Il pianoforte a quattro mani di Brahms e l’esaltazione della forma
Non nascondo il fatto che ogni volta che mi appresto ad ascoltare una registrazione discografica con opere di Brahms mi sento felice, se per felicità s’intende la comunanza di intenti, una determinata visione del mondo e il riconoscersi totalmente nella visione musicale e in quella estetica del sommo compositore amburghese. E non faccio nemmeno fatica ad ammettere, cosa a dir poco sacrilega per chi dovrebbe essere “criticamente” super partes, che Brahms è il mio Dio, poiché la sua musica genera nel sottoscritto un processo di identificazione pressoché assoluta, senza contare che tale coinvolgimento non riguarda solo la sfera artistica, ma anche l’ambito propriamente umano, riconoscendo nella sua solitudine, nella sua ricerca di una felicità irraggiungibile, nel suo appartenere a un’epoca che non sentiva sua quegli elementi nei quali specchiarsi e attraverso i quali aprire le porte alla comprensione e all’accettazione della sua musica.
Quindi, alla luce di questa confessione spassionata, si potrà ben intuire quanto sia difficile per il sottoscritto poter affrontare, in sede critica, l’analisi di una registrazione discografica riguardante questo musicista tedesco, anche se il tempo, un senso di minimo distacco dalle cose e, confido, una pur remota capacità di valutazione oggettiva possono permettermi di ascoltare e capire ciò che l’interprete o gli interpreti hanno voluto offrire con la loro esecuzione. Anche perché personalmente sono confortato dal fatto, e qui si evidenzia un altro aspetto che comprendo benissimo in Brahms, di non essere certo di bocca buona, ma esigente e giustamente severo nelle mie critiche, così come il compositore amburghese lo fu nei confronti delle sue opere, una severità di giudizio tale che lo obbligò ad applicare quello stesso metro di critica nei confronti delle altre persone e di ciò che facevano, a cominciare dai rapporti con gli altri musicisti, che non furono di certo facili in massima parte.
Per fortuna, in questa occasione, il duo Corrado Greco & Massimiliano Baggio, il quale ha dato inizio all’incisione integrale delle sinfonie di Brahms nella versione pianistica a quattro mani, mi ha facilitato le cose, per via del fatto che il primo CD, pubblicato dall’etichetta Da Vinci Classics e dedicato alla Sinfonia n. 1 op. 68 e all’Akademische Festouvertüre op. 80, vanta qualità stilistiche e interpretative a dir poco convincenti, come avrò modo di spiegare più avanti. Ciò che mi preme ora affrontare brevemente, per coloro che non conoscono le peculiarità stilistiche brahmsiane, riguarda un aspetto fondamentale e che viene messo proprio in luce dalla musica pianistica a quattro mani, vale a dire l’importanza data dalla forma, la quale ammanta e intride tutta l’opera del nostro e la cui presenza irrinunciabile, a livello non solo armonico, ma soprattutto estetico, ha portato Brahms ad essere al centro di sterili polemiche e a fraintendimenti artistici. Mi riferisco, ovviamente, alla trita e ritrita querelle tra lui e Wagner, messi inopinatamente a capo di due contrapposti partiti, quello dato dai cosiddetti puristi classici, fomentati da Eduard Hanslick, e quelli appartenenti alla “musica dell’avvenire”, incarnata per l’appunto da Wagner e da Liszt, rappresentati dall’opera critica ed esecutiva di Hans von Bülow.
Brahms, però, oltre a trovarsi in imbarazzo rispetto a questa contrapposizione che andò oltre i connotati artistici giungendo a sfiorare aspetti meramente ideologici, se non a livello politico almeno in chiave antropologica, non considerò mai la forma musicale come un elemento di antitesi, di confronto, di “antagonismo armonico” rispetto a un “nemico” da combattere e da sconfiggere, ma come necessaria chiave di volta per conciliare la grande tradizione del passato (Beethoven, innanzitutto) con le innegabili possibilità di sviluppo del futuro linguaggio musicale (anche se, a dire il vero, nel corso un incontro che avvenne tra lui e Mahler, Brahms si lamentò del fatto che la musica moderna era ormai finita, al che il compositore boemo, mentre attraversavano un ponte, gli indicò la corrente che obbligava l’acqua del torrente a scorrere incessantemente senza mai fermarsi, facendogli così intendere che la musica non avrebbe mai potuto morire).
L’Untergang, il tramonto di ciò che è passato, trascorso, con la speranza, o forse l’illusione, di una nuova Morgenröte, di un’aurora futura nella quale confidare a livello salvifico per la musica stessa: ecco che cosa fu per Brahms la forma, assolutamente convinto che incarnasse musicalmente un nietzschiano “eterno ritorno”, con l’artista obbligato a un continuo e inesauribile confronto creativo. Ma la ricerca e l’attuazione della forma in Brahms è soprattutto la possibilità di rendere una composizione, investita per l’appunto da tale forma, squisitamente adattabile al processo della trascrizione e della riduzione: dare forma, per il compositore amburghese, è soprattutto conferire mutabilità all’opera stessa, presentarla e valorizzarla attraverso approcci strumentali ed esecutivi diversi; ciò significa che una forma armonicamente riuscita, equilibrata, capace di esaltare il costrutto, può essere resa altrettanto bene nel momento stesso in cui l’opera viene trascritta o ridotta (e, in tal senso, Brahms prendeva sempre come esempi le pagine di Bach e di Beethoven).
