Il commiato sinfonico di Anton Bruckner
Per ricordare il secondo centenario dalla nascita di Anton Bruckner, la CBH-Music ha messo a disposizione nel suo catalogo le tracce liquide di due celebri registrazioni storiche relative alla Ottava e alla Nona Sinfonia, ossia gli ultimi due capolavori del compositore di Ansfelden. Queste due registrazioni riguardano rispettivamente quella di Sir John Barbirolli, che dirige l’Hallé Orchestra in un concerto dal vivo il 20 maggio 1970 alla Royal Festival Hall di Londra, e quella di Zubin Mehta alla testa dei Wiener Philharmoniker in un’esecuzione fatta all’inizio di maggio del 1965 nella Sofiensaal di Vienna.
L’Ottava Sinfonia, la versione eseguita in questo concerto è quella di Robert Haas, rappresenta la più vasta ed ambiziosa opera, non solo in ambito sinfonico, concepita da Bruckner; non per nulla gli ci vollero ben sei anni, dal 1884 alle revisioni del 1887 e del 1890, per portarla a termine (l’organico orchestrale parla chiaro: 3 flauti, 3 oboi, 3 clarinetti, 3 fagotti, 8 corni, 4 tube wagneriane, 3 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, piatti, triangolo, 3 arpe, archi e per superarlo bisognerà attendere alcune future sinfonie mahleriane!). Oltre a questo titanico organico, codesta sinfonia ha una lunghezza smisurata (per superarla si dovrà attendere ancora le sinfonie di Mahler) con i suoi ottanta minuti di durata e che rendono ostico, problematico un adeguato ascolto, se non viene effettuato con attenzione e partecipazione.
L’importanza di questa sinfonia, però, non risiede in tali peculiarità, ma per il fatto che sancisce la rottura, se non la fine, del concetto incarnato dalla sinfonia romantica, andando a smantellare quelle certezze formali che l’avevano accompagnata per quasi un secolo. Uno smantellamento che si concretizza, paradossalmente, nella sua esasperazione; ciò significa che i temi vengono sviluppati e configurati come gruppi, andando a incidere inevitabilmente sull’intensità espressiva. Da ciò è facile intuire come tali gruppi/temi tendano a proporre incessanti varianti che divengono, nel corso del costrutto, ricorrenti, ma senza per questo scimmiottare il coevo Leitmotiv wagneriano. Inoltre, l’Ottava sinfonia non risulta essere “rivoluzionaria” solo a causa di ciò ma, ancor più che nella Nona sinfonia, il superamento della visione romantica avviene mediante un’espressione che diviene maggiormente libera, al punto di lacerarsi, di proporre un eloquio che emana odore di tramonto, di un qualcosa destinato a finire, mettendo da parte quelle connotazioni positive che la sinfonia romantica aveva cercato e offerto, per proporne altre più marcatamente negative.
Chi non ha mai ascoltato l’Ottava sinfonia, può intuire da quanto finora descritto come la sua lettura sia oltremodo difficile, ardua, frutto di contrastanti tensioni direttoriali che devono essere dipanate con attenzione e sensibilità interpretative. Cosa che cercò di fare il grande John Barbirolli con la registrazione in questione e che fu realizzata appena dieci settimane prima della sua morte, rappresentando di fatto il suo testamento musicale. Peccato, e lo dico dall’alto della mia sconfinata ammirazione che provo nei confronti del direttore inglese, la sua interpretazione non rappresenta una delle migliori della sua eccelsa carriera artistica; questa parziale delusione, a livello di risultato, viene compensata in parte dal fatto che, anche con tutta la buona volontà di questo mondo, Barbirolli non può di certo essere considerato un direttore bruckneriano. Si può essere votati alla visione di Mahler, ma è assai difficile, se non utopistico, esserlo anche di quella di Bruckner e viceversa. E Barbirolli, per l’appunto, in fatto di letture delle sinfonie mahleriane, ha avuto pochi, pochissimi rivali in senso assoluto.
