Ingrid Carbone tra il rigore della matematica e la libera espressione della musica
Abbiamo intervistato l'affermata pianista calabrese, la quale condivide la passione per il mondo dei suoni con quello dei numeri (è docente presso l’Università della Calabria). Le sue risposte rappresentano una riflessione, appassionata e sincera, sui dilemmi, sui dubbi e sulle possibili risposte di chi, in nome dell’arte e della scienza, vive e ricerca tra ragione e sentimento
Maestro Carbone, quali sono state le motivazioni e le spinte esistenziali e culturali grazie alle quali è diventata una pianista concertista? E, più in generale, esiste a suo avviso una specie di “ricetta” partendo dalla quale questo diventare un qualcosa in ambito artistico può essere valida per molti?
Se dicessi che il pianoforte è la mia vita, cadrei nel banale, se dicessi che non posso fare a meno di pensare al pianoforte come fosse un prolungamento del mio corpo, cadrei un po’ nello scontato. Tuttavia, senza queste due riflessioni preliminari, per quanto ovvie esse sembrino, non sarei mai diventata una pianista concertista. E però non bastano a spiegare il mio percorso e le mie scelte. Volendo usare il linguaggio matematico, direi che esse sono condizioni necessarie, ma non sufficienti. Se parliamo di “ricetta”, posso senza dubbio elencarne gli “ingredienti”, alcuni dei quali generali, altri molto personali. Quelli generali, che valgono un po’ per ogni musicista e che costituiscono - usando ancora un’espressione matematica - il massimo comune denominatore, sono la pazienza, la costanza, la disciplina, l’umiltà. Quelli generali, invece, si legano alla prima parte della sua domanda, complessa come la risposta che cerco ora di sintetizzare.
Suonare in pubblico (anzi, per il pubblico) significa trasmettere le mie emozioni, i miei stati d’animo, raccontare una storia: tutto arriva dopo mesi e mesi di studio e di ricerca, dopo un’attenta lettura dello spartito e soprattutto alla fine di un percorso attraverso il quale rappresento (e spero di farlo nel migliore dei modi) la volontà del compositore. Ogni volta è una sfida, una scommessa, che alimentano il mio desiderio di comunicare al pubblico tutto ciò che so e tutto ciò che sono. Ecco perché, ancor più dei concerti, amo tenere quelle che chiamo conversazioni-concerto, nelle quali parlo al pubblico e lo guardo, ed è come se entrassi in sintonia con chi mi ascolta. Ho bisogno di condivisione, di empatia. D’altra parte, sono anche un animale solitario, che ama stare ore e ore a lavorare, a studiare, a meditare, a ricercare. Ho bisogno sempre di nuove sfide, di cimentarmi con brani nuovi, anche se mai scelti a caso, di arricchire una cultura musicale ed extra musicale che considero sempre insufficienti. La dualità pubblico-privato è presente in me in maniera del tutto evidente. Sono quella che sono perché so chi sono e so dove sto.
La sua duplice attività di musicista e di matematica (ricordo che è docente di tale materia presso l’Università della Calabria) porta inevitabilmente a una domanda che scaturisce dalla celebre affermazione leibniziana, ossia se è vero che Exercitium arithmeticae occultum nescientis se numerare animi, vale a dire che “[la musica] è un calcolo aritmetico che l’anima fa senza sapere che sta contando”, nel suo caso specifico vale il contrario, cioè che la musica può determinare nuovi campi di ricerca nella matematica. Alla luce di ciò, il suo fare musica le ha permesso di allargare il campo di conoscenze inerenti ai numeri?
Prendendo alla lettera la sua domanda, non credo che la mia musica abbia realmente allargato le mie conoscenze matematiche. Allo stesso tempo, però, credo che il mio estro artistico (anch’esso necessario, ma non sufficiente!) stia sempre più ampliando le mie capacità didattiche e pedagogiche: le mie lezioni di matematica, negli ultimi tempi, sono cambiate perché si sono arricchite di una buona dose di improvvisazione e fantasia. Ciò che però è senz’altro vero, è che la mia musica beneficia grandemente della mia formazione universitaria, e delle attività di didattica e di ricerca. Le mie conversazioni-concerto ne sono un esempio.
Guardiamo adesso il rovescio della medaglia. Che cosa bisogna fare, quando è seduta davanti alla tastiera del pianoforte, per evitare la trappola di tramutare il susseguirsi dei segni musicali in una serie di rappresentazioni numeriche? Come ci si tiene alla larga della trappola di fare musica pensando alla matematica? Ciò può essere più facile per un musicista che, contrariamente a quanto lei fa, non è portato a pensare anche in termini matematici… Ecco, come si evita quel pernicioso anche? Oppure, si fa forte di quel anche partendo da quanto ha scritto Xenakis nella prefazione del suo fondamentale saggio Musica formalizzata, vale a dire che lo sforzo di fare arte passa attraverso un “processo geometrico”?
