Il flauto dolce nel mondo della scuola napoletana e veneziana
Disco del mese di Novembre 2022
Parlare del genere cameristico formato dal flauto dolce e dal clavicembalo all’inizio del XVIII secolo significa fondamentalmente circoscrivere tale ambito musicale a due sole realtà presenti nel vecchio continente, vale a dire quelle formate dalla scuola napoletana e dalla scuola veneziana, le quali influenzarono in modo determinante lo sviluppo compositivo in tutta Europa e, allo stesso tempo, furono a loro volta influenzate dai grandi virtuosi stranieri di questo strumento a fiato. Inoltre, bisogna considerare anche la svolta che si ebbe nei gusti musicali e nella loro realizzazione estetica, quella avvenuta tra il XVII e il XVIII secolo, quando si sviluppò una totale ridefinizione degli stili e dei generi musicali che portò, nel giro di pochissimi decenni, alla formazione di un vero e proprio “manifesto programmatico” con il quale molti compositori dell’epoca dovettero confrontarsi, ossia lo stile galante.
Nella sfera della musica cameristica, le esigenze e le peculiarità dello stile galante seppero infondere nuova linfa alle capacità espressive date sia dall’oboe, sia a quello che può essere definito il “fratello povero” (ma tale espressione deve essere usata con molta attenzione), cioè il flauto dolce, il quale visse un’epoca da strumento protagonista, in quanto ciò che nacque a favore dello stesso oboe e anche del violino, poté essere trasposto, a livello di trascrizione, anche al flauto dolce, in quanto le composizioni originarie potevano soventemente adattarsi alla gamma naturale di questo versatile strumento.
Per comprendere meglio sia l’importanza delle due scuole italiane nel passaggio agli stilemi dello stile galante, sia di come il flauto dolce seppe incarnare ed esaltare musicalmente tale momento, giunge a dir poco opportuna una registrazione fatta dall’etichetta tedesca TYXart e che vede protagonisti la flautista svizzera Sabrina Frey e il clavicembalista francese Philippe Grisvard, i quali hanno inciso pagine cameristiche per questi due strumenti scritte in massima parte da autori italiani che operarono nella prima metà del Settecento, in concomitanza con l’avvento e la diffusione dello stile galante. Infatti, al di là della Sonata X a Flauto con il suo Basso Continuo in sol minore del musicista di lingua tedesca Ignazio Sieber, gli altri compositori presi in esame sono tutti italiani, a cominciare da Giuseppe Sammartini, con la Sonata Prima in do maggiore e la Sonata III Flauto Solo e Cembalo in mi minore, proseguendo poi con la Sinfonia a Flauto Solo con Basso in sol minore di Giacomo Ferronati, con la Sinfonia De Scarlatti a Flauto e Basso in sol maggiore di Alessandro Scarlatti, con la Sonata Flauto Solo e Cembalo, RV 806 in sol maggiore di Antonio Vivaldi e con la Sonata VII per flauto e clavicembalo in do maggiore di Francesco Mancini.
Ignazio Sieber appartenne a quel gruppo di virtuosi dell’oboe che, affascinati dalla grande popolarità del flauto dolce in Italia, si trasferirono nel nostro Paese per diventare maestri di questo strumento. Così, Sieber si guadagnò da vivere principalmente a Roma e Venezia, dove presumibilmente lavorò come docente presso la scuola dell’Ospedale della Pietà tra il 1704 e il 1722, dove ebbe modo di conoscere anche Vivaldi, al quale fu molto legato durante la sua permanenza. Come puntualizza nelle sue interessantissime note di accompagnamento al disco, Vanni Moretto ricorda come nella sonata di Sieber si possano individuare influenze compositive di Corelli già nelle primissime battute della composizione, che si evidenziano nella rapida alternanza tra minore e maggiore e nelle vorticose “quinte figure” che aprono e strutturano il primo tempo, un Allegro. Un altro aspetto interessante di questa sonata è che il tempo che la conclude è una Giga, ossia una danza vivace di origine inglese o irlandese, che include salti e rapidi movimenti su e giù della linea di basso. La Giga, pur essendo utilizzata come elemento sonatistico negli ultimi vent’anni del XVII secolo, ebbe un ruolo importante in qualità di tempo finale di sonate, concerti e sinfonie solo a partire dalla fine del XVIII secolo, anche se in questo disco la vediamo nella Sinfonia di Scarlatti e in quella di Vivaldi (dove, anche se non esplicitamente citato nel tempo finale, ha una struttura e un andamento tipico, nella sequenza lento-veloce-lento-veloce, della Giga).
