In cammino verso la dissoluzione
Chi ascolta la musica non solo per l’ascolto in sé, ma anche per pensare poi ciò che ha ascoltato, c’è un Arnold Schönberg assai più interessante di quello che ha portato alla nascita di un nuovo linguaggio musicale, l’atonalismo (come si sa, il compositore e teorico viennese non amava il termine dodecafonia), ed è quello che precede e conduce al linguaggio seriale attraverso un percorso che vide impegnato Schönberg a partire dal 1899 (lo stesso anno in cui Sigmund Freud diede alle stampe l’opera capitale che separa l’Ottocento dal Novecento, ossia Die Traumdeutung) con la stesura dei Vier Lieder op. 2 fino al 1923 con la conclusione della composizione dei cinque Klavierstücke op. 23. Un lasso di tempo di quasi un quarto di secolo durante il quale il compositore viennese percorse un sentiero con il quale, tappa dopo tappa, opera dopo opera, giunse alla progressiva scomposizione del linguaggio tonale per dare vita a una ricomposizione della materia sonora mediante l’atonalismo.
Una stimolante testimonianza di tale cammino verso la dissoluzione del linguaggio tonale in Schönberg è ora data da una registrazione discografica della Da Vinci Classics, per opera del soprano sudcoreano Joo Cho e del pianista milanese Marino Nahon, che presenta oltre ai Vier Lieder op. 2, anche gli Acht Lieder op. 6 e i quindici Lieder de Das Buch der hängenden Gärten, op. 15, che rappresentano ulteriori tasselli del sentiero percorso dal compositore viennese con i quali la mutazione della rappresentazione sonora ebbe un preciso e focalizzato compimento. Per farlo, Schönberg chiese aiuto alla parola e alla voce umana, come a voler fissare le regole che avrebbero portato poi il suono a modificare la sua caratura, la sua espressione, la sua portata ricettiva; ciò avvenne all’inizio attraverso la scoperta, divenuta subito folgorazione, dell’opera del poeta simbolista e decadentista tedesco Richard Dehmel, dal quale trasse lo spunto principale con il quale fondere, sul finire del XIX secolo, i suoi implacabili versi con una ricerca musicale che già era una crosta da staccare dalla ferita del tardoromanticismo (il 1899 viene definito nell’estetica e nell’opera musicale di Schönberg il Dehmel-Jahr). Non per nulla, tre dei quattro Lieder che formano l’op. 2 sono basati sui versi del poeta tedesco (il quarto è di un altro poeta tedesco, Johannes Schlaf, padre del Naturalismo in Germania), così come, a quegli stessi anni, risale la più celebre opera giovanile del compositore austriaco, quel Verklärte Nacht per sestetto per archi, anch’esso ispirato a un poema di Dehmel.
In effetti, in questo brevissimo ciclo liederistico ciò che si deve individuare è un’acuta e lucida ricerca del suono, la quale ha uno scopo precipuo, quello di saper evocare non tanto il significato pregnante del testo poetico, quanto le atmosfere, i contorni emotivi che esso può irradiare attraverso la forza espressiva della musica. Questo dato è assai importante, poiché nei Lieder di Schönberg il rapporto tra testo e musica è nettamente sbilanciato a favore di quest’ultima, con la parola e la sua forza semantica che servono solo da strumento, addirittura da pretesto rispetto alla basilare ricerca sonora che il compositore effettua (è lo stesso autore a scrivere nel breve saggio Rapporto con il testo, risalente al 1912, «decisivo [...] fu per me il fatto di aver scritto molti dei miei Lieder dall’inizio alla fine senza minimamente preoccuparmi di come si svolgessero i fatti contenuti nella poesia, senza nemmeno coglierla nell’estasi della composizione»). Insomma, l’autonomia della musica doveva essere assoluta rispetto all’apporto dato dalla materia poetica.