Da qui si comprende meglio per quale motivo la maggior parte delle composizioni brahmsiane, che siano originariamente scritte per la musica da camera, per quella orchestrale, concertistica o sinfonica, può essere validamente eseguita nella riduzione di un pianoforte a quattro mani, in quanto la forma che le contraddistingue e le sostiene vanta quella mutabilità stilistica che le rende atte a tale tras-mutazione. Mi chiedo quanti autori siano stati in grado di “liofilizzare” la loro musica, senza che ciò facesse venire meno il loro “gusto” così come fece Brahms. Ecco perché ascoltare buona parte del catalogo del nostro nella versione pianistica a quattro mani diviene fondamentale per la sua reale comprensione e profondità. E questo vale soprattutto per quelle opere di maggior vastità e complessità, come il corpus sinfonico, visto che Brahms, e questo dato ci fa comprendere come il loro ascolto nella versione originaria debba essere fatto parallelamente a quello per la versione pianistica a quattro mani, sovente portò avanti la loro scrittura parallelamente proprio a quella riguardante il pianoforte con due interpreti.
Evidentemente, Corrado Greco & Massimiliano Baggio devono aver tenuto a mente tali peculiarità, poiché la loro registrazione che dà inizio a questa nuova integrale per pianoforte a quattro mani delle sinfonie di Brahms vanta un approccio che mette in luce alcuni aspetti che meritano di essere analizzati. La prima, e più lampante, è come l’applicazione, l’esposizione della forma adottata dal duo campano non tenda mai a sottovalutare o, peggio, a delimitare la dimensione della musicalità che è insita in questo capolavoro: una musicalità che viene resa attraverso una timbrica cristallina, piacevolmente pulita, netta, ma non per questo asciutta, fredda come possono essere le notti invernali ad Amburgo o a Vienna, ma sempre luminosa. Questa luminosità del timbro trovo che abbia un vantaggio che non dev’essere sottovalutato: se consideriamo la Prima sinfonia brahmsiana, per via delle sue proporzioni e della vastità di intenti, come una cattedrale gotica con le sue zone toccate dalla luce e altre poste invece in penombra o immerse nel buio, la musicalità adottata dai due interpreti ha il merito di illuminare lasciando nell’ombra, ossia non intaccando le densità cromatiche, se si vuole usare un termine pittorico, permettendo però alla luce timbrica di far percepire, e questo vale ovviamente per il registro grave e medio-grave, ciò che si cela nei punti più oscuri della tessitura armonica. E qui bisogna fare soprattutto attenzione a come Greco & Baggio sono stati in grado di rendere al meglio l’elemento ritmico che sovrintende, a livello di arcata generale, il primo tempo, i cui continui richiami beethoveniani si nutrono di quelle luci e di quelle ombre di cui è detto; un ritmo appassionato, ma allo stesso tempo logico (nel senso matematico del termine), attento ai pesi e contrappesi che tale andamento ritmico sposta e modifica in continuazione (quando l’esecuzione riesce a fare ciò, questo straordinario primo tempo vive di un respiro che può essere esemplarmente colto tra le stesse pieghe ritmiche, senza che queste diano l’impressione di una sterile scansione temporale).