Giuseppe Sammartini (nato nel 1695) non è famoso come il fratello minore Giovanni Battista, ma la sua Sonata presente in questo disco rappresenta un notevole esempio di trasposizione dal repertorio violinistico al flauto, come dimostra il fatto che questo lavoro ci è giunto in due diverse versioni manoscritte, quella originale in do maggiore e una trascrizione in fa maggiore, quest’ultima espressamente indicata per il flauto. C’è da notare, però, che in questa registrazione la Sonata di Sammartini viene presentata nella tonalità di do maggiore, ossia quella originale, poiché all’epoca era consuetudine trasporre i brani di una quinta in alto quando venivano eseguiti con il flautino. Allo stesso modo, l’altra sua Sonata presente in questo disco, quella in mi minore, rappresenta già un tipico esempio del comporre in modo “galante”, coinvolgendo di fatto anche la dimensione squisitamente semantica del “comporre”; questo perché il compositore milanese, partendo dalle diverse tradizioni armonico-melodiche a sua disposizione, derivate dalle danze e da altre pratiche musicali del secolo precedente e ulteriormente arricchite da decenni di scambio e di “semantizzazione”, per l’appunto, ebbe la possibilità di utilizzarle come “mattoni” compositivi di un nuovo e “altro” discorso musicale decisamente più moderno.
Del compositore Giacomo (o Lodovico) Ferronati non sappiamo praticamente nulla, al punto da mettere perfino in dubbio la sua esistenza, anche se è vissuto di fatto un violinista di nome Lodovico Ferronati. Fatto sta che il suo nome viene riportato in una raccolta assemblata verso la metà del XVIII secolo, appartenente a Paolo Antonio Parensi, un commerciante lucchese e flautista dilettante, raccolta che rappresenta la tipica fonte compilata a favore di dilettanti o professionisti per essere usata nel corso di concerti pubblici o privati. Questa raccolta, intitolata Sinfonie di Varij autori, costituisce un importante punto di riferimento nella definizione del repertorio flautistico di quell’epoca e contiene un vasto numero di sonate violinistiche trascritte per altri strumenti. Tornando a Lodovico Ferronati, attivo presso la Cattedrale di Santa Maria Maggiore di Bergamo, nella sua Sonata op. 1 n. 8, composta nel 1710, troviamo la versione originale per violino dei primi due tempi di questa trascrizione per flauto. Il titolo di questa Sonata è Sinfonia à flauto Solo e Basso del Sig.re Giacomo Ferronati. Come ricorda giustamente lo stesso Vanni Moretto, è interessante notare come la definizione “Sinfonia” risultasse ancora del tutto ambigua, riflettendo di fatto sull’indefinitezza delle forme e dei generi ancora in atto tra la fine del XVII secolo e quello successivo, visto che ancora nel quarto decennio del Settecento termini come “Sinfonia”, “Concerto” e “Sonata”, in ambito strumentale, venivano usati del tutto a caso.
Guarda caso anche la Sonata in sol maggiore di Alessandro Scarlatti porta il titolo di “Sinfonia” ed è anche quella più antica tra quelle presentate in questa registrazione, tenuto conto che risale al 1699; dobbiamo tenere conto di questa data, poiché la grandezza del compositore palermitano risiede anche nell’aver anticipato alcune successive conquiste fatte dallo “stile galante”, che nella Sonata in questione si focalizzano soprattutto nell’ultimo tempo, ancora guarda caso una Giga, nel quale Scarlatti, quasi avesse voluto divertirsi e divertire l’ascoltatore, applica il criterio dell’inversione, che si basa su sezioni di nove battute, suddivise in 4+4+1, dando al fraseggio un tocco in levare, ossia facendo salire nella sezione B le frasi che invece scendevano nella sezione A e viceversa, dando l’impressione, a livello di ascolto, di una peculiarità “esotica” del brano in questione e anticipando, di fatto, la moda delle future e tanto utilizzate Turqueries in ambito “galante”.
