Il compositore pugliese Antonio Cocomazzi si è fatto un nome nel mondo della musica per le sue opere, opere il cui denominatore comune è dato, come si può leggere tra le note del suo sito web da un «poliedrico mondo sonoro, naturale fusione di sonorità classiche, jazzistiche ed etniche che, partendo da influenze accademiche, evolve in un personale linguaggio aperto anche all’improvvisazione e alla contaminazione». E tra queste composizioni si annovera soprattutto quella che lo ha fatto conoscere anche al grande pubblico, una Messa da Requiem da lui composta a venticinque anni tra il 1998 e l’anno successivo, dedicata a padre Pio (Cocomazzi, tra l’altro, è nato proprio a San Giovanni Rotondo) per ricordare il trentesimo anniversario della morte del santo e rappresentata in prima assoluta nel 1999, quando il frate di Pietrelcina fu proclamato “venerabile”, composizione poi ripresa lo scorso anno, in previsione del ventesimo anniversario della canonizzazione di Padre Pio che è caduto nel 2022.
La versione originale del Requiem è stata composta per orchestra sinfonica, coro e quattro solisti vocali, mentre la versione rivista dall’autore nel 2021 mantiene le parti vocali come originariamente scritte, ma vede la compagine orchestrale sostituita da un organo. Tale trasformazione è avvenuta, come ha affermato lo stesso Cocomazzi, dopo essere rimasto folgorato dalla Messa da Requiem del compositore e organista contemporaneo francese Maurice Duruflé, che ebbe modo di ascoltare in una versione per organo solo con violoncello solo obbligato.
Tale riduzione nell’apporto strumentale non sembra penalizzare l’effetto d’impatto della struttura musicale (anche se ammetto di non conoscere la versione che prevede l’utilizzo dell’orchestra), ma ascoltando la registrazione che è stata fatta dalla Da Vinci Classics della versione 2021 (che vede impegnati i soprani Gabriella Costa e Nunzia Santodirocco, il tenore Vincenzo Bonomo, il basso Matteo D’Apolito, l’organista Mauro Visconti e il Coro Kemonia sotto la direzione di Salvatore Scinaldi), si può apprezzare la ricchezza del costrutto armonico e la resa di quello melodico. Certo, fin dal primo ascolto non si possono non notare richiami e influenze date dal Requiem mozartiano e da debite tensioni in chiave stravinskijana, come d’altronde ha ammesso lo stesso compositore pugliese. «Mi sono ispirato al Requiem di Mozart», come si legge dalle note di accompagnamento al disco. «Il suo Requiem mi ha sempre colpito, più di altri capolavori come quelli di Verdi o di Fauré. Nel mio Requiem ci sono movimenti in cui, come compositore, dovevo esprimere l’ira di Dio e la minaccia dell’inferno. In quelle occasioni è emersa un’ispirazione stravinskijana nel mio stile, in particolare per quanto riguarda il ritmo. […] Ho scritto il mio Requiem pensando da vicino a Mozart. Anche qui è stato come se Mozart mi stesse ispirando, o meglio guidandomi. Ero ossessionato dall’idea che Mozart fosse morto mentre stava componendo il suo Requiem. Questo mi ha portato a riflettere sul mistero dell’aldilà. E di trovare una risposta che non sia mai disperata o angosciata. La morte mi spaventa, certo, come accade a tutti gli esseri umani: nessuno di noi sa come e cosa accadrà. Eppure, in brani come il movimento di apertura, o alla fine del potente Confutatis, o nel Kyrie, ho sempre cercato di chiudere il brano con qualcosa di sospeso o di non conclusivo. Ad esempio, il primo pezzo si chiude con una quinta aperta, il cui modo resta indeciso».
Proprio la struttura e la scansione ritmica adottate da Cocomazzi rendono perigliosa l’esecuzione di questo Requiem, in quanto sovente, come nel caso del Rex Tremendae e del Kyrie, il compositore pugliese ha adottato una tecnica compositiva definita “multimetrica”, la quale implica che ogni barra della musica ha un’indicazione del tempo diversa, rendendo così assai complessa e impegnativa la sua lettura e interpretazione, anche se il risultato, a livello di ascolto, non mette in evidenza tali difficoltà. A differenza di quanto buona parte della produzione musicale contemporanea espone nella sua visione estetica, Antonio Cocomazzi non obbliga l’ascoltatore ad andare incontro alle sue composizioni, ma fa in modo che siano esse ad andare incontro all’ascoltatore, privilegiando così un approccio d’incontro che avviene in discesa a favore di chi le assimila.
