Il côté “minore” di Mozart

In passato mi è capitato di citare nel corso di un mio intervento la figura quasi del tutto sconosciuta, almeno per il grande pubblico, di un pianista russo naturalizzato americano, Alexander Kelberine, già allievo di Ferruccio Busoni a Berlino, il quale si suicidò a trentatré anni a New York nel gennaio del 1940, dopo aver vissuto per diversi anni in balia della depressione. Se oggi il nome di questo artista viene talvolta ancora ricordato è perché, proprio per il fatto di essere stato vittima del “male oscuro”, per dirla con Giuseppe Berto, durante la sua attività pianistica, soprattutto negli ultimi tempi, presentò programmi concertistici con pagine esclusivamente in tonalità minore.

E se proprio devo dirla tutta, per ciò che mi riguarda, pur non tenendo per mano una forma depressiva e non nutrendo al contempo propositi suicidi, considero la tonalità minore, soprattutto se articolata e presentata sulla tastiera pianistica, decisamente più coinvolgente e affascinante non solo per motivi intrinsecamente musicali, ma anche per i suoi possibili sviluppi speculativi e riflessivi. Ho sempre abbinato una concezione trascendentale del pensiero applicato alla tonalità maggiore, così come, invece, associo instancabilmente alla tonalità minore la sfera dell’immanente, una piscina assai profonda nella quale sia l’interprete, sia l’ascoltatore/critico possono tuffarsi per sondarne a lungo le sue acque (a tale proposito, chi volesse imbarcarsi in una lettura non agevole, ma a dir poco preziosa, potrebbe in tal senso affidarsi al saggio della musicologa canadese Rita Steblin, A History of Key Characteristics in the Eighteenth and Early Nineteenth Centuries, pubblicato nel 1996 dall’University of Rochester Press).

La cover del CD Da Vinci Classics dedicato a brani pianistici in tonalità minore di Mozart.

Dunque, quando mi sono stati proposti l’ascolto e la debita riflessione di una recentissima produzione discografica della Da Vinci Classics che vede il pianista siracusano Carmelo Giudice eseguire sei pagine mozartiane, più altre due tracce che possono essere scaricate, a livello di bonus tracks, dal sito web della stessa etichetta di Edmondo Filippini, mi è stato oltremodo facile salire sul trampolino e tuffarmi, visto che il titolo del CD in questione è Masterpieces in minor keys, vale a dire tutte composizioni che appartengono alla sfera della tonalità minore. Ora, è gioco facile abbinare il nome del sommo salisburghese e la complessità della sua opera al concetto di-ciò-che-è-altro, ossia di quanto viene “oscurato” nelle pieghe dell’Io e che viene riportato in superficie attraverso il mistero del concepimento artistico e anche se non gli è mai stata dedicata una biografia in chiave psicoanalitica, sul modello di quella che Maynard Solomon ha scritto su Beethoven, specialisti del calibro di Sigmund Freud (che non sopportava la musica, tranne alcune composizioni, guarda caso, mozartiane) e Melanie Klein hanno avuto modo di appuntare la loro attenzione analitica su Amadé.

Anche Carmelo Giudice, in un certo senso, ha voluto farlo, ma chiaramente da un punto di vista musicale prendendo in esame (e a modello, se vogliamo includere nel nostro discorso anche la componente psichica) pagine pianistiche che potremmo definire “edipiche”, a cominciare da quell’autentica eruzione inconscia rappresentata dalla Sonata in la minore K. 310 che, simbolicamente, riassume in calce lo sciagurato viaggio (il terzo, per l’esattezza) effettuato dal genio salisburghese in quel di Parigi, dal marzo al settembre 1778, non in compagnia del padre, inchiodato a Salisburgo per ordine del bieco e oppressivo Colloredo, ma della madre, che proprio nella capitale francese, il 3 luglio, dopo una breve malattia, morì improvvisamente. Insomma, la solita storia di sempre, con il giovane Mozart costretto a viaggiare per tutta Europa per farsi conoscere, per cercare lavoro, per rimediare denaro (che diventerà elemento ossessivo, soprattutto una volta stabilitosi definitivamente a Vienna), entrando in simpatia e in sintonia con alcuni, soprattutto gli italiani e la loro musica, oppure in decisa antipatia e repellenza artistica, proprio i francesi e in particolar modo i parigini (da lui definiti “asini” in una lettera indirizzata al padre).

Un programma concertistico, risalente al 1931, in cui Alexander Kelberine presentò già diversi brani in tonalità minore.

