quelli che dovrebbero insegnare a capire la filosofia heideggeriana in “bigini” di un centinaio di paginette. Una manualistica che fa del semplicismo a tutti i costi, e non potrebbe essere altrimenti, la sua ostentata bandiera.
E questo vale, purtroppo, anche nel libro in oggetto, ossia Un anno con Mozart, pubblicato nel nostro Paese dalla Neri Pozza Editore, e scritto dall’inglese Clemency Burton-Hill la quale è, come si legge sul web, “autrice, romanziera, giornalista e violinista”, oltre a un passato di attrice. Il libro in oggetto si prefigge di presentare a neofiti, curiosi e ascoltatori di altri generi musicali per ogni giorno dell’anno la scheda riguardante un brano di musica classica (il titolo originale dell’opera è Year of wonder: classical music for every day), ossia una sorta di “lunario musicale”, un Frate Indovino delle sette note. E fin qui, nulla di male, anche se un’operazione editoriale del genere può risultare maledettamente difficile, ma non impossibile, da fare senza cadere in luoghi comuni, approcci illogici e presentando in modo fin troppo ovvio un genere musicale, come quello della musica colta (“forte”) che, per i motivi accennati sopra, si discosta forzatamente dagli altri generi relativi all’arte dei suoni.
Fin dall’introduzione, l’autrice afferma aspetti che non mi convincono per nulla, a cominciare da quello, abusato, trito e ritrito, biecamente politically correct, secondo il quale la musica sarebbe il linguaggio più universale che esista. Ebbene, questa melensa affermazione può sussistere, sempre che possa essere suffragata, nel momento stesso che essa presenti un impianto melodico o ritmico tale che possa fare da inderogabile pontifex tra l’opera o motivo musicale e il fruitore, il quale, pur appartenendo a una cultura, a una società (o civiltà) del tutto estranee o antitetiche alla musica stessa che ascolta, riesce ad accettarla emotivamente (non dico comprenderla, poiché questa è tutta un’altra faccenda) se la melodia o il ritmo insiti in essa riescono ad aprirsi un varco attraverso la cortina di imprinting culturale del quale egli è imbevuto. Altrimenti, se tali prerogative vengono a mancare, la presunta universalità del linguaggio musicale va a farsi benedire, come hanno potuto accertare sul campo antropologi, sociologi e musicologi. A volte, perfino la presenza di una melodia non riesce nemmeno a creare tale “ponte di collegamento”, come dimostra l’esperimento condotto su alcuni indios amazzonici, che avevano già avuto precedentemente contatti con l’uomo bianco, quando fu fatta ascoltare loro la registrazione di alcuni passaggi della Sinfonia Corale di Beethoven, che li portò a reagire con atteggiamenti di costernazione e, addirittura, di spavento di fronte a suoni che non riuscivano a metabolizzare e ad accettare (chi ha visto il film Fitzcarraldo di Werner Herzog capirà meglio che cosa intendo e, senza il bisogno di leggere quel meraviglioso libro che è L’istinto musicale. Come e perché abbiamo la musica dentro scritto dal fisico inglese Philip Ball, il quale smonta tra l’altro annose panzane e leggende metropolitane come, per esempio, che le mucche producono latte più buono ascoltando la musica di Mozart, può semplicemente leggere il post La musica universale e le mucche del West Bengala [https://www.ilpost.it/cesarepicco/2012/01/30/la-musica-universale-e-le-mucche-del-west-bengala/] per capire come quest’altra panzana dell’“universalità” del linguaggio musicale centri come i cavoli a merenda).