Tanto per restare nella categoria dei geni, ecco la Sonata in sol maggiore di Antonio Vivaldi, la cui frequentazione con il flauto ci è stata confermata dal giudice, politico e viaggiatore Charles De Brosses, il quale riportò testualmente che questo strumento a fiato veniva insegnato all’Ospedale della Pietà, dove appunto il “Prete rosso” era maestro di musica, senza dimenticare che il rapporto profondo con la natura nei suoi aspetti mitologici e bucolici aspetti, scaturiti dalla cultura e poesia arcadiche, fu indubbiamente alla base del successo del flauto in quel contesto temporale, se si tiene conto che questo strumento rimandava allegoricamente alla figura del dio Pan. La sonata qui presentata è oltremodo interessante, in quanto rappresenta un raro esempio di pezzo originale per flauto trascritto poi per violino (nella Sonata RV 810, per l’esattezza). Si parlava della genialità (con buona pace di Stravinskij… ) vivaldiana, cosa che in questa Sonata può essere individuata, tra i vari aspetti, nella capacità di scegliere strutture armoniche statiche che risultano essere asimmetriche o imprevedibili nella durata o metricamente irregolari. Questo perché l’irregolarità metrica è forse la più importante caratteristica vivaldiana rispetto ai suoi contemporanei. Come fa ancora notare Vanni Moretto, anche quando il riferimento a una danza è evidente, come nel terzo tempo di questa Sonata, ossia il Largo, con il suo chiaro motivo siciliano, Vivaldi è attento a non adottare la tradizionale simmetria di danza, impostando invece una ben più imponente struttura metrica, che si fissa nel segmento A in sette battute (2+2+2+1) e in quello B, con sei battute (2+1.5+2.5).
L’ultima sonata racchiusa in questo disco è quella in do maggiore di Francesco Mancini, inclusa in una raccolta pubblicata in Londra nel 1724 dal titolo XII Solos for a Violin or Flute. Questo compositore partenopeo lavorò alla Cappella Reale di Napoli come assistente di Scarlatti dal 1708 al 1725. Johann Joachim Quantz lo incontrò proprio in quell’ultimo anno e lo citò, insieme con Johann Adolf Hasse, Leonardo Leo e Francesco Feo, come uno dei più importanti compositori del capoluogo partenopeo. Mancini fu un compositore fondamentalmente operistico e tale caratteristica si manifestò anche nella sua produzione strumentale, che presenta un’abbondanza di prestiti e autocitazioni dal suo repertorio operistico. Le caratteristiche più evidenti dello stile di Mancini sono la sua agilità armonica, la sua preferenza per l’imitazione contrappuntistica e i fugati, oltre a un uso di accorgimenti teatrali, come le tre note prominenti che ricorrono nel primo tempo della Sonata in do maggiore, tutti attributi, questi, che sono caratteristici della Scuola napoletana di quell’epoca.
Definire coinvolgente la lettura fatta dai due interpreti è dir poco: se Sabrina Frey riesce a infondere al flauto tutte le caratteristiche, tutte le peculiarità, tutti i bisogni richiesti da questi brani, da parte sua Philippe Grisvard trasforma il clavicembalo in una pletora di sfumature stilistiche e timbriche che arricchiscono in modo indispensabile quanto enunciato dallo strumento a fiato. Entrando nello specifico, l’esaltazione della melodia viene sempre accomunata a un prodigioso senso ritmico, senza che il fraseggio, inappuntabile, ne possa soffrire con momenti di stanchezza o di perdita di tensione esecutiva. Più che essere eseguiti, queste composizioni vengono incarnate, così come viene ricostruita idealmente la loro epoca, nella quale lo sviluppo del dialogo, del confronto tra due e più strumenti acquisisce una connotazione del tutto diversa, che porterà poi alla completa maturazione che coincide con il Classicismo viennese. Consigliato anche a chi non ama solo la musica barocca, ma vuole capire come la musica strumentale cameristica è destinata ad essere sempre più preponderante.
Disco del mese di novembre di MusicVoice.
Il consueto lavoro audiofilo fatto da Andreas Ziegler si ripresenta anche in questa presa del suono; la dinamica è un concentrato di velocità, naturalezza ed energia, esaltata dal formato 24 bit/96 kHz utilizzato e che permette anche al supporto fisico di soddisfare i palati di ascolto più raffinati ed esigenti. La ricostruzione del palcoscenico sonoro è dello stesso livello, con il flauto dolce che si staglia al centro dei diffusori in una posizione leggermente avanzata rispetto al clavicembalo, con la netta sensazione della profondità dello spazio fisico che si attua tra i due strumenti. Stesso discorso per i due parametri restanti: l’equilibrio tonale è sempre nettamente distinto tra flauto e clavicembalo, con una grana del timbro che risulta perfettamente scontornata, esaltando di conseguenza i registri dei due strumenti, mentre il dettaglio è un concentrato di matericità capace di ricostruire a livello tattile sia il flauto, sia il clavicembalo.
Andrea Bedetti
AA.VV. – Italian Sonatas 1730. Remembering Naples & Venice
Sabrina Frey (flauto dolce) – Philippe Grisvard (Clavicembalo)
CD TYXart TXA 21166
Giudizio artistico 5/5
Giudizio tecnico 5/5