I Trii per archi di Sibelius e Reger, l’alfa e l’omega del tardoromanticismo

C’è una frase che, parafrasandola, può rappresentare e identificare al meglio il fenomeno musicale del tardoromanticismo europeo. Una frase che Claude Debussy originariamente espresse nei confronti di Richard Wagner, con la cui musica, come si sa, visse un rapporto di amore-odio: «Molti hanno ritenuto che fosse un’aurora, invece si trattava solo di un bel tramonto». A pensarci bene, tale sentenza può essere estesa benissimo per descrivere i contorni di quell’epoca che va dagli ultimi due decenni dell’Ottocento fino agli ultimi colpi di cannone echeggiati sul finire del primo conflitto mondiale, ossia un lasso di tempo di quasi quattro decenni durante i quali si rivelarono i tratti di una visione del mondo in piena transizione, nella quale con i fantasmi di un ineludibile passato, scaturito dall’avvento prima del classicismo e poi del romanticismo, andarono ad addensarsi affascinanti e inquietanti presagi di un cambiamento irreversibile. Insomma, il tardoromanticismo, e questo vale soprattutto per la musica, racchiude in sé il mistero del culmine che è già fondamentalmente e inevitabilmente abisso.

E al di là dei “soliti noti”, Johannes Brahms, Anton Bruckner e soprattutto Gustav Mahler e Richard Strauss su tutti, vi sono due compositori che in un certo senso con la loro musica hanno aperto e chiuso le porte dalle quali fece dapprima il suo ingresso e poi l’ineluttabile uscita di scena il tardoromanticismo: Jean Sibelius (colui che aprì la porta) e Max Reger (colui che invece la chiuse, senza impedire peraltro l’irruzione delle avanguardie e dei nuovi linguaggi incarnati dal Novecento storico). Questa immagine allegorica dell’aprire e del chiudere, del dare inizio, volontariamente o meno, e del porre fine (e la seconda azione è indubbiamente più affascinante della prima) si presenta in modo esemplare nel programma di questo disco, che vede per l’appunto opere del finlandese Sibelius e del tedesco Reger, opere che non rappresentano di certo la punta della loro produzione musicale, ma che sono in grado di incarnare nelle loro finalità, non si sa quanto volontariamente e obiettivamente, un ideale incipit e il relativo tempus finis del segmento tardoromantico. Opere che prendono in esame l’integrale dei Trii per archi dei due compositori, ossia la Suite in la maggiore (1889) e il Lento del Trio in sol minore (1893-94) di Sibelius e il Trio in la minore, Op. 77b (1904) e il Trio in re minore, Op. 141b (1915) di Reger, tutte pagine che non appartengono al novero di quelle più celebri di entrambi gli autori, ma che grazie alla scelta mirata e coraggiosa del giovane Trio Hegel, composto da David Scaroni al violino, Davide Bravo alla viola e Andrea Marcolini al violoncello, vedono finalmente una loro lettura compiuta e organica in chiave di uno stimolante confronto tra i due “conservatori-innovatori”, sebbene con i dovuti distinguo, quali sono stati il musicista scandinavo e quello germanico.

Durante i suoi anni di apprendistato a Hämeenlinna, dove nacque nel 1865, Jean Sibelius compose pochissima musica da camera senza la presenza del pianoforte. E in questo periodo scrisse, per tale genere, due opere oltremodo interessanti, il quartetto per archi in la minore e, per l’appunto, la Suite in cinque tempi per violino, viola e violoncello. Quest’ultima fu eseguita per la prima volta il 13 aprile 1889, suscitando l’interesse e l’attenzione di Ferruccio Busoni, che faceva parte del corpo docente dell’Istituto musicale nel quale il ventiquattrenne Sibelius studiava. Di quest’opera solo quattro movimenti sono giunti fino a noi ma, pur manifestando alcune debolezze stilistiche, la Suite rappresenta indubbiamente un lavoro audace, contraddistinto da spunti votati a una dissonanza marcata. Ascoltando il Preludio iniziale si può ben comprendere l’interesse mostrato da Busoni, con il violino che disegna una melodia dai tratti audaci in cui lo sfociare dissonantico non assume un contesto di frattura, ma di elemento organico attraverso il quale ferve il confronto con la viola e il violoncello. Semmai sono i restanti movimenti a rientrare nei canoni di una convenzionalità che ben si adattava al gusto dell’epoca e che, per un certo verso, richiamano alla memoria il classicismo haydniano.

Di quattro anni più tardi è il Trio in sol minore, di cui Sibelius scrisse solo il movimento centrale, che appare dotato di uno stile corale più complesso e articolato, attraversato all’inizio da venature drammatiche per poi sfociare in un lirismo trattenuto e mai espresso pienamente, colmo di quei sentori tardoromantici che sembrano preannunciare una nuova alba, quando invece si trattava soltanto di un ennesimo tramonto, e che porta la pagina a spegnersi mestamente in un sussurro timbrico.

Se il nome di Sibelius, almeno per quanto riguarda il nostro Paese, è sempre legato alle sue sinfonie e ai suoi poemi sinfonici, per quanto riguarda Max Reger il discorso si complica ulteriormente, in quanto la sua opera in un certo senso appartiene ancora a una élite di ascolto che supera di poco i confini di un esoterismo pitagorico, tenuto conto che la si associa quasi sempre al suo corpus organistico, ma quasi sempre dimenticandosi di quanto questo grande compositore ha scritto sia nel campo orchestrale, sia soprattutto in quello cameristico, fermo restando che il suo vastissimo catalogo è racchiuso in un lasso di tempo di appena quarantatré anni, ossia quanto è vissuto.

