Il linguaggio della viola nella musica da camera del secondo Settecento
Quanto tempo ci volle affinché la musica strumentale potesse sganciarsi dalle inesorabili leggi che il canto impose fin dalla nascita dell’arte dei suoni, recidendo, una volta per tutte, il cordone ombelicale che li aveva tenuti assieme per secoli e secoli? Non meno di duecento anni, se proprio vogliamo essere di manica larga, facendo sì che gli strumenti, a cominciare da quelli ad arco, potessero avere ancora nostalgia della voce umana, cercando quindi di imitarla, di esplorarla, di ripercorrerla, di cercarla con il loro suono; fu quindi solo a partire da quel Barocco ormai maturo e consapevole dei propri mezzi, dunque a metà del XVIII secolo, che la musica strumentale comprese pienamente la propria portata, la sua totale autonomia, permettendo agli strumenti utilizzati di esprimere un linguaggio che potesse intraprendere e seguire un sentiero nel quale non c’era più bisogno di attendere l’irruzione del canto, della voce umana pronta a sostenerli.
Ma per fare ciò si dovette aspettare l’instaurarsi di precise condizioni non solo musicali, ma più ampiamente culturali tout court (con l’aiuto, dunque, anche della letteratura e della pittura), dapprima regolate dal concetto dell’Empfindsamkeit, di quello stile sentimentale capace di muovere a compassione, e poi da quello stile galante, in cui il suono strumentale fu votato nello stimolare e nell’esaltare la passione attraverso un linguaggio artistico-culturale semanticamente edulcorato, ma non per questo meno esplicito e diretto (se non lo avete fatto, leggete il capolavoro di Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos, Le relazioni pericolose, ricordandovi sempre che fu scritto nel 1782, focalizzando in modo esemplare le atmosfere evocate nella pittura e nella musica del tempo).
È nel passaggio dalla fase astratta a quella raffigurativa della musica barocca (con il testimone che viene passato dal sommo Kantor ai figli) che si attua, quindi, l’irruzione prima dell’empfindsamer Stil e poi dello stile galante, pruderie estrema di quel rococò che va a intasare lo sgorgo culturale della seconda metà del Settecento. Ed è proprio in questo lasso di tempo e di temperie che si fissa la registrazione discografica fatta dalla giovane violista Francesca Venturi Ferriolo (leggi qui la sua intervista), accompagnata da Johannes Berger al violoncello e da Hwa-Jeong Lee al clavicembalo e al fortepiano, per la Da Vinci Classics, con un programma di Sonate cameristiche di Johann Gottlieb Graun, Carl Philipp Emanuel Bach, Johann Gottlieb Janitsch, Felice Giardini e William Flackton, incentrato dunque sul passaggio tra l’Empfindsamkeit e lo stile galante e fermandosi alle colonne d’Ercole del Classicismo viennese. Un programma che la stessa violista ha voluto fissare, partendo dal titolo del disco, More than a dull ripieno!, il quale si basa su un’espressione usata dal compositore inglese Flackton in sede di introduzione alla sua raccolta di 3 soli per viola e basso continuo e 3 per violoncello e basso continuo op. 2 risalente al 1770, nella quale affermò che il ruolo dato alla viola andava ben oltre al solito, noioso ripieno armonico e melodico che era stato riservato fino ad allora a questo strumento, sempre subalterno al violino.
E in effetti, le opere scelte, la Sonata in si bemolle maggiore per viola e fortepiano A:XV:16 di Graun, la Sonata in sol minore per viola e fortepiano Wq 88/H.512 di Bach, il Trio Sonata in re maggiore per viola e fortepiano SA 3444 di Janitsch, la Sonata in fa maggiore per viola e basso continuo “Per Lord Aylesford Billiardo” di Giardini e la Sonata VI in sol maggiore per viola e basso continuo dai Sei Soli op. 2 di Flackton riescono a fornire un quadro esaustivo, uno scorcio non solo musicale, ma prima di tutto culturale del passaggio tra questi due stili, il cui denominatore comune è dato proprio dalla capacità da parte della viola di abbandonare lo scomodo ruolo di “ripieno” per assurgere a una dimensione a tutto tondo, grazie alla quale le sue potenzialità, le sue peculiarità, la sua paletta espressiva vengono poste in debita luce, rendendola protagonista finalmente di uno scorcio cameristico che non fa rimpiangere la presenza ingombrante del violino.
Quella della giovane violista italiana è stata una scelta intelligente, in quanto oltre a inserire nel suo programma discografico un classico come la Sonata di C. P. E. Bach (che rappresenta il brano più riuscito e articolato tra quelli presentati, poiché la classe non è acqua), ha fatto in modo di presentare autori che, al di là degli addetti ai lavori e agli specialisti del periodo in questione, non sono debitamente conosciuti, come nel caso di Janitsch (colpisce la freschezza e l’inventiva della sua Sonata) e del già citato Flackton, la cui presenza è data non tanto, a mio avviso, dalle peculiarità del suo stile compositivo, non certo innovativo alla stessa stregua di un Graun o dello stesso Janitsch, quanto per il fatto di essere stato all’epoca, come si è visto, uno dei pochissimi musicisti che seppero difendere ed esaltare la viola davanti allo strapotere violinistico.
Che la giovane violista ci tenesse in modo particolare a questo disco lo si può desumere non solo dalle note di accompagnamento in cui spiega le finalità della sua operazione discografica, ma soprattutto dall’esecuzione che lei e gli altri due interpreti hanno saputo fornire. Una lettura, la loro, che denota cura, attenzione, entusiasmo, desiderio di svelare un mondo sconosciuto ai più attraverso una resa all’insegna di un preciso progetto filologico, che nulla toglie però alla brillantezza del risultato ottenuto. Al di là degli strumenti utilizzati, tra cui spiccano una copia di un fortepiano di Johann Gottfried Silbermann, i cui strumenti erano di casa nelle proprietà di Federico II di Prussia e usualmente usati dallo stesso Carl Philipp Emanuel Bach, e una copia di un fortepiano di Bartolomeo Cristofori, i tre protagonisti di questa registrazione sono stati artefici di un’esecuzione in cui la dimensione timbrica è sempre equilibrata, calibrata, ma anche ricca di quella passionalità e di quell’eleganza che hanno contraddistinto i due periodi presi in esame, facendo sì che questo disco sia non solo un resoconto di come la viola seppe prendersi le sue rivincite in un’epoca oggettivamente per essa difficile, bensì soprattutto una testimonianza sonora di un fenomeno culturalmente più vasto e articolato, del quale la musica cameristica ha saputo ricostruire uno scorcio parziale, ma essenziale.
La presa del suono risulta essere apprezzabile, in quanto ha saputo restituire, attraverso una più che buona dinamica, le peculiarità timbriche degli strumenti utilizzati, inserendoli correttamente all’interno del palcoscenico sonoro e contrassegnata da un adeguato equilibrio tonale e da un efficace dettaglio.
Andrea Bedetti
AA.VV. – More than a dull ripieno! Baroque Sonatas for Viola
Francesca Venturi Ferriolo (viola) - Johannes Berger (violoncello) - Hwa-Jeong Lee (fortepiano & clavicembalo)
CD Da Vinci Classics C00280