Di fronte a queste manifestazioni positive o negative riflesse sul suo Io, Mozart intese ri-mediare con la sua arte, ossia “mediare” le spinte centripete del suo animo complesso con quelle centrifughe rappresentate dagli stimoli esterni con i quali entrò in contatto. E la Sonata K. 310, in tal senso, è semplicemente paradigmatica; da una parte abbiamo il trauma causato dalla morte improvvisa della figura materna (evito inutili carovanate di motivazioni di ordine psicoanalitico), dall’altra lo stimolo/entusiasmo causati da nuove scoperte tecnico-musicali, scaturite dall’aver provato, rimanendone incantato, ad Augusta i pianoforti di Johann Andreas Stein, considerati all’epoca i prototipi fra i più avanzati in Europa del nuovo strumento. Il processo di “mediazione” tra queste due spinte divergenti portò alla realizzazione della Sonata in la minore, la quale è frutto del trauma tragico sul quale si applica una scrittura musicale approntata sulle basi tecniche garantite dall’avvento del nuovo strumento a martelletti, senza dimenticare, allo stesso tempo, la profonda impressione che fece a quell’epoca sul ventunenne Mozart l’ascolto dello stile tempestoso e infuocato di Johann Schobert, compositore tedesco assai in voga, soprattutto a Parigi, dove morì appena trentaduenne con la moglie dopo aver mangiato un fatale piatto di funghi velenosi.

Il concentrato esplosivo di questi ingredienti deflagra nel celeberrimo tempo iniziale della Sonata, un Allegro maestoso, scolpito da un lato dalle dissonanze armoniche e dall’altro dal ritmo di marcia spalmato nell’incipit, su cui si innesta una marcata contrapposizione tematica, un crash nel quale si scontrano la già citata marcia e una nevrastenica scorrevolezza di semicrome. E poi la “dissociazione” che affiora tra le figurazioni insistite della mano sinistra e le visionarie progressioni polifoniche della mano destra, che sfocia in una ripresa che media nel modo minore il secondo tema.

Se poi si ascolta con molta attenzione l’Andante cantabile con espressione che confeziona il tempo centrale, non si può ancora fare a meno di notare come anche qui la base, offerta da uno schema galante della melodia ornata su basso albertino, sia fondamentalmente la crosta che, una volta strappata, rivela ancora il pus della deviazione, dello scarto, dello svirgolarsi anomalo dato dal tentativo di elaborazione del lutto sotto la forma di un nuovo tema oscuro, in cui molteplici orme si rincorrono spronate dai diversi registri della tastiera che si materializzano media-nte figurazioni dissonanti. E non è che il Presto conclusivo possa ribaltare la situazione, ossia fornendo una connotazione, per così dire, “solare”, nonostante la sua apparente apertura irradiante; qui Mozart è capace di trasformare il Rondò in un’ossessione (l’immagine è quella di un criceto che continua a correre nella ruota approntata nella sua gabbietta), in quanto gli episodi che scorrono (la ruota) vengono tutti mutuati sulla costruzione della medesima figura ritmica del refrain (l’ossessione compulsiva che si manifesta). È come se un apparato nevrotico avesse trovato la sua stabilità, la sua coerenza, la quadratura di un cerchio (ancora la visione della ruota che gira), attraverso il simulacro di un ordine capace di governare e disciplinare il disordine interiore.

Sigmund Freud nel suo studio a Vienna in Berggasse 19, circondato dalla collezione di reperti archeologici.

Oltre alla K. 310, Mozart creò solo un’altra Sonata nella tonalità minore, esattamente quella in do minore K. 457, sei anni dopo quella in la minore, quando ormai con la moglie Constanze si era trasferito in quel di Vienna, abitando al terzo piano del palazzo di proprietà di Johann Thomas Edler von Trattner, un abbiente libraio e editore, la cui giovane moglie Thérèse era una delle allieve predilette di Amadé. Il 21 settembre di quell’anno Constanze diede alla luce il figlio Carl Thomas, il quale fu battezzato quello stesso giorno con padrino proprio von Trattner. Ma appena otto giorni dopo, dicasi otto, marito, moglie e pargolo traslocarono precipitosamente. Per quale motivo? E poi, traslocarono di spontanea volontà o furono improvvisamente cacciati di casa dal proprietario? Se così fosse, per quale ragione? Non lo sappiamo con certezza, ma leggendo la dedica della Sonata in questione, vergata in italiano “per la Sig.ra Teresa de Trattner dal suo umilissimo servo Volfango Amadeo Mozart”, dopo essere stata composta il 14 ottobre, e conoscendo che il sommo salisburghese aveva la patta dei pantaloni dall’apertura facile, è possibile dedurne che il marito libraio e editore, e ora probabilmente anche cornuto, avesse deciso di fare immediata piazza pulita, riportando nella magione nuovo ordine e decoro.

