Intervista a Matteo Fossi

Il pianista toscano, oltre ad essere uno dei migliori interpreti cameristici e non solo in ambito nazionale, è un raffinato e sensibile artista che da alcuni anni ha intrapreso un preciso percorso discografico attraverso il quale mette in luce connessioni, legami, approcci lungo il frastagliato panorama pianistico romantico. Ne abbiamo parlato con lui alla luce della sua ultima incisione dedicata al giovane Debussy

Maestro Fossi, la sua produzione discografica, per ciò che riguarda il repertorio pianistico, segue un filo conduttore apparentemente disgiunto, ma che invece rivela una precisa continuità di intenti programmatici: nel 2014 ha registrato opere di Brahms sul solco di quella “progressività” esaltata poi da Schönberg, poi nel 2015 è stata la volta di un disco dedicato a Schumann e l’anno successivo di un altro a Schubert, e nel 2017 è tornato di nuovo avanti nel tempo, con un compact disc che presenta opere del giovane Debussy. Come a dire, partendo da colui che ha collegato il passato con la modernità, indagare poi su coloro che hanno posto le basi di una “futura modernità”, minando le certezze beethoveniane, e infine per proiettarsi su colui che ebbe il coraggio di chiudere definitivamente, in modo eclatante, la porta dell’Ottocento e con la perentorietà di traghettare la musica pianistica nel mare magnum del Novecento, seguendo però un sentiero diverso da quello brahmsiano.

In effetti ho cercato, con le mie registrazioni solistiche di questi anni, di creare un percorso il più possibile coerente e caratterizzato da “fili rossi”, che a volte sono emersi spontaneamente, quasi per auto-generazione. Si tratta ovviamente di Autori a me molto cari, di cui ho avuto la fortuna e l’onore di studiare ed eseguire tutta la produzione cameristica; l’etichetta indipendente francese Hortus mi ha chiesto poi di affrontarli dal punto di vista solistico, e ho deciso così di registrare brani meno noti accanto a capisaldi assoluti, come i Kreisleriana di Schumann, o la Wanderer di Schubert, ad esempio. Sono emersi dei programmi inediti, in cui un’incisione ha come “chiamato” la successiva, in modo molto naturale. Un solo esempio: il tema delle Variazioni op. 9 di Brahms è contenuto nei Bunte Blätter di Schumann, e fu lo stesso Brahms ad ipotizzare che i tre Klavierstücke di Schubert dovessero far parte di una raccolta, forse incompiuta. Tutti brani, questi, che ho incluso nei miei dischi. Poi è arrivata la volta di Debussy, il grande profeta della modernità; ma stavolta con la produzione giovanile, in cui, accanto ai grandi cicli di Pour le Piano, Suite Bergamasque ed Estampes, compaiono delle vere e proprie perle, alcune delle quali di rarissimo ascolto.

Concentrandoci appunto sulla sua ultima registrazione discografica, anch’essa prodotta dalle Éditions Hortus, dedicata alle opere di Debussy (del quale cade quest’anno il centenario della morte), anche qui si può cogliere una precisa “programmaticità”, quella che porta alla formulazione di un affascinante parallelismo musicale con la filosofia: il giovane Debussy decostruisce (non distrugge) il pianismo classico-romantico (soprattutto quello di matrice austro-germanica), così come decenni prima il giovane Marx aveva decostruito tutto l’edificio dell’hegelismo per costruire, a sua volta, un altro edificio filosofico-politico. In un certo senso, la conferma di questa decostruzione, almeno in ambito musicale, l’abbiamo attraverso la testimonianza e la riflessione di Ferruccio Busoni, ferreo difensore e paladino di una precisa evoluzione del pianoforte da Bach fino al tardoromanticismo, che si rese perfettamente conto di ciò che stava facendo Debussy e del quale non sopportava la sua concezione musicale.

