Il delicato equilibrio tra flauto, violoncello e pianoforte
Non è un mistero che il genere cameristico dedicato al Trio per flauto, violoncello e pianoforte, oltre ad essere timbricamente particolare, sia estremamente limitato nel numero di pagine dedicate ad esso. Dunque, quando ho adocchiato una recente registrazione, pubblicata dalla Da Vinci Classics e dedicata a tre composizioni per questo tipo di Trio, ho deciso di ascoltarla e di recensirla. Le tre composizioni in questione sono il Trio in re maggiore Hob. XV: 16 di Franz Joseph Haydn, il Trio in sol maggiore op. 119 di Friedrich Kuhlau, e quello in sol minore op.63. J. 259 di Carl Maria von Weber, in un percorso temporale (e culturale) che va dal Classicismo al Romanticismo, e che sono state eseguite dalla flautista Anja Kreuzer, dal violoncellista Martin Pratissoli e dalla pianista Johanna Zathey.
Avendo praticamente setacciato quasi tutte le possibili combinazioni strumentali in ambito cameristico durante la sua lunga attività di compositore, Haydn dedicò al Trio per flauto, violoncello e pianoforte tre pagine che, a loro volta, vanno a rappresentare una sorta di satellite che ruota intorno al pianeta nel quale confluiscono gli oltre trenta Trii dedicati al pianoforte, al violino e al violoncello. Questi ultimi, sebbene siano stati costantemente creati nell’arco di circa un trentennio, si concentrano soprattutto nel periodo che va dal 1784 al 1796, ossia all’interno della produzione più matura del compositore austriaco. Ma maturità, in questo caso, non coincide affatto con sofisticato equilibrio della forma, del trattamento degli strumenti e, di conseguenza, del risultato finale (e ciò è vero anche per i tre Trii per flauto, violoncello e pianoforte). Questo tipo di risultato, frutto di opere strutturate con una certa disinvoltura, rispetto agli esiti maggiormente felici ed efficaci in altri generi, non è da imputarsi a sciatteria o superficialità, ma è riferibile a un’attitudine che ha contraddistinto la seconda metà del Settecento musicale. Difatti, dobbiamo tenere a mente che alla fine del XVIII secolo il genere del Trio con pianoforte fu considerato, e in ciò rientrano tutte le composizioni cameristiche con pianoforte, decisamente meno impegnativo e stimolante, da un punto di vista compositivo, dei lavori consacrati ai soli archi (a cominciare dal genere principe, ossia il quartetto per archi), poiché destinato essenzialmente agli appassionati dilettanti, quelli che in tedesco vengono definiti con il termine di Liebhaber. Da qui si spiega facilmente il perché di questa mancanza di profondità, di complessità, di quella sperimentazione strutturale e di linguaggio che portò la musica cameristica “extra pianistica” ad avvicinarsi con maggiore velocità ed efficacia al Classicismo più compiuto e articolato, mentre opere con la presenza del pianoforte rimasero maggiormente all’insegna di uno spensierato disimpegno, in modo da risultare più appetibili ed eseguibili per il pubblico, sempre più numeroso, dei Liebhaber, in buon a parte appartenenti all’emergente classe borghese.
Quindi, i tre Trii per flauto, violoncello e pianoforte, indicati come Hob. XV: 15-17, scritti da Haydn nel periodo aureo della sua maturità, devono il loro carattere disimpegnato proprio per il desiderio del loro autore di venire incontro alle necessità esecutive di appassionati dilettanti, soprattutto di coloro che, in terra d’Albione, nutrivano una grande passione per questo strumento a fiato, al punto che per prendere due piccioni con una fava, il compositore austriaco fece pubblicare queste opere quasi contemporaneamente in Inghilterra, esattamente dall’editore John Bland, e a Vienna, dal suo editore di riferimento Artaria, creando così un problema “diplomatico”, a livello di diritti d’autore, tra i due editori.