Gli Acht Lieder op. 6 sono legati a un filo continuo a livello temporale con i quattro dell’op. 2, visto che furono scritti tra il 1903 e il 1905, e vantano una propulsione che diviene sempre più polifonica e ciò porta a un ulteriore, progressivo distacco dalle esigenze date dal contesto poetico, il quale vede ormai la fine dell’infatuazione schönberghiana verso l’opera di Dehmel (solo un Lied riguarda un poema dello scrittore tedesco, Alles, mentre gli altri brani vedono la presenza di versi di Julius Hart, Paul Remer, Hermann Conradi, Gottfried Keller, John Henry Mackay, Kurt Adam e Friedrich Nietzsche). L’approfondimento della linea polifonica ha una funzione precisa nell’evoluzione compositiva di Schönberg, quella di prendere a martellate il linguaggio tonale nello stesso modo in cui il giovane Marx usò il maglio per disgregare l’edificio filosofico hegeliano, ottenendo così una maggiore presenza di elementi dissonantici nella materia sonora e restituendo di fatto la tensione drammatica presente nei versi utilizzati. Questo tipo di trattamento musicale, così radicale e “rivoluzionario” causò ovviamente ripercussioni a livello di ricezione, quasi sempre negative (a tale proposito, si leggano le parole di fuoco e cariche d’ironia che Ildebrando Pizzetti scrisse proprio sui primi cicli liederistici di Schönberg nel saggio Intermezzi critici, risalente al 1915).
Un primo compimento di questo cammino iniziale verso il linguaggio seriale si ebbe poi tra il 1908 e il 1909, quando il compositore e teorico austriaco scrisse i quindici Lieder che compongono Das Buch der hängenden Gärten (anche sulla spinta emotiva causata dal momentaneo allontanamento dal tetto coniugale da parte della moglie Mathilde) e che coincidono con un nuovo “innamoramento” poetico, questa volta provato per l’algido e aristocratico Stefan George. A prima vista, l’estetica e la concezione culturale di Schönberg possono risultare inconciliabili con il senso del Kreis esoterico evocato dalla poetica dell’autore tedesco, ma a ben guardare, come ricordò lo stesso musicista viennese, lo stile squisitamente decadente, frutto di una poesia “pura”, aliena alla realtà sociale, risultò ideale per continuare ad elaborare quel processo di “emancipazione della dissonanza” teso ad abolire le stabilità insite del linguaggio tonale, creando di conseguenza uno stato della materia musicale per così dire “sospeso” (proprio come rimanda il titolo della raccolta liederistica in questione) e, allo stesso tempo, ancorato a esigenze dissonantiche, capaci di fratturare continuamente la tessitura timbrica.
E ciò viene permesso dall’intensa visionarietà delle quindici poesie di Stefan George che hanno quale denominatore comune un filo che narra il legame d’amore fra un uomo e una donna, ma che saranno costretti a separarsi. Una visionarietà, però, scarna, essenziale, scheletrica sulla quale si dipana l’esasperante lentezza del substrato musicale che si fa forte dell’assenza totale di un coinvolgimento emotivo e che permette a Schönberg di addentrarsi in territori timbrici inesplorati mediante una particolare ricerca di aggregazione sonora (sarà lo stesso compositore viennese a scrivere in un passaggio del già citato Rapporto con il testo «Avevo capito le poesie di Stefan George soltanto al loro suono»).
L’interpretazione fatta da Joo Cho e Marino Nahon risulta essere assai convincente; se il soprano sudcoreano riesce a restituire la tessitura richiesta con una linea canora capace di evidenziare le asperità, le fratture, i cambiamenti di marcia che la partitura impone, da parte sua il pianista milanese comprende benissimo come il suo ruolo sia fondamentale per trasformare il canto in un implacabile sismografo attraverso il quale la volontà dissolutiva si attui compiutamente. E ciò rappresenta un elemento assai più rilevante se si pensa che in fondo il reale protagonista è lo strumento a tastiera, soprattutto alla luce di quanto si è detto, con il pianoforte che, di volta in volta, manifesta strutture in cui la dissonanza si stempera nella freddezza oggettiva di un suono che dev’essere instancabilmente l’alter ego della voce. Questo porta lo strumento ad essere una seconda voce, la cui resa, nella lettura di Marino Nahon, è sempre lucida, una sentenza applicata ai canoni esecutivi, in cui il “sismografo tastieristico” registra e amplifica ciò che la voce non può cogliere e riprodurre, andando a toccare le corde dell’insondabile.
Paolo Guerini ha curato la presa del suono; la prima considerazione coinvolge l’equilibrio tonale, capace di restituire, senza sovrapposizioni reciproche, i registri della voce e del pianoforte. Anche la dinamica è positiva, permettendo alla voce di Joo Cho di evitare saturazioni nel registro acuto, così come di rendere la naturalezza dello Steinway D 274; infine, se il palcoscenico sonoro riscostruisce correttamente lo spazio fisico nel quale si trovano i due interpreti (con la voce leggermente avanzata rispetto al pianoforte), il dettaglio non lesina in fatto di matericità.
Andrea Bedetti
Arnold Schönberg - Das Buch der hängenden Gärten
Joo Cho (soprano) - Marino Nahon (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00360