Julius Evola, ovvero l’astrattismo dell’individuo assoluto
Il MART di Rovereto dedica fino al 18 settembre 2022 la più completa mostra dell’opera pittorica astratta del filosofo e tradizionalista romano, una delle figure chiave non riconosciute della cultura europea del Novecento. Attraverso oltre cinquanta dipinti e disegni, l’allestimento, nato da un’idea di Vittorio Sgarbi, fa comprendere come la breve stagione artistica evoliana, sbocciata all’ombra del Dadaismo, sia stata vissuta e sperimentata parallelamente alle sue speculazioni filosofiche, giunte al culmine sul finire degli anni Venti
Evola il fascista, Evola il Tradizionalista, Evola l’esoterico, e ancora Evola il razzista, Evola l’antidemocratico, ma anche (paradossalmente?) Evola il cultore dell’astrattismo pittorico, affascinato dalla musica jazz e denigratore di quella classica e voce (quasi solitaria) di un’avanguardia artistica in Italia, capace di andare perfino oltre i Futuristi più accesi ed estremisti. Dunque, un Julius Evola incoerente?
Piuttosto, un Evola come personaggio irripetibile della cultura nostrana della prima metà del Novecento, polo accentratore di correnti politiche, artistiche, esoteriche, mediatore di eterogenee pulsioni intellettuali, uno dei pochi, pochissimi in grado di opporsi da un lato al crocianesimo e dall’altro al pensiero “ufficiale” del fascismo, ossia a quello gentiliano, con una “terza via” tutta sua, in perenne e delicato equilibrio tra la dimensione del Tradizionalismo più ferreo e ortodosso e il desiderio di incarnare un “uomo nuovo”, l’Individuo assoluto, votato ad accettare e ad affrontare le sfide più temerarie e pericolose dettate dal Modernismo.
Tra queste sfide lanciate mediante i suoi scritti, politici ed esoterici, spicca per l’appunto quella fatta in nome della Nuova Arte, quella più estrema, più radicale, punto di rottura di ogni contatto e collegamento con quella del passato, ossia l’arte astratta, agognata e cavalcata in un lasso di tempo brevissimo, che va fissato tra il 1915, quando l’Italia decide di mettersi in gioco nella carneficina del primo conflitto mondiale, e il 1921, quando il fascismo, ancora quello nella forma del “movimento”, si appresta a prendere il potere. Tempi nuovi, che si prefiggono l’assoluto, che necessitano un’arte capace di rompere gli schemi, di tuffarsi nei rivoli dell’interiorità, esaltando l’immanente soggettivo, l’oltreuomo nietzschiano che lascia la solitudine di Zarathustra per mangiare dapprima il fango nelle trincee della guerra, per poi ricostruire una pace con il coltello tra i denti. Ed Evola, in quella brevissima stagione nella quale prende la tavolozza dei colori per “scrivere” sulla tela, si lancia in una guerra santa a favore di una dimensione artistica che è destinata a restare unica in tutto il panorama italiano dell’epoca, al punto di diventare il referente nostrano con personaggi del calibro di Tristan Tzara, il nume tutelare dell’avanguardia artistica europea di quel frangente, in attesa dell’irruzione surrealista.
Questo passaggio artistico, questo squarciarsi dell’Io per entrarvi e sondarlo fino ai recessi più oscuri (un’introspezione che però viene fatta senza chiamare in causa la psicoanalisi freudiana, della quale Evola è un nemico implacabile), è anche il risultato, lo sbocco ineludibile dato dalla concomitante stesura di un testo filosofico, Teoria dell’individuo assoluto libro che, con il successivo Fenomenologia dell’individuo assoluto, rappresenta l’ultimo contributo squisitamente speculativo evoliano prima di indirizzarsi totalmente alla dimensione tradizionale ed esoterica. Un testo, iniziato nel 1917 quando Evola era sul fronte della Grande guerra e concluso a Roma sette anni più tardi, nel quale il pensatore ed iniziato aristocratico riprende e amplia le tesi del cosiddetto “idealismo trascendentale” mutandole e affinandole fino alle ultime conseguenze, in una teoria dell’Individuo assoluto, il quale non è più da intendersi come un semplice e astratto “soggetto gnoseologico”, ossia al centro di una semplice teoria del conoscere, ma nel ruolo di un individuo che deve affrontare il problema dell’azione, un’azione che si rende necessaria e ineludibile, poiché nel momento in cui il “soggetto gnoseologico” realizza la propria inadeguatezza esistenziale, la propria necessità realizzativa ancora in una fase puramente immanente, deve trasformarsi in “Individuo assoluto”, abbracciando la sfera portante dell’azione, coniugando il pensiero con il braccio, la mente con la forza.
Ebbene, accanto a tale speculazione filosofica, destinata tra la fine degli anni Venti e l’inizio del decennio successivo a lasciare il passo definitivo allo studio e all’elaborazione della Via tradizionale, Evola, in quel lasso temporale concomitante gli anni del primo conflitto mondiale e la nascita del cosiddetto fascismo “movimento”, cercò di dare forma, affioramento, concretizzazione spirituali attraverso l’ausilio dell’astrattismo artistico, dando luogo a un bisogno impellente, quello di indagare l’immanente, il nucleo portante dell’Io, l’atto di trasformazione che dal “soggetto gnoseologico” avrebbe potuto portare alla nascita dell’“Individuo assoluto”.
