Il violino di Marcello Fera nell’Olimpo terreno di Andrea Mantegna
Prendo a prestito quanto affermò in un passaggio del suo romanzo incompiuto Heinrich von Ofterdingen il poeta e filosofo tedesco Novalis: «Dove stiamo andando? Sempre a casa», che rende l’originale tedesco “Wo gehn wir denn hin? Immer nach Hause”. Con una simile espressione che, estrapolata dal contesto narrativo che gli appartiene, può anche essere considerata alla stregua di un aforisma, il poeta-filosofo di Wiederstedt volle ribadire un concetto che gli fu estremamente caro: tornare al punto di origine per essere realmente ciò che si è, ossia nel luogo nel quale si è cresciuti spiritualmente, che sia la casa paterna oppure quella che si è scelta per continuare idealmente e fedelmente un viaggio interiore, quello più impervio e difficile, deputato alla propria elevazione, al proprio raffinamento esistenziale.
Che l’immagine allegorica di casa come rifugio/inizio del sentiero non sia nata però con il Romanticismo tedesco è cosa risaputa. Tralasciando, una volta tanto, quanto trasmesso dalla sapienza dell’antica Grecia, non possiamo non rifarci a un’altra grande lezione, quella offerta dall’Umanesimo italiano, dal gradino illuminato di quell’antropocentrismo il cui culto della centralità, di un continuo richiamo alla centripeticità data da un sapere fondato sulle nobili arti, ha rappresentato il sorgere dell’homo rinascimentalis. Un sapere, però, che l’uomo del Rinascimento ripone anche nel simbolo della casa come irradiazione di conoscenza e potere, di Bildung capace di coniugare l’idea di formazione con la materia costruttiva di cui è fatta.
Un meraviglioso esempio di questa Bildung idea/materia è rappresentato dalla dimora mantovana di Andrea Mantegna, la cui mirabile storia inizia il 18 ottobre 1476, quando Ludovico Gonzaga volle donare il terreno sul quale il sommo artista erigerà la sua domus, probabilmente per ringraziarlo nell’aver creato quel capolavoro che sono gli affreschi della Camera degli Sposi, ospitati nel Castello di San Giorgio. Questa dimora, posta in Via Giovanni Acerbi, a poca distanza da Palazzo Te, rappresenta la tipica espressione di un ingegno che desidera incarnarsi nel luogo in cui si svolge la vita del suo creatore, propagazione di un gusto, di un’immagine il cui richiamo architettonico deve coincidere con la visione del mondo dell’artista stesso. E il fatto di averla definita una domus ha un suo motivo precipuo, fondamentale, poiché Andrea Mantegna, immaginandola, prima ancora di edificarla, volle concepirla come un edificio residenziale romano, un palazzo di due piani, fissato su una pianta quasi quadrata, nel cui centro è situato un cortile circolare.
Tale concezione architettonica fu dovuta probabilmente anche dall’influsso che Mantegna ricevette attraverso dei colloqui avuti con Giovan Battista Alberti, il quale nel suo trattato De pictura illustrò, soprattutto nella terza parte, dedicata alla figura del pittore, come l’artista non dovesse essere considerato un semplice artigiano, ma uno spirito creatore, in grado di far trasparire la propria arte anche nelle scelte della vita quotidiana, elevando così la dimensione dell’homo faber a quella di un uomo totalizzante, che può e deve autorappresentarsi anche nelle cose che lo circondano e attraverso le quali il suo animo si impregna. Proprio come accade nella casa in cui abita e in cui opera; ecco, allora, che il palazzo che Mantegna si fece costruire nasce da tale prospettiva artistico-esistenziale, dalla volontà di emanare, fissandolo nelle dimensioni, nei rapporti volumetrici, nelle prospettive spaziali, la propria capacità creativa. E il punto di fuga ideale, quello dal quale osservare tale emanazione architettonica che si propaga in tutta la costruzione è dato appunto dal cortile circolare, vero e proprio atrium della tradizione latina, uno spazio aperto, perfetto, armonioso, che influisce direttamente sull’armonia trasmessa dagli spazi chiusi che lo circondano.