A parte ciò, alla fine dell’introduzione l’autrice fornisce anche un consiglio su come devono essere ascoltati i brani tratti dalle 366 opere di oltre 240 compositori che ha inserito in questo lunario, scrivendo testualmente: «Scaricatele sul telefono e ascoltatele mentre andate e tornate dal lavoro; portatele con voi in palestra; mettetele in sottofondo mentre preparate la colazione dei figli prima della scuola; trasformatele nella vostra colonna sonora mentre preparate la cena, vi versate qualcosa da bere, vi riposate o lavate i piatti, stirate, rispondete alle mail, o qualunque cosa dobbiate fare nel momento in cui finalmente premete il tasto “play”». Ecco, invece, una cosa da non fare, e questo a beneficio soprattutto dei neofiti, i quali non devono essere abituati ad ascoltare Bach o Schubert mentre pelano le patate o si fanno la doccia, poiché la “musica forte”, non solo per essere compresa, ma anche accettata in quanto tale, abbisogna di precisi meccanismi di ascolto, che esulano dal semplice sottofondo.
Un aneddoto servirà a capire meglio quanto affermo: una volta, parlando con Franco Battiato, il musicista siciliano mi raccontò che un giorno, impegnato a dipingere una ceramica, aveva la radio accesa mentre trasmettevano quello che viene considerato il concerto violinistico più bello e struggente di tutto il Novecento, ossia quello di Alban Berg, il quale, però, vanta una struttura armonica in cui sono presenti anche elementi del linguaggio seriale che non facilitano di certo un ascolto da “sottofondo”, al punto che Battiato, irritato [sic] da quanto proveniva dall’apparecchio radiofonico, decise di spegnerlo, poiché in quel momento “lo infastidiva” [sic]. Ora, sulla base di ciò, mi chiedo come si possano ascoltare brani, che l’autrice inserisce nella sua playlist ideale per neofiti, come il Langsamer Satz di Webern, l’Ave Maria di Łukaszewski, le 12 Notations pour piano di Boulez, i Concert Etudes op. 40 di Kapustin, la Déploration sur la Mort de Jean Ockeghem di Josquin des Prez, le Metamorphosen di Richard Strauss, il Quatuor pour la fin du temps di Messiaen, i Tre inni sacri di Schnittke, la Sonata n. 1 di Berg, tanto per fare qualche esempio, come musica da ascoltare mentre si prepara la colazione per i pargoli o si sta stirando.
Ciò che intendo dire è che se l’autrice universalizza, tanto per cambiare, il processo d’ascolto, in realtà esistono diversi tipi di ascolto, alcuni dei quali sono ideali per attuare una fase di “sottofondo” (penso alla ambient music o music for airport di Brian Eno), ma altri richiedono, vuoi per la loro complessità, vuoi per la loro profondità (come dimostrano i pezzi che ho preso come esempio dal libro dell’autrice) un tipo di ascolto che dev’essere indirizzato e totalizzato nel corso della musica stessa, non facendo altro. Perché ciò porterebbe a snaturare non solo l’ascolto, ma la stessa musica, ottenendo come risultato, come disse per l’appunto Battiato, perfino una reazione irritante nei confronti dell’opera musicale che si sta ascoltando, la quale si sente rifiutata da un non ascolto adeguato.
Al di là del fatto che il libro è stato scritto e indirizzato principalmente per un pubblico anglosassone, su più di 240 compositori presi in esame poco meno di settanta sono per l'appunto di lingua inglese (mi chiedo che cosa possa recepire un lettore italiano o di altri Paesi di fronte a brani come il canto tradizionale My love is like a red, red rose, che viene cantato durante la ricorrenza inglese della Burns Night, il canto tradizionale irlandese Ar hyd y Nos, oltre a Lay a garland dello sconosciuto compositore di Bristol Robert Lucas de Pearsall e come il neofita possa essere invogliato ad ascoltarli in quanto brani “classici”), ci sono poi delle affermazioni da parte dell’autrice che possono risultare alquanto fuorvianti, come quando per esempio scrive nella scheda del 3 aprile, presentando l’Intermezzo in si bemolle minore, op. 117 n. 2 di Johannes Brahms, che il genio amburghese scrisse musica allegra. Allegra? Semmai Brahms ha scritto musica tragica, nel senso nietzschiano del termine, ossia una musica aderente all’essenza dell’uomo, e questo può essere percepito perfino nelle sue pagine più “leggere”, dove si avverte un sentore che si rifugia nella penombra, tipico di un uomo che inseguì per tutta la vita una felicità che non riuscì mai a raggiungere. Oppure, quando nella scheda del giorno 12 febbraio, presentando la terza delle sei Consolations pianistiche di Liszt, scrive “ermeticamente” solo queste parole: «Siamo a metà febbraio. Lasciatevi consolare da questo brano», senza aggiungere altro. Oppure, nella scheda dedicata al 31 marzo, quella in cui ricorre la nascita di Johann Sebastian Bach, presentando O Jesu Christ, meins Lebens Licht, BWV 118, in cui si limita a scrivere testualmente: «J.S. Bach è nato in questo giorno. Ripeto: J.S. Bach è nato in questo giorno. Prima che io esali l’ultimo respiro, piena di gratitudine dinanzi a questa luce della mia vita, ascoltiamo il brano e facciamo un brindisi all’uomo che, in campo musicale, ci ha dato tutto». Magari, oltre a brindare con spumante o champagne, sarebbe stato il caso di spiegare un po’ meglio questo meraviglioso brano, il quale, tra l’altro, è una cantata funebre, quindi poco adatta per ricordare un così eccelso genetliaco.