Trauma, scaturito dalla pulsione libidinosa che si trasmuta in senso di colpa e afflizione, nostalgia che si stempera nel rimorso: questi possono essere i nuovi ingredienti con i quali il dottor Jekyll/Mozart cerca di porre rimedio alle malefatte satiriache del mister Hyde/Mozart in una Sonata in cui dolore e dramma, che sfiora la tragedia, almeno temporanea, devono essere sublimati e sistematizzati. Ne nasce un ennesimo capolavoro e un’altra pagina del Mozart che prende a calci nel sedere il côté del “farfallone amoroso” sotto la minaccia della frusta del futuro Commendatore, che già incombe nella sua mente ancor prima che nella partitura delle Nozze di Figaro, opera che vedrà la luce due anni più tardi. Insomma, siamo già sguazzando nel regno degli opposti e della loro possibile conciliazione, ossia nel cuore del DNA mozartiano e la chiara dimostrazione di ciò avviene proprio con la Sonata K. 457, autentico festival del pathos e, al suo opposto, del fatalismo che ne impedisce la sua concretizzazione (vero Amadé? vero Thérèse?). In tutta questa composizione vi è un geniale susseguirsi di contrasti basati su uno schema dialettico di princìpi antitetici, un ossimoro costruttivo che si materializza mediante un apporto tecnico, il quale sfocia apertamente nel virtuosismo, capace di spruzzare benzina sul fuoco, alimentando il dipanarsi di un dramma che ondeggia tra la dimensione tragica (i tempi opposti) e la metastasi nostalgica di ciò-che-avrebbe-potuto-essere-e-non-è-stato (il tempo centrale). Il tutto portato avanti con un corteo in cui si ammirano le sapienti differenze fra i registri, i futuristici effetti di risonanza, le “beethoveniane” ottave e la cantabilità esaltata dalla mano destra.

Lasciando la sfera sonatistica per affrontare quella della Fantasia, non posso fare a meno di rammentare, sempre in balia del principio del transfert, una scena dello sciagurato e furbesco Amadeus di Miloš Forman, quella in cui Mozart sbeffeggia Salieri scimmiottando il suo stile al clavicembalo nel corso di una festa, alla quale partecipa lo stesso musicista legnaghese in incognito con una maschera sul viso. Alla fine di questa burla infantile, Mozart si lascia andare a un peto fragoroso, che suscita l’ilarità di tutti i presenti, tranne, ovviamente, quella del diretto interessato. Ora, al di là dell’annosa volgarità alla quale è sempre stata associata l’immagine del Mozart geniale mai diventato adulto, così cara a Goethe, è interessante notare come Freud, così attento e sensibile alla fase anale presente negli artisti, in una lettera indirizzata il 25 giugno 1931 a Stefan Zweig, appuntò la sua attenzione sull’interesse da parte dei musicisti per «i rumori prodotti dagli intestini», suggerendo altresì che parte dell’attrazione per il suono fosse connessa ad un “investimento anale” dell’energia libidica. Non solo, sempre in chiave freudiana, l’espressione musicale, in termini più generalizzati, sarebbe il risultato ultimo del «lavoro del sogno», un’applicazione fissata mediante il suono di ciò che la pratica onirica escogita nell’inconscio.

La scena del film Amadeus di Miloš Forman, in cui Mozart sbeffeggia Salieri scimmiottando il suo stile al clavicembalo.