E all’interno del genere cameristico, nel quale spiccano i suoi quartetti per archi e le nove Sonate per violino, colpisce il fatto che i due Trii per violino, viola e violoncello vengano ricordati e ascoltati poco o punto. Il Trio in la minore op. 77b vanta dimensioni ben più rimarchevoli rispetto al Trio in re minore op. 141b e presenta una genesi che merita di essere ricordata. Nei primissimi anni del Novecento, mentre si trovava a Monaco di Baviera, nella quale si era fatto una fama di musicista progressista, testimoniata dalla vulcanica Quarta sonata violinistica e dal tellurico Terzo quartetto per archi, Reger mutò decisamente la sua visione estetica, al punto che nel giugno del 1904 scrisse testualmente: «Per me è assolutamente chiaro che ciò che manca alla nostra epoca attuale è un Mozart», affermando che in nome di questa “mancanza” mozartiana avrebbe scritto una Serenata per flauto, violino e viola e un Trio per archi, l’op. 77b per l’appunto. Ma è interessante notare che per Reger Mozart incarnava esclusivamente l’epoca rococò, ossia musicalmente sinonimo di una stupefacente fluidità compositiva e di un entusiasmo creativo, ciò di cui aveva bisogno, a detta di Reger, la Germania musicale del primissimo Novecento, la cui musica era al contrario sovraccarica di un tecnicismo compositivo che rischiava di asfissiarla. E in tal senso il Trio in la minore è un’opera che rimette in discussione tutto ciò che Reger aveva composto in precedenza al punto da spingere uno dei maggiori critici tedeschi del tempo, Rudolf Louis, ad affermare che questa pagina cameristica era più che altro uno “scherzo di carnevale”. In effetti, il Trio in questione non ha nulla a che fare con le sovrastrutture armoniche concepite precedentemente dal musicista di Brand, in quanto è intessuto da una raffinatezza stilistica lastricata da un’accattivante semplicità e disseminata da curiosità armoniche che stemperano e arrotondano i passaggi più articolati.

Dopo essersi così liberato dal peso di un linguaggio che lo avrebbe portato agli stessi risultati ai quali giunse pochi anni dopo Arnold Schönberg, Reger volle recuperare, in nome del Mozart “rococò”, la tonalità portandola a degli estremi come quasi mai si può ravvisare in tutto il tardoromanticismo e che trovano un suo culmine proprio nel Trio in re minore che risale a un anno dalla morte dell’autore, un lavoro che lo soddisfò molto, contribuendo a liberare il suo nome dall’aura di compositore votato all’avanguardia, in nome di quel “libero stile” evocato dallo stesso Reger quando si trasferì a Jena, con Mozart che lascia spazio a un aulico e melanconico classicismo di cui il Trio op. 141b rappresenta un perfetto esempio, sia con l’andamento a variazioni dell’Andante centrale (un omaggio a Brahms?), sia con il Vivace finale, costruito su una mirabile e geniale fuga con la quale il musicista sembra quasi profetizzare la fine stessa di quella che avrebbe dovuto essere un’aurora ma che rappresentò solo la fine del “mondo di ieri”.

Al di là della peculiarità del programma proposto in questa registrazione, ciò che evidenzia la lettura fatta dai tre componenti del Trio Hegel è la capacità di fornire idealmente un’interpretazione double-face capace di incarnare l’estetica del tardoromanticismo musicale. Se nelle due pagine di Sibelius i tre giovani interpreti non cedono alla tentazione di “affinarlo”, di rendere più lucente e innovativa (questo soprattutto la Suite) la sua portata storica rispetto alle tematiche del tempo in cui vennero scritte, è soprattutto nella resa dei due Trii di Reger che la lucidità intellettuale ed esecutiva ottiene i suoi risultati più lusinghieri. Se nell’op. 77b si è cercato di evidenziare la presenza impalpabile (ma fino a un certo punto) del Mozart “rococò” evocato da Reger attraverso un suono terso, ma anche leggero, soave, cristallino, nell’op. 141b la resa timbrica diviene più marcata, più conscia di quei mezzi stilistici che la pagina in sé vanta e manifesta compiutamente. Nella lettura di quest’opera si avverte il lavoro di riflessione, di inevitabile maturazione necessario per renderla al meglio, evitando di trasformare l’Andante in un melanconico addio al tardoromanticismo e la fuga finale in un mero esercizio di bravura tecnica, ma evidenziando la gioia, la soddisfazione, la libertà di Reger mentre la stava scrivendo.

La presa del suono permette di fissare spazialmente al meglio i tre componenti all’interno del palcoscenico sonoro, evitando che risultino nella loro riproposizione in modo troppo avanzato. La dinamica è più che accettabile, così come il dettaglio, capace di rendere materici gli strumenti, e l’equilibrio tonale che non vede il sovrapporsi timbrico l’uno sugli altri da parte del violino, della viola e del violoncello.

Andrea Bedetti

 

Jean Sibelius-Max Reger – Complete String Trios

Trio Hegel

CD Da Vinci Classics C00086

 

Giudizio artistico 4/5

Giudizio tecnico 4/5

 

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