Certo, a dire il vero, non mancano pagine e schede più “formative”, più dettagliate, soprattutto in fatto di curiosità (però tra le quaranta musiciste prese in esame, Clemency Burton-Hill non prende in considerazione nel panorama dell'Ottocento, a differenza di Clara Wieck, sopravvalutata spesso come compositrice, e di Fanny Mendelssohn, un'autrice geniale come la francese Marie Jaëll), ma il filo conduttore non appare omogeneo, quasi fosse il frutto di un’onda sinusoidale, tanto per restare in tema musicale, tale da non fornire un quadro sufficientemente esaustivo, nella sua forzata stringatezza, di ciò che è la cosiddetta musica classica in formato liofilizzato. E il risultato è un quadro banale, poiché tende a banalizzare la ricchezza, la profondità di un genere o, per meglio dire, di un’arte assoluta come può esserlo quello incarnato dalla “musica forte”; non si può consigliare a una persona del tutto digiuna di questo tipo di musica di ascoltarla come se fosse una playlist da scaricare e da consumare al momento, magari alternando il tempo di una sonata pianistica di Schubert ad un brano tratto da X Factor. Non è questa la via giusta per incuriosire o interessare, così come quella, evidenziata da parte dell’autrice nel corso del libro, che la musica classica merita di essere scoperta poiché è stata fonte di ispirazione per la musica pop e quella rock.
Ho accennato prima al fatto che scrivere un testo introduttivo che permetta di apprezzare e amare la musica classica è difficile, ma non impossibile. Lo dimostrano, a titolo di puro esempio, due testi: Gli immortali, scritto da Giorgio Pestelli, che raccoglie gli articoli della rubrica settimanale che il musicologo e storico della musica tenne su Ttl, il supplemento culturale de La Stampa di Torino, e in tempi più recenti Lunario della musica di Carlo Boccadoro, il quale, oltre ad essere uno dei maggiori compositori italiani attuali, è anche un apprezzato e arguto divulgatore, che ha presentato per ogni giorno dell’anno, proprio come fatto da Clemency Burton-Hill ma con ben altri risultati, una registrazione discografica ineludibile, non limitandosi solo alla musica classica, ma coinvolgendo anche il jazz e capolavori del rock, creando così un filo unitario, evidenziando i dovuti accostamenti, le reciproche influenze, dando vita, insomma, a un quadro organico stimolante e ricco di riferimenti, capace non solo di incuriosire, ma fornendo davvero un utile manuale (con la M maiuscola), vale a dire uno strumento ideale dal quale cominciare per capire cos’è la grande musica, qualunque essa sia, e soprattutto per come dev’essere ascoltata.
Possibilmente, non quando si fa andare la lavatrice o si dà l’acqua alle piante.
Andrea Bedetti
Clemency Burton-Hill - Un anno con Mozart. Bach, Gershwin, Puccini e gli altri. Un brano musicale per ogni giorno dell’anno
Neri Pozza Editore, 2020, pagg. 456