Ora, i difetti di questa interpretazione sono presto detti: il suono sprigionato dall’ottima Hallé Orchestra a volte risulta essere fin troppo entusiasta, ma non ispirato, a volte è invece addirittura manierato, ossia presenta una cesellatura che non appartiene di certo alla visione di Bruckner (e ciò avviene soprattutto in quei passaggi di semplice fraseggio, in cui sarebbe opportuna una semplice e lineare lettura, ma che Barbirolli tende invece a farcire e a impreziosire oltremodo). Se è vero che il timbro sprigionato dalla compagine inglese è a dir poco impressionante, lo è anche il fatto che il fuoco d’artiglieria, e questo vale soprattutto per la sezione degli ottoni, a volte va oltre le righe, ossia esagerando la massa sonora che a tratti tende a sfuggire dal controllo della bacchetta di Barbirolli (vedasi il titanico finale, il cui apice risulta essere a dir poco ipertrofico, senza contare alcuni svarioni, a livello di intonazione, da parte delle tube wagneriane, disseminati qua e là). Inoltre, non si comprendono bene alcune scelte direttoriali, questo vale soprattutto quando Barbirolli tende a rallentare o ad accelerare senza alcun apparente motivo, si prenda come esempio il lunghissimo Adagio, che Barbirolli tra l’altro porta a compimento in soli ventitré minuti, in cui le ricapitolazioni sono vittime di tali arbitrarietà.
Per quanto riguarda la presa del suono, per fortuna la versione proposta dalla CBH-Music fa affidamento sul restauro effettuato dai tecnici della BBC, con la possibilità di ascoltare le quattro tracce tramite alcuni formati di qualità (personalmente, ho optato per quella 192/24). Qui, le cose vanno un po’ meglio, in quanto il restauro permette di renderla maggiormente ascoltabile, in quanto la sezione degli archi è più presente e realistica e l’equilibrio orchestrale risulta più omogeneo, anche se a volte sia i contrabbassi, sia i timpani risultano incomprensibilmente “ondivaghi”, ossia che tendono ad “andare e a venire”. Nonostante ciò, la dinamica risulta corposa, energica, sufficientemente veloce, anche se viene a mancare quel quiddi naturalezza (qui, i maggiori indiziati sono proprio gli archi). L’altro parametro leggermente deficitario (ma ciò è dovuto da come è stata fatta probabilmente la microfonatura) è il dettaglio, poiché nei frequenti fffla messa a fuoco non è ideale e la sostanza materica, ne consegue, ne soffre un po’. Ma, ripeto, se in linea generale il risultato è complessivamente positivo, dobbiamo ringraziare questo opportuno restauro audio.
L’ultima sinfonia di Bruckner, la Nona, è rimasta incompiuta per la morte del compositore, avvenuta nel 1896. Tale incompiutezza ha generato caterve di riflessioni e di congetture a non finire, nel senso che ci si è posti una domanda destinata a restare inevitabilmente senza risposta: questo supremo capolavoro non fu portato effettivamente a termine per la sopravvenuta morte del compositore di Ansfelden o rimase incompiuto perché dopo il terzo tempo, che rappresenta una sorta di struggente commiato dalla vita, come si è chiesto giustamente Sergio Sablich, era simile a un’altra celebre Incompiuta, ossia la Sinfonia in si minore di Schubert, già segretamente compiuta in questa forma? D’altra parte, la storia di quest’opera ci ricorda che Bruckner compose i primi tre tempi tra il 1891 e il 1894, mentre abbozzi e appunti sul tempo mancante, il Finale, sono databili dal 1894 al 1896. Considerando la proverbiale lentezza con cui il musicista austriaco componeva, non sarebbe mancato il tempo per concludere la Nona sinfonia, ma Bruckner non lo fece o non visse a sufficienza per farlo.
Ma, basandoci sui soli tre tempi che l’arte musicale dell’autore ci ha consegnato, non possiamo non sentirci commossi e soggiogati di fronte alle proporzioni che questa sinfonia “incompiuta” ha assunto e offerto, proporzioni che sfruttano fino all’ultima stilla la materia sonora, portando questa composizione a dilatarsi fino all’estenuazione, grazie a un flusso ininterrotto e, a tratti, titanico, attraversato da illuminazioni metafisiche.