Partendo da tale premessa, che possa o meno essere accettata e condivisa, il regno della Fantasia pianistica può essere considerato come l’espressione più assoluta del «lavoro del sogno» mozartiano, al di là del fondamentale apporto dato dal genere operistico, quello in cui il “gioco di controllo”, la definizione è sempre di Freud, viene sfruttato per poter padroneggiare e dominare un oggetto interno, quello che per il fondatore della psicoanalisi era rappresentato dalla figura oppressiva di Leopold, il padre/padrone per eccellenza. Nel caso specifico, il “gioco di controllo”, la sua resilienza ludica si estrinsecano attraverso la capacità improvvisativa, caratteristica fondamentale presente proprio nella Fantasia in re minore (che differenza di utilizzo che ne fa il salisburghese di questa tonalità rispetto a ciò che farà poi Beethoven!) K. 397, la quale, tra l’altro, proprio come ogni ludus che si rispetti, risulta essere incompiuta, dando così forma al concetto di iocus, ossia una “cosa da nulla”. Naturalmente, ascoltando questo capolavoro, non possiamo considerarlo una “cosa da nulla”, ma soltanto ammirare un’“improvvisazione” che non ha nulla di improvvisativo, tale è la sua perfezione in cui si srotola (non riesco a trovare verbo migliore) in una durata di esecuzione che non supera i sei minuti, un autentico concentrato di luci e di ombre che si addossano le une sulle altre. Il «lavoro del sogno», che si cerca di dipanare attraverso il “gioco di controllo”, può essere applicato anche all’altra Fantasia in tonalità minore, ossia quella in do minore K. 475, anch’essa, toh guarda caso… , dedicata alla già citata Thérèse von Trattner e risalente, a livello di creazione, al 20 maggio 1785. Se volete avere un’idea di come Mozart vivesse e subisse ondate passionali, di come fosse vittima del desiderio, da intendersi nella  sua accezione più ampia, e di come avesse cercato di “irregimentare” il tutto in un processo di codificazione disciplinante, la Fantasia in questione è a dir poco un esempio lampante (la chiave di volta risiede nel passaggio che va dall’enigmatico Andantino, che è un po’ il trampolino di lancio mediante il quale il missile dell’esplosivo Più allegro va a deflagrarsi in una dozzina di violentissime battute in cui l’eros già sublimato dal senso del rimorso si manifesta nel vomito iridescente di biscrome che lasciano senza fiato).

La tracklist elaborata da Carmelo Giudice si conclude con due brani (restando fedele al CD in sé, non ho preso in esame anche il bonus track digitale che può essere scaricato, che contempla la Marche funèbre del Signor Maestro Contrapunto K. 453a e la Sonatensatz in sol minore K. 312), ossia il Rondo in la minore K. 511 e l’Adagio in si minore K. 540. Questi due brani potrebbero essere ascoltati osservando una delle più celebri incisioni di Albrecht Dürer, Melencolia I, per il semplice fatto che assommano una temperie umorale drammaticamente oscillante tra lo stato depressivo e una reazione empatica, dal sapore titanico (e ciò spiega per quale motivo alcuni critici sono concordi nel ritenere che con queste due pagine Mozart si fosse già affacciato sulle necessità impellenti che portarono al Romanticismo e, in particolar modo, a quello espresso da Franz Schubert). Si badi alla loro data di creazione, rispettivamente il 1787 e il 1788, quindi nel pieno avverarsi dell’inevitabile Untergang esistenziale del salisburghese. Il sentiero è tracciato da simboli, enigmi, allusioni, velate o meno, allegorie lanciate in aria come I Ching o come i dadi di Mallarmé, con un senso di profondità e di desolazione da lasciare allibiti, una profondità che si va a incuneare in un lasso temporale fissato tra Le nozze di Figaro e il Don Giovanni, tra la promessa di un futuro che viene subito deturpato e sfigurato e la piena consapevolezza di un’instabilità psicologica destinata a trasfigurarsi nel Requiem finale, con tutte le disillusioni e le inevitabili sofferenze. Quanto è stata breve la vita del Mozart finalmente adulto!

La celebre incisione Melencolia I di Albrecht Dürer.

Ascoltando e riascoltando questa registrazione, non ho potuto fare a meno di ammirare progressivamente la lettura scelta e fatta da Carmelo Giudice, il quale, è bene ricordarlo, ha preventivamente svolto una meticolosa ricerca sulle versioni originali dei brani, in particolare attraverso un’attenta analisi dei manoscritti autografi, quando questi ultimi erano ovviamente disponibili. Il corsivo adottato sul “progressivamente” si spiega per il fatto che solo con un processo di acquisizione speculativa si può comprendere la profondità e la bellezza della sua interpretazione. D’altronde, ascoltare è come camminare, e “camminare” è uno dei verbi più filosofici che possano esistere (l’etimologia del verbo latino progredi deriva da “pro-”, ossia “avanti” e da “gradi”, vale a dire “camminare”). E il “camminare interpretativo” del pianista siracusano, il suo “progredire”, è stato un dirigersi verso due precise entità esplorative: quella che mi piace definire “psicologica” e quella eminentemente più “tecnica” e la cui unione ha portato a un disco di riferimento per ciò che riguarda le pagine pianistiche mozartiane in tonalità minore. Il fatto che abbia voluto non dico dare un taglio psicoanalitico alla mia analisi, ma quantomeno votato a una dimensione di sguardo introspettivo, è scaturita proprio dalla capacità di Giudice nel mettere in evidenza quella che sarebbe piaciuta immensamente a Darth Vader, vale a dire la “forza oscura” che permea una parte, un lato, un aspetto della produzione del salisburghese e i cui meccanismi possono essere affrontati anche “clinicamente”, senza per questo dare un connotato negativo a tale termine.