Uno dei motivi di interesse di questo repertorio risiede secondo me nei modelli più o meno espliciti della produzione giovanile di Debussy, che prende le mosse dalla tradizione clavicembalistica francese e le rende omaggio, certo; ma che deve molto ad un certo mondo “salottiero” che richiama un certo Chopin, e alla musica russa dell’Ottocento. A dire il vero, non ho voluto “forzare la mano” cercando ovunque e in tutti i modi i germi del Debussy più maturo (quello dei Préludes e delle Études, per intenderci); in alcune pagine sembra davvero un compositore post-romantico sui generis! Poi arrivano pagine come D’un cahier d’esquisses, e lì davvero arriva il grande rivoluzionario…

Le note di accompagnamento del disco riportano una meravigliosa definizione che Manuel De Falla diede della musica debussiana: verità senza autenticità, ossia la capacità di rendere vera un’immagine (il termine image è semanticamente quanto di più importante ci possa essere per Debussy per cercare di rendere l’idea della sua musica), una proiezione che è anche impressione, senza per questo cadere nell’errore di considerare le sue opere create con finalità descrittive, magari sviati dagli stessi titoli che diede loro e che possono risultare quindi fuorvianti rispetto alla loro dimensione più genuina.

Sono d’accordo! Tant’è vero che, più tardi, Debussy decise di inserire i titoli in fondo ai Preludi (e tra parentesi, dopo tre puntini di sospensione…), come per sottolineare la pura dimensione suggestiva della sua musica. Debussy non è mai descrittivo, neanche nella sua produzione giovanile; ed è inutile scervellarsi troppo su titoli come Ballade, Masques o Suite Bergamasque…. La chiave sta nella sua musica, che tra l’altro ha una precisione di segno che non ha precedenti.

 

Come ammette lei stesso, Maestro Fossi, ha voluto includere nel programma di questo disco dedicato al compositore francese un brano che considera particolarmente rivelatore di quell’opera di decostruzione riferita al passato e di costruzione proiettata nel futuro che è D’un cahier d’esquisses, che risale al 1903, e che abbina ancora una volta la dimensione sonora con quella dello schizzo come propileo di un’immagine, di una proiezione, con un pianismo che biologicamente è “unicellulare” rispetto all’altro approccio usato da Brahms nei confronti della modernità, che è invece basato su un principio “multicellulare”, ossia su un sistema di costruzione e organizzazione armoniche che susciterà in seguito l’ammirazione dello stesso Schönberg.

D’un cahier d’esquisses è effettivamente un brano a cui sono molto legato. Da una parte richiama esplicitamente il materiale che costituirà l’ossatura di La Mer; dall’altra, come dicevo prima, può essere accostato ai Preludi per la sua capacità suggestiva che va ben oltre qualsiasi descrittivismo musicale. Certo, il procedimento compositivo di Brahms e Debussy è estremamente diverso, talvolta opposto; ma la musica francese, Debussy compreso, deve a Brahms molto più di quanto siamo portati a credere: basti riascoltare con attenzione gli ultimi cicli pianistici dall’op.116 all’op.119, per capire quanto l’Amburghese sia stato precursore di una certa ricerca timbrica al pianoforte…

 

In un prossimo futuro, Matteo Fossi, dopo aver cabotato le acque dell’Ottocento pianistico ed essere giunto alle Colonne d’Ercole con Debussy, deciderà di affrontare il mare aperto, dedicandosi al cuore del Novecento pianistico, anche se lo ha già fatto in ambito cameristico, con i dischi dedicati a Poulenc e a Hindemith?

Se vuole un’anticipazione, il mio prossimo disco sarà dedicato a Chopin, con un percorso attraverso gli Improvvisi e alcune serie di Mazurke che abbracciano tutta la sua parabola compositiva. Per i miei quarant’anni, volevo farmi questo regalo! Ma certo, ci sarà occasione, mi auguro, di tornare al Novecento storico, magari con compositori come Janáček, Šostakovič o Bartók, che adoro. Oppure un salto nella contemporanea, perché no?

Andrea Bedetti