Purtroppo, anche quest’ultima sinfonia non si sottrasse al destino di altre sinfonie di Bruckner. Difatti, quando il compositore morì, l’amico Ferdinand Löwe mise sciaguratamente mano, in modo a dir poco arbitrario, alla partitura dei tre tempi e la presentò nella propria “versione” a Vienna l’11 febbraio 1903. Si dovettero attendere quasi trent’anni prima che la versione originale della Nona sinfonia fosse finalmente conosciuta dal pubblico, ossia quando, il 2 aprile 1932, Siegmund von Hausegger eseguì a Monaco contemporaneamente le due versioni, quella sciagurata di Löwe e quella originale di Bruckner, per permettere al pubblico di rilevarne le abissali differenze. Per nostra fortuna, grazie alla feconda e nobile missione della Internationale Bruckner-Gesellschaft, che ha dato vita all’edizione critica del catalogo bruckneriano, ora accanto al pasticcio di Löwe vi è la partitura originale, approntata definitivamente da Leopold Nowak nel 1951. Resta tutt’ora aperto l’insormontabile problema del Finale, per il quale Anton Bruckner, conscio della morte imminente, raccomandò che dovesse essere rimpiazzato dall’esecuzione del suo Te Deum al termine dei tre tempi compiuti.
Per ciò che riguarda la registrazione proposta dalla CBH-Music, la scelta effettuata è, a dir poco, azzeccata. Questo perché la lettura fatta da Zubin Mehta, accanto a quella di Bernard Haitink, quest’ultimo un bruckneriano di razza, è stata la versione discografica di riferimento nel decennio 1960-1970, soprattutto se si pensa che in quegli anni ci furono direttori del calibro di Carlo Maria Giulini, Leonard Bernstein e Pierre Boulez che la registrarono proprio con gli elementi dei Wiener Philharmoniker, senza però giungere alle vette direttoriali che Mehta riesce a conquistare con la sua esecuzione (non dimentichiamo che quando la diresse, il direttore indiano aveva solo ventinove anni, dimostrando al contempo una maturità di intenti e di scelte interpretative davvero eccezionali).
Riassumendo i punti salienti della sua magistrale lettura, si può notare come Mehta sappia insufflare e, allo stesso tempo, padroneggiare alla perfezione la passione che erompe dal primo tempo, il Feierlich, in cui colpisce il ritmo altamente drammatico che è presente nella sezione di sviluppo, mentre la sezione degli ottoni, ovviamente sollecitata fino allo stremo dalla scrittura di Bruckner, appare smagliante, lucente nel trascinante Scherzo centrale, così come nel seguente, commovente Adagio. A proposito di questo terzo e sconfinato tempo, che porta alla conclusione “incompiuta” della sinfonia, il direttore indiano riesce a iniettare nel corso della divina lunghezza di questo tempo un senso meditativo, squisitamente trascendente, quasi mai più raggiunto dagli altri colleghi, fino a saper tratteggiare una dimensione di emozionante serenità nella coda conclusiva.
La presa del suono effettuata dalla Decca, specificatamente da Gordon Parry, è sufficientemente valida per restituire la bellezza e l’efficacia dell’interpretazione di Zubin Mehta e dei Wiener Philharmoniker. Questo a fronte di una dinamica che non è certo impeccabile, a causa di un’energia e di una velocità che non sono molto d’aiuto per restituire la forza d’impatto delle varie sezioni, a cominciare da quella degli ottoni, ma quantomeno non pecca in fatto di malaugurate distorsioni o di improvvisi “vuoti” timbrici, soprattutto nei ppp. Semmai, visto che le tracce liquide provengono da un nastro da sette pollici e mezzo al secondo (da me ascoltate nel formato 192/24), si avverte, in principal modo nelle battute finali dell’Adagio, un leggero ma fastidioso fruscio che, però, non è così compromettente per distruggere il momento di assoluta catarsi donata dalla lettura del direttore indiano. Semmai, il punto di forza del lavoro fatto da Parry è presente nella ricostruzione del palcoscenico sonoro, in quanto riesce a riproporre adeguatamente lo spazio fisico della leggendaria Sofiensaal, ricreando quel senso di profondità nella quale è posizionata la compagine orchestrale viennese.
Andrea Bedetti
Anton Bruckner – Symphony No. 8
Hallé Orchestra – John Barbirolli
CBH-Music 185 - Tracce audio 192kHz/24bit
Giudizio artistico 3,5/5 Anton Bruckner – Symphony No. 9 Wiener Philharmoniker – Zubin Mehta CBH-Music 180 - Tracce audio 192kHz/24bit Giudizio artistico 5/5
Giudizio tecnico 4/5
Giudizio tecnico 4/5