L’ascolto di questo Trio, suddiviso in tre tempi che complessivamente durano poco più di quindici minuti, ci fa comprendere perfettamente le finalità appena addotte; brillantezza nell’esposizione, linea melodica accattivante, assenza di complessità tecniche, soprattutto nella parte del pianoforte, ecco le peculiarità di questo brano che, rispetto a quanto stava componendo e a ciò che avrebbe scritto a breve, stupirà gli appassionati haydniani, magari anche delusi da una comprensibile banalità del tutto.
Le cose tendono a migliorare leggermente, almeno a livello di scrittura compositiva, con il tedesco naturalizzato danese Friedrich Kuhlau, soprattutto per quanto riguarda la parte dello strumento a fiato (non per nulla, all’epoca fu definito pomposamente il “Beethoven del flauto”!), con il suo Grand Trio op. 119, ma il motivo di tale miglioramento, a livello di risultato finale, dipende anche dal fatto che originariamente questa pagina cameristica fu concepita per due flauti e pianoforte. Di conseguenza, nel trasferire la parte del secondo flauto al basso, quindi destinata, come in questo caso, al violoncello (o anche al fagotto), la brillantezza virtuosistica di questa parte è stata efficacemente mantenuta.
Semmai, la composizione più interessante e riuscita di questo programma discografico è senz’altro quella di Weber, che precede di oltre dieci anni quello di Kuhlau, visto che risale al 1819. Eppure, qui si respira a pieni polmoni aria di Romanticismo, spalmata a piene mani nei quattro tempi che compongono il Trio op. 63 e che portano il suo tempo totale a venticinque minuti di durata. Quest’opera fu scritta principalmente durante l’estate di quell’anno, mentre Weber trascorreva una vacanza nella campagna di Pillnitz; la serenità del luogo si riflette nella dimensione bucolica di tutta la composizione, anche se non mancano sottili irrequietezze, soprattutto nell’Allegro moderato iniziale, che non vanno a turbare, però, la luminosa trasparenza del suo colore timbrico. La caratura e la densità della scrittura, qui l’equilibrio tra i tre strumenti è davvero paritario, sono tali da poter definire quest’opera, senza timore di essere smentiti, il capolavoro cameristico di Weber, tenuto conto che il suo lascito in questo genere non è certo stato vasto, anzi.
Se si deve tenere conto della lettura fatta dai tre interpreti, si deve partire proprio da quest’ultima pagina, che viene da loro restituita in tutto il suo spessore espressivo, rispettando appieno la dimensione ritmica, dalla quale diparte un percorso espressivo in cui contemplazione, briosità, lucentezza ed equilibrio formale si fondono in modo del tutto convincente. E lo stesso vale per il brano di Haydn e, soprattutto, per quello di Kuhlau, in cui la portata brillante viene messa in risalto senza scadere in rappresa pedanteria esecutiva (rischio sempre in agguato quando il brano è fin troppo malleabile e masticabile in sede tecnica). Una registrazione, questa, in grado di interessare coloro che sono alla ricerca di aspetti particolari dell’immensa letteratura cameristica che va ad instaurarsi tra la fine del Settecento e i primissimi decenni dell’Ottocento.
Stefano Ligoratti è l’artefice della solita prova di maestria tecnica nella cattura del suono; la dinamica precisa e veloce, oltre che dotata di appropriata energia, permette di ricostruire, in sede di palcoscenico sonoro, i tre strumenti in modo realistico ed efficace al centro dei diffusori, con l’equilibrio tonale capace di mettere a fuoco il registro del flauto, del violoncello e del pianoforte in modo da esaltarne l’afflato e il dialogo. Infine, il dettaglio segue la linea degli altri parametri ed è rilevante il sentore materico che esprime, rendendo l’ascolto piacevole e mai faticoso.
Andrea Bedetti
Franz Joseph Haydn-Friedrich Kuhlau-Carl Maria von Weber – Three Trios for Flute, Cello and Piano
Anja Kreuzer (flauto) - Martin Pratissoli (violoncello) - Johanna Zathey (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00706