Tale propensione a favore dell’ascoltatore, che permette di cogliere l’entità creativa fin dal primo approccio, non significa però che la musica del nostro autore sia depositaria di escamotages semplicistici o, peggio, di banalità sonore. Semmai, il mio consiglio è di ascoltare tale opera più volte per poter assimilare l’arcata generale, il suo processo complessivo, poiché l’assorbimento primario che se ne consegue al primo ascolto è soprattutto quello di restare colpiti da particolari insiti in ognuna delle quattordici parti di cui è formata. Personalmente, mi sono fatto l’idea che l’architettura generale di questo Requiem sia un simbolico respiro, in cui la dimensione immanente e quella trascendente si possono incontrare e unire in un insondabile mistero; l’immagine di questo respiro allegorico è dato da un alternarsi delle inspirazioni e delle espirazioni date dal furore e della placidità, dell’impeto e della dolcezza che non solo si realizzano nel succedersi delle parti, ma anche all’interno di esse, il cui punto di incontro è, però, sempre dato da una visione che richiama l’entità della contemplazione, la quale non è da intendersi in una dimensione passiva da parte dell’uomo, ma sempre attiva, coinvolta nella sfera spirituale che investe l’ascoltatore.
Inoltre, la finezza compositiva di Cocomazzi si avverte anche dal sapiente uso dell’accompagnamento dato dall’organo, il cui equilibrio è dato dalla non invasività, così come dalla sua contemporanea pregnanza timbrica, spesso simbolo stesso della dimensione divina, della sua presenza che nei momenti in cui la concitazione della scrittura appare (ma è per l’appunto, un’apparenza), risulta come l’immagine heideggeriana dell’«ormai solo la presenza di un dio assente ci può salvare». Ruolo non semplice quello che il coro deve affrontare, in quanto sollecitato in modo critico e le cui connotazioni e sfumature vocali esigono voci a dir poco all’altezza, cosa il Coro Kemonia porta a termine con sicurezza e passione, oltre a manifestare una padronanza timbrica capace di non sovrapporsi mai al volume sonoro dato dall’organo (a proposito, pienamente convincente Mauro Visconti).
Per quanto riguarda i solisti, tutti si sono dimostrati all’altezza, con una particolare nota di merito per Nunzia Santodirocco e Matteo D’Apolito, la cui tavolozza espressiva è ricca di sfumature non solo vocali, ma anche psicologiche. E bravo anche Salvatore Scinaldi, in grado di coordinare ottimamente tutti gli artisti in causa, oltre a saper restituire la debita tensione che governa quest’opera, instillando sempre la necessaria “elettricità” che l’impregna.
La presa del suono, fatta da Raffaele Pullara, è stata effettuata nella Cattedrale di Palermo e si contraddistingue per un’ottima pulizia sonora, cosa non facile in un ambiente così vasto e dispersivo, in quanto il suono è privo di fastidiosi riverberi. Merito di una dinamica precisa, assai veloce ed estremamente energica, capace quindi di ricostruire molto bene, scolpite nel palcoscenico sonoro, sia in altezza, sia in ampiezza, le voci dei cantanti e l’organo, fornendo un’apprezzabile profondità, anche se sia coro, solisti e organo risultano alquanto ravvicinati rispetto all’ascoltatore. Di eguale valore sia l’equilibrio tonale, sia il dettaglio, con il primo che vede adeguatamente scontornati il registro medio-grave da quello acuto nelle voci e con il timbro dell’organo che non risulta mai sovrastante, e con il secondo pregno di una piacevole matericità.
Andrea Bedetti
Antonio Cocomazzi – Requiem ad Patris Pii honorandam memoriam (Version for Soli, Choir and Organ)
CD Da Vinci Classics C00634