Un altro aspetto riguarda naturalmente il dato lirico, melodico, incarnato miracolosamente dall’Andante sostenuto, in cui la forma, sempre sostenuta da un impianto ritmico da governare e gestire in ambito agogico, deve fare i conti con i debiti rimandi che Brahms utilizza per dare continuità all’idea globale dell’opera; rimandi che puntano il dito verso il Benedictus della Missa Solemnis di Beethoven e verso la Romanza inserita nella Quarta sinfonia di Schumann, vale a dire i due numi tutelari sui quali il genio di Amburgo faceva sempre e instancabilmente riferimento e dai quali attingeva la sacra lezione della Tradizione classica. Così, l’esposizione dei due temi che governano il secondo tempo, quello dato dai violini e dal clarinetto, viene liricizzata senza che il timbro pianistico ne risulti “ingolfato”, ma reso da un fluire dalla coppia di interpreti che forse avrebbe fatto sorridere Eraclito, nell’idea di quello scorrere al quale il giovane Mahler fece intendere al vetusto e incupito Brahms su quel ponte durante la loro passeggiata. E poi il terzo tempo, quel Poco allegretto che a livello pianistico diviene un campo minato, per via del fatto che l’interpretazione dev’essere leggera, trasportando la tastiera su una nuvola soffice e intingendo il gesto della pressione in una dolce mestizia (il voltarsi indietro, l’essere già vittima dei ricordi a quarant’anni, il che costringe Brahms a dare vita a uno Scherzo che più luterano non potrebbe essere, sebbene fosse già conscio di essere preda di uno scetticismo metafisico che non lo abbandonò mai più), una leggerezza triste, giocata su una parvenza di lirismo contrito, esasperato timbricamente nella parte centrale, ed espressa compiutamente dai due interpreti campani, i quali sono consci di come questo terzo tempo debba rappresentare una sorta di trampolino di lancio per esemplificare al meglio le insondabili profondità che governano e reggono il tempo Finale, la cui abissale apertura rimanda necessariamente a quella che dà avvio al Finale della Quarta sinfonia. Anche qui, i problemi di resa interpretativa non mancano: c’è solo l’imbarazzo della scelta, con i timpani della versione originale che devono scemare tra i tasti pianistici, tra la dimensione “tragica” (ancora Nietzsche!) che zampilla dalle sue prime note, ma la cui sincopaticità non deve scadere in una scala singulta, ma anche qui necessita di un’invisibile fluidità tra un accordo e l’altro, fino a quando il registro medio-acuto del pianoforte enuncia lo squarcio dato dal corno e dal corrispettivo richiamo del paesaggio alpino, indicato dallo stesso Brahms. Un momento che il duo rende in modo ieratico, solenne (come non ricordare, ancora una volta, Schumann e l’andamento severo del quarto tempo, Feierlich, della sinfonia Renana?), dando vita a una concezione processuale, indispensabile per fornire l’abbrivio al cuore stesso del Finale brahmsiano, ossia quando il paesaggio alpino lascia spazio al paesaggio interiore del compositore, un paesaggio che è retto dalle colonne di un classicismo che non fa però rima con passatismo. Ancora senso ritmico, inzuppato in una linea melodica, lirica, struggente nella sua semplicità tematica, che deve trasformarsi, e ancora una volta il duo riesce a farlo, in una sorta di Lied implosivo che deve però esplodere quando il Finale giunge alla conclusione con il suo inevitabile richiamo all’Inno alla gioia di beethoveniana memoria, arma a doppio taglio della quale lo stesso Brahms ammoniva della sua pericolosità, dalla quale ci si può salvare esaltando il costrutto contrappuntistico (come a dire che San Bach deve intervenire come San Gennaro), il quale allo stesso tempo non deve mai abbandonare la dimensione lirica (il paesaggio è sempre presente, non viene mai meno), fino alla trionfale coda che non deve cedere il passo alla magniloquenza (non siamo ancora alla Grande porta di Kiev che conclude i Quadri di un’esposizione di Musorgskij). Umanamente esemplare.
Per arrivare a sfiorare un’ora di registrazione, il duo ha poi inciso l’Akademische Festouvertüre, la cui costruzione architettonica si basa su quattro precisi momenti/richiami, ossia le altrettante canzoni studentesche Wir hatten gebauet ein stattliches Haus, Der Landesvater, Das Fuctislied e la celeberrima Gaudeamus igitur. Qui, la capacità di assemblamento da parte di Brahms nel rendere omogenea la struttura generale dell’opera, amalgamando alla perfezione, grazie alla Dea forma, questi quattro richiami è pari a come il duo Greco & Baggio ne propone una lettura in cui l’elemento bonario, scanzonato, volgare, se vogliamo, viene nobilitato dalla classicità del gesto pianistico, sovrastato da una timbrica, questa sì apertamente orchestrale, ma mai sopra le righe, tale da divenire sguaiata. Essere buontemponi va bene (e Brahms fu, malgré soi, un buontempone), ma sempre con stile e savoir faire!
Anche la presa del suono, effettuata da Pietro Soraci (il quale oltre ad essere un fenomenale pianista, dimostra di saperci fare anche nell’impervio campo dell’ingegneria del suono) è altrettanto convincente. Prima di tutto, la dinamica è energica, ma senza risultare enfatica, in modo da poter restituire anche le sfumature timbriche date dalla microdinamica, con una nota di piacevole naturalezza da parte dello Steinway utilizzato per l’incisione. Il palcoscenico sonoro ricostruisce lo strumento a debita profondità e non invece in modo ravvicinato, cosa che accade spesso in sede di registrazioni pianistiche; ciò non pregiudica la resa del dettaglio, che è sempre debitamente messo a fuoco, scontornato da rassicuranti dosi di nero che ne evidenziano la matericità. Anche l’equilibrio tonale, parametro fondamentale nelle prese di suono dedicate al pianoforte a quattro mani, mostra un pieno rispetto dei registri acuti e medio-gravi, senza che gli uni si sovrappongano reciprocamente agli altri, a tutto vantaggio di una migliore percezione dei piani sonori, così importanti per assimilare meglio, in fase di ascolto, l’azione della forma brahmsiana.
Andrea Bedetti
Johannes Brahms – Complete Symphonies for Piano 4-Hands Vol. 1
Symphony No. 1 Op. 68 – Academic Festival Ouverture Op. 80
Corrado Greco & Massimiliano Baggio (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00433