Ciò significa che il nostro artista è riuscito, a mio avviso, a mettere in evidenza, a far affiorare quell’impellenza creativa, costruttiva e distruttiva allo stesso tempo, con la quale Mozart ha saputo coniugare, come nessun altro, gli opposti. Il pianismo che Giudice ha saputo manifestare a tale proposito si basa principalmente, e non mi riferisco alla scrittura, alla partitura in sé, su scelte agogiche, su sfumature timbriche, sull’utilizzo dei pedali, sul respiro espressivo (il “cantabile-operistico” con il quale ci si salva spesso e volentieri in calcio d’angolo), con un lavoro certosino di profondità d’intendimento, in un’opera di immedesimazione, di aderenza. Prima di essere esecutore, il nostro interprete è stato archeologo (nello stesso modo in cui furono archeologi di fatto o di passione, come nel caso di Giuseppe Sinopoli o dello stesso Sigmund Freud), quindi con un’indubbia capacità stratiforme nell’affrontare e nel dipanare la scrittura mozartiana.

Attenzione, però, perché così facendo, non ha ceduto alla possibile e banale tentazione di prendere per mano Amadé e farlo sdraiare sul lettino, con il rischio di restituire una lettura fredda, analitica (questa sì, da intendere in un senso negativo), ma mediando la dimensione psichico/psicologica, che si ammanta dietro la chiave minore, grazie a una musicalità eccelsa del suo fluire esecutivo, poiché memore del fatto che quando Mozart si lasciava andare alle sue seghe mentali, doveva farlo con la consapevolezza che il risultato di ciò sarebbe andato in pasto al pubblico, soprattutto quello viennese, quindi con la certezza che il transfert comunicativo avrebbe dovuto essere all’insegna della piacevolezza, del fascino, della seduzione prodotti dall’ascolto stesso. Ed è esattamente ciò che ha fatto Carmelo Giudice con la sua lettura, profonda, deliziosamente impietosa a volte, un bisturi da chirurgo o un trapano da dentista, fate voi, con il quale ha sondato, esplorato e suturato, ma senza mai dimenticare che anche gli aspetti più sgradevoli, malati e imbarazzanti possono essere trasmessi con una delicatezza, una sensibilità e una melodiosità (come odio questo termine, per il fatto che può essere frainteso in mille modi!) da portare progressivamente a ri-ascoltare ciò che si aveva già ascoltato.

Il pianista siracusano Carmelo Giudice.

Gianluca Abbate ha saputo effettuare un ottimo lavoro a livello di presa del suono, permettendo allo Steinway Model D 274, che è stato utilizzato per la registrazione, di mostrare tutte le sue peculiarità timbriche e dinamiche, a cominciare dal fatto che con la sua esecuzione Carmelo Giudice ha voluto restituire una cristallinità del suono che richiamasse, non certo in chiave filologica, ma in quella “storico-psicologica”, il modello sonoro di un clavicembalo/fortepiano nel loro incontrarsi. La dinamica enunciata è veloce, energica, vitaminizzata, ma non dopata, così come la ricostruzione del palcoscenico sonoro restituisce assai bene lo strumento al centro dei diffusori, a una discreta profondità, dalla quale il suono si fa apprezzare anche in altezza e in ampiezza. I numerosi passaggi contrappuntistici (degni dell’ultimo Mozart) sono stati esaltati dal parametro dell’equilibrio tonale, con il registro medio-grave e quello acuto sempre ben distinti e scontornati e, infine, il dettaglio non ha deluso le attese, in quanto la presenza materica del pianoforte è tale da proiettare facilmente una sua rappresentazione tridimensionale piacevolmente tattile.

Andrea Bedetti

 

Wolfgang Amadeus Mozart – Masterpieces in minor key

Carmelo Giudice (pianoforte)

CD Da Vinci Classics C01028

Giudizio artistico 5/5
Giudizio tecnico 4,5/5