Ora, a questa ricerca di Julius Evola mediante gli strumenti pittorici dell’arte astratta il Mart di Rovereto ha dedicato una preziosa e stimolante mostra, dal titolo Julius Evola - Lo spirituale nell'arte, allestita fino al prossimo 18 settembre 2022. Così, esplorando le decine di dipinti presenti nelle sale del polo museale trentino, il visitatore può comprendere meglio anche la genesi, la fase germinale della pittura evoliana, fissata dalla sua frequentazione dello studio di Giacomo Balla e la conseguente interpretazione e sviluppo personali del linguaggio futurista. Un futurismo che ben presto, però, Evola, studioso insofferente nei confronti del “mondo moderno, democratico e materialista” e mosso da un “impulso alla trascendenza”, decise di abbandonare, lasciando i suoi chiassosi e “volgari” protagonisti alla loro dimensione “triviale e tellurica”, e avvicinandosi allo stesso tempo alla sfera artistica e spirituale del già citato Tristan Tzara, aderendo così di fatto alle poetiche del Dadaismo, tanto da essere riconosciuto dal propugnatore, saggista e teorico rumeno quale unico rappresentante italiano del fenomeno Dada. Ma nella sua febbrile e instancabile ricerca e in nome di quell’“Individuo assoluto”, affamato di azione, di lucidità interpretativa, di adesione a una gerarchia elitaria che guardava più al passato, quello romano, così come a quello ghibellino e imperiale, Evola si rese conto che anche quanto enunciato dal movimento dadaista rappresentava una sterile strettoia, un imperativo artistico destinato a gingillarsi con aspetti ludici e inconclusivi, al punto che nel 1922 non solo decise di abbandonarlo, ma di decretare il suo “suicidio artistico”, ossia abbandonando per sempre i pennelli e i colori (tranne un breve e intenso “rigurgito” creativo fissato poi in quel lustro che va dal 1965 al 1970).
Proprio partendo dal centenario di quel “suicidio artistico” e cancellando la spessa patina di oblio che ha coperto nel tempo l’opera astratta evoliana, Beatrice Avanzi e Giorgio Calcara, partendo da un’idea di Vittorio Sgarbi, hanno così dato vita a questo allestimento che permette ai visitatori, attraverso oltre cinquanta opere, di presentare la visione del mondo che Evola cercò di esprimere con il potente e affascinante strumento dell’astrattismo, un astrattismo con il quale sondare quella “dimensione interiore” al centro dell’interesse e della ricerca portati avanti nei primissimi decenni del Novecento dalle varie correnti astrattiste europee e delineate da Vasilij Kandinskij nel suo celebre saggio Lo spirituale nell’arte (pubblicato nel 1912).
Così, l’esposizione del Mart (la più completa e organica mai organizzata) illustra l’intero percorso artistico attraverso una selezione di opere realizzate tra il 1915 e il 1921 e, appunto, tra il 1965 e il 1970. Opere che mettono in luce la potenza pittorica evoliana, contraddistinta da un astrattismo intriso da forti e vivaci contrasti cromatici, il cui intento non era certo quello triviale e banale di épater le bourgeois, ma di avviare un processo di ricerca spirituale, anticipando con i colori, le forme, le visioni inconsce quello che poi sarà materia scritta, fissata nelle soprattutto nelle pagine dell’autobiografico Il cammino del cinabro. I lavori presentati, in una sorta di work in progress, presentano così l’evoluzione pittorica del filosofo e tradizionalista romano, con i dipinti appartenenti al periodo futurista caratterizzati da elementi astratti carichi di energia e sorprendentemente “psichedelici”, seguiti dai celeberrimi “paesaggi interiori”, espressione pura dello spirito con chiari riferimenti ermetici ed esoterici; infine, gli anni Sessanta, con le repliche (una sorta di rivisitazione e manipolazione, in chiave tradizionale, della concezione “replicante” di warholiana memoria) delle sue opere storiche e alcuni dipinti figurativi che si discostano inaspettatamente dalla sua produzione giovanile.
Caduta nel dimenticatoio durante il periodo fascista e la sopraggiunta Seconda guerra mondiale, l’arte pittorica di Evola fu riscoperta nel secondo Novecento: nel 1963, fu Enrico Crispolti a dedicargli una coraggiosa retrospettiva alla galleria La Medusa di Roma mentre, parallelamente, Vanni Scheiwiller acquisì l’archivio degli scritti dadaisti. Ma per avere il quadro fedele, autentico, con la debita chiusura del cerchio, si è dovuto attendere questa altrettanta coraggiosa iniziativa del Mart, affinché questo ennesimo, affascinante aspetto artistico e intellettuale evoliano venisse tratteggiato al meglio, cuore pulsante di una ricerca pittorica nella quale il sommo iniziato cercò di “fotografare” l’anima, l’Io titanico dell’Uomo nuovo che avrebbe dovuto irrompere per riportare in auge il concetto di una “Rivolta” assoluta, implacabile, dettata dall’oro e dal mistero, quella incarnata dalla Satya Yuga.
Andrea Bedetti
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