Credo, e conoscendo l’interprete in questione non lo metto in dubbio, che il compositore e violinista Marcello Fera abbia voluto eseguire quattro dei dodici Canti dal Silenzio da lui composti per violino solo, per la precisione Segno, Andare, Interludio alla voce e All’intorno, proprio nell’atrium della Casa del Mantegna per i motivi appena addotti. Una scelta, la sua, che ha voluto motivare con queste parole: «Sono felice di aver realizzato un desiderio che mi accompagnava da sempre, quello di accostare la mia musica a questa architettura. Le forme di questo spazio per me sono espressione di un assoluto che riguarda profondamente l’uomo. E lo sopravanza. Dialogarci non può che essere un atto salutare, benefico». Dunque, un omaggio “relativo” nei riguardi di un concetto “assoluto”, un dare significato altro a una dimensione artistica/esistenziale attraverso l’apporto sonoro, con il preciso scopo di offrire un atto di concretizzazione sincretica tra il già esistente e la momentanea irruzione della musica. E tutto ciò fissato, esplorato, scandito dalla forza dell’immagine in movimento (le riprese di questi quattro video sono di Daniel Mazza), il cui scopo è di delineare, di volta in volta, la potenza espressiva dell’uno e dell’altra.
Il primo momento fissato dalla camera è Segno, incipit, focalizzazione di una scheggia apparentemente immobile, con Marcello Fera al centro ideale dell’atrium, un centro dato dal cuore della stella a otto punte che si irradiano in concomitanza di altrettanti punti del cortile, che rimandano a spazi volumetrici delineati, incorniciati dalle finestre e dalle porte di accesso. Punto di irradiazione, nel quale il segno sonoro rimanda a quella volontà di autoaffermazione che la Casa del Mantegna incarna magistralmente, e che diviene, nel gioco di passaggio tra arte architettonica e arte musicale, anche l’autoaffermazione di colui che traccia il segno sonoro/esistenziale, e che può essere sia lo stesso compositore/interprete, sia chiunque si ponga nella medesima posizione, a patto che sia compartecipe di quell’idea di geopensiero formulato dall’antica sapienza greca, il quale sosteneva che esistono luoghi particolari, emanati dalla natura o dalla costruzione umana, nei quali la potenza della riflessione, della bellezza speculativa vengono attivati con maggior forza, con un impatto più vivo e focalizzato (quando Giacinto Scelsi volle andare ad abitare in Via di San Teodoro, lo fece sulla base di una precisa volontà: comprese che quella stretta e tranquilla strada della capitale, che si affacciava sul Palatino, uno dei luoghi più sacri nell’antica Roma, era in grado emanare vibrazioni fondamentali non solo per il suo equilibrio psichico, ma foriere anche di stimoli creativi, immaginifici). Questa bellezza speculativa, nel video che riguarda Segno, viene delineata da una precisa immagine, con la camera che dal basso inquadra la porzione di cielo che viene tratteggiata dai contorni della costruzione, la quale delinea il cerchio dell’atrium iscritto perfettamente all’interno del quadrato delle mura, come a dire che colui che si pone nel centro della stella assume simbolicamente la dimensione dell’uomo vitruviano di Leonardo, conchiuso in un quadrato "terreno" posto all'interno di un cerchio “spirituale”, elemento la cui ricerca di perfezione cerca la sua via nella perfezione geometrica delle cose.
È poi la volta di Andare, con Marcello Fera che lascia il cuore della stella per addentrarsi simbolicamente e fisicamente in un sentiero micro/macroscopico dato dall’incedere del brano, i cui richiami barocchi impongono nell’ascoltatore/spettatore il riaffiorare di una necessità, basilare nella pittura del Seicento e del Settecento: l’esaltazione dello spazio. Uno spazio dato dall’irradiazione matematica del suono, di una rinnovata ricerca di perfezione che si attua nell’imperfezione del viaggio, dell’avventurarsi altrove-da-dove-si-è (la filosofia greca ci ha insegnato che l’errore risiede nell’errare, ossia nel vagare, nell’allontanarsi dal centro dove risiede il concetto supremo di verità, l’ἀλήθεια, termine nel cui costrutto etimologico vi è la presenza di ϑεός, del dio, in quanto la verità, per i Greci, non era altro che percorrere le orme lasciate dagli dèi). Questo vagare, questo errare del compositore/interprete mi ha fatto tornare alla mente quanto indicò Luciano Berio per interpretare i suoi Duetti per due violini, ossia che in sede concertistica avrebbero potuto essere eseguiti con i due musicisti che, lasciando il palcoscenico, avrebbero vagato in platea, tra gli spettatori, comunicando un’idea di erranza trasmessa non solo dal solco musicale, ma dall’azione stessa del compimento fisico che tale composizione impone.