La matematica è sempre presente nella musica classica, altrimenti il ritmo, il tempo, il binario-ternario, i gruppetti di un numero note che non è multiplo di nulla, il solfeggio, sarebbero privi di quella precisione da cui non si può prescindere. E anche questa è una ovvietà. Ma se dico che il metodo di ricerca matematica e le attività seminariali (intendendo così non solo seminari, ma comunicazioni e conferenze) hanno influenzato la mia musica, forse non è proprio così ovvio. Faccio l’esempio di un teorema e della sua dimostrazione: si colloca in un contesto, scientifico e quindi storico, si conosce ciò che lo precede, e la sua dimostrazione segue un percorso chiaro, lineare, dove nulla è superfluo e tutto è necessario. Nessun passaggio di troppo, nessuno di meno. Così è per me una composizione: un percorso in cui ogni frase, ogni voce, ogni nota, ogni pausa è essenziale, dove non c’è nulla di marginale. E così, per arrivare a quella che ritengo sia l’interpretazione finale (per quel che significa questo termine in ambito artistico, dove non esiste mai la parola fine, per fortuna), tutto deve assumere un significato, e non ho pace finché non trovo una spiegazione per tutto ciò che è scritto. In questo mondo, di matematico c’è il metodo di studio e di indagine, che diventa strumento di comprensione, lente di ingrandimento, direi quasi microscopio. Poi arriva l’arte: il tocco, il timbro, i pedali, l’agogica, la dinamica, e sopra ogni cosa l’ascolto e il canto. Ascoltare ciò che suono, come lo suono, sfidare il pianoforte a restituire suoni, colori, umori, facendolo cantare.
Prossimamente, avrà modo di tornare al “suo” Liszt, del quale si è già occupata in ambito discografico, con un nuovo disco dedicato alla registrazione integrale dei dodici Lieder di Schubert trascritti dal compositore ungherese e che fanno parte dell’opus S. 558. Dunque, abbandona il côté religioso-spirituale lisztiano per affrontare, invece, il cuore stesso del romanticismo di stampo germanico, di cui queste pagine rappresentano una pietra miliare. Perché questa scelta? E da qui, l’inevitabile domanda che può scaturire: la Ingrid Carbone matematica si sente affascinata e coinvolta da un afflato metafisico? E che rapporti ha, personalmente, con la dimensione religiosa?
Due dei miei album sono dedicati a Liszt, uno a Schubert. Mi sembra del tutto naturale proseguire con Schubert-Liszt, ma non per una semplice esigenza intellettuale, bensì perché ritengo che le magistrali trascrizioni di Liszt dei capolavori di Schubert rappresentino le pagine più belle del romanticismo. Si tratta della sfida maggiore che ho deciso di affrontare finora: già i Lieder di Schubert sono composizioni complesse, spesso ardue per cantanti e pianisti, ma nelle mani di Liszt diventano un mondo a sé, pagine di un pianismo trascendentale, in cui i piani sonori devono essere così distinti e differenti, da richiedere un lavoro certosino. Qui, più che mai, la tecnica diventa serva della musica: per me deve essere sempre così, e la musica di Schubert e quella di Liszt ne sono esempi egregi, ancor di più le trascrizioni di Liszt.
Ho affrontato e affronto spesso, sia nelle mie incisioni che nei brani di repertorio, molti brani spirituali, religiosi, brani come Les Jeux d’Eaux à la Villa d’Este, che è profondamente religioso, pur non dichiarandolo esplicitamente. Li scelgo, ed evidentemente ne sono attratta. Se vogliamo inquadrarla, la mia dimensione è senza ombra di dubbio spirituale più che religiosa. Sono lontana da ogni fanatismo religioso, così come da ogni ideologia “antemarcia”: ne stiamo vedendo gli effetti devastanti in Palestina e in Ucraina, e per me è un dolore immenso. Spesso penso alla storia della Cina, e al fatto (che per noi occidentali ha dell’incredibile) che mai c’è stata lì una guerra di religione. Esistono filosofie di vita, pacifiche, rispettose le une delle altre, senza crociate e proselitismi.
Un’ultima domanda. Abbiamo parlato della Ingrid Carbone musicista, di quella matematica e di quella che si affaccia sul mistero escatologico. Ma chi è Ingrid Carbone donna?
Un misto di sicurezza e fragilità e un concentrato di sensibilità. Sento crescere l’erba, come dice mio marito, traducendo un modo di dire sloveno. Arrossisco per un complimento, mi emoziono anche solo ascoltando il cinguettio degli uccelli. Una cara amica dice che sono vanitosa. Forse è vero, perché mi piace sottolineare la mia femminilità. Adoro insegnare, e aspetto la fine del corso per andare a festeggiare il superamento dell’esame con le mie studentesse e i miei studenti. Sono sempre disponibile, pronta ad aiutare e a dare consigli. Non ho figli, ma mi circondo di animaletti che prendo dalla strada, anime in pena destinate a morte certa. Soffro per la cattiveria degli uomini, mi indigno per le scorrettezze, mi irrito per la maleducazione, mi espongo contro le ingiustizie. Sopporto con difficoltà il maschilismo dilagante e la misoginia ricorrente. Sono una donna libera, priva di preconcetti e pregiudizi, e non accetto ingerenze e limitazioni di qualsiasi tipo. Sono solida, mi metto sempre in gioco e non scelgo mai la strada più facile. Oggi più che mai mi sento come un “antropologo su Marte”, per dirla alla Oliver Sacks: non mi sento a mio agio in questo paese imbarbarito, non mi sento a mio agio in questo mondo cinico e crudele. Fossi vissuta nel medioevo, mi avrebbero messa al rogo.
Andrea Bedetti