La problematicità di una ricerca, del cadere nell’imperfezione e quindi nell’errore dato dall’errare sono rappresentati e delineati nel video dedicato a Interludio alla voce, anche qui contrassegnato da chiari rimandi simbolici. L’incedere iniziale del brano, denso di dissonanze, di fratture nel fraseggio, inchiodato da singhiozzi sonori, vede Marcello Fera imprigionato dagli spazi di finestre che si affacciano nell’atrium, quasi fossero microscopici palcoscenici improvvisati; ciò comunica un sentore di soffocamento, di incapacità di dare voce alla Voce suprema, di tentativi, di prove, di affannose messe in scena per capire se ciò che si fa ha un suo valore, una sua identificazione. Il mutare della composizione provoca la mutazione della scena e nel momento in cui le consonanze cercano di primeggiare sulle dissonanze, il compositore/interprete viene di nuovo a trovarsi all’interno della stella, ma non al suo centro, come invece era avvenuto in Segno. Sì, perché al centro della stella adesso vi è un leggio, come a dire che la ricerca, e non solo musicale, dev’essere guidata, vi dev’essere un Virgilio, un nume, un qualcosa sul quale appoggiarsi, sul quale fare affidamento affinché possa esistere. Ma vi è anche la riconquista dello spazio, immortalato nelle scene finali del video, con la camera che dall’alto circoscrive il perimetro dell’atrium, quasi che il finale di Interludio alla voce invitasse a ritrovare un equilibrio naturale o quantomeno idoneo nel quale il suono evocato e guidato possa rappresentare al meglio la voce che affiora tra le dissonanze e le dissonanze, ulteriore allegoria di chi è in balìa della vita, tra la dimensione di un bene e quella di un male, di una ricerca che ha uno scopo ed una fine a se stessa.
Ma in tutto ciò vi può essere un’uscita, una possibile soluzione, o, più semplicemente, una speranza di soluzione? L’ultimo video, quello che presenta il brano All'intorno, sembra renderlo plausibile. Marcello Fera si trova, come all’inizio, nel centro della stella, spodestando il leggio, che adesso è al di fuori del punto centrale dell’astro, come se il compositore/interprete avesse riconquistato il suo centrismo, sogno di ogni uomo di cultura rinascimentale, padrone perfino di ciò che lo deve guidare. Il costrutto musicale lo permette, con il suo slancio ottimistico, con una gioia geometrica che sgorga dallo strumento, una felicità che spinge verso una dimensione verticale, ascensionale. Ecco perché la camera indugia in inquadrature che puntano verso l’alto, tornando a mostrare il quadrato delle mura che si incastona idealmente nel cerchio dell’atrium della Casa del Mantegna e, allo stesso tempo, ruotando la visuale, allegoria di un divenire matematico, razionale, gioco prospettico basato sulle conquiste della ragione umana. E poi, ecco apparire la celeberrima scritta ab Olympo, posta su uno degli architravi di un portale dell’atrium, ulteriore simbolo di quell’autoaffermazione dell’artista padovano, con la sua fierezza che si concretizza in questo richiamo che prende origine dall’antica bottega di Fidia ad Olimpia, sulle cui pietre il fulmine di Zeus aveva inciso il riconoscimento della grandezza umana capace di raggiungere le vette divine.
Nelle ultime battute del video, Marcello Fera, portando a termine il brano, sorride e il suo è un sorriso di autocompiacimento, forse simile a quelli ai quali Andrea Mantegna si lasciò andare ammirando il risultato della sua domus, edificata in nome della fama, dello status sociale da lui raggiunto e, soprattutto, del dono divino dell’ingegno, autoritratto dell’uomo e dell’artista umanisti.
Lo stesso autoritratto che Marcello Fera ha voluto comunicare con la sua musica, atto di omaggio e di ammirazione nei confronti di un’emanazione architettonica che ci vuole ricordare che l’uomo, se veramente vuole, può essere Uomo.
Andrea Bedetti