I Notturni di Chopin, un viaggio nella dimensione del silenzio

La nascita del genere dei Notturni in ambito pianistico, che non si deve ascrivere a Chopin ma al compositore irlandese John Field, portò necessariamente attraverso il prodigioso sviluppo del compositore polacco a un nuovo linguaggio votato alla centralità di un tessuto melodico in cui si celano conquiste armoniche che mirano soprattutto a esplorare e a sfruttare in un modo genialmente innovativo il registro centrale della tastiera. Ma al di là di ciò resta fondamentale prima di tutto comprendere che cosa significasse nell’immaginario chopiniano il concetto di Notturno e, di conseguenza, quello della notte. Quest’ultima, se è una conquista che appartiene maggiormente alle dinamiche del romanticismo tedesco (a cominciare dall’opera principe fornita dagli Hymnen an die Nacht di Novalis fino alle raffigurazioni impresse dai dipinti di Caspar David Friedrich), vide una sostanziale presenza anche in un certo romanticismo francese (evidenziato in letteratura dall’opera di Maurice de Guérin) e in chiave musicale nell’identificazione totalizzante in Chopin con i ventuno Notturni che il compositore ebbe modo di scrivere costantemente nel corso della sua vita, a partire dal Notturno postumo in mi minore n. 1 op. 72 (1827-29) fino al Notturno in mi maggiore n. 2 op. 62 (1846), quindi un viaggio che arriva fino a tre anni prima della sua morte, quando ormai il Notturno per Chopin non è più materia musicale, bensì esistenziale, in un lento e inarrestabile declinare della sua salute e fissato nell’idea costante della morte.
Per il compositore polacco il concetto di Notturno, riversato poi nella sua musica, rimanda quindi all’uomo che contempla se stesso e le cose che lo circondano immerso in una visione esteriore e interiore delle tenebre, non viste come assenza, negazione della luce e del giorno, ma come inevitabile passaggio di un cammino ciclico, di un ripercorrere costantemente, quasi fosse un balsamo o un lenitivo, determinati passi o un certo sentiero in cui l’alternarsi luce/buio permette all’uomo (e ancor più all’artista) di percepire cose, sensazioni, visioni che prima gli erano precluse. Il Notturno è quindi la metafora, il racconto, la dimensione di quanto Chopin percepisce nelle tenebre, a cominciare dal bene più agognato e prezioso, quello incarnato dalla sfera del silenzio. Se noi non consideriamo la musica di Chopin imbevuta costantemente (soprattutto nei Notturni) dal principio del silenzio, non riusciremo mai a comprenderla e ad accettarla. Un silenzio che non si materializza solo fisicamente come assenza stessa del suono, cesura dello spartito in quanto tale, ma da intendere come silenzio che si annida nel suono stesso, come le cose, gli oggetti, la natura che possono essere intravisti o solamente immaginati quando sono avvolti dalle tenebre, al punto da poter definire il silenzio il respiro stesso della musica chopiniana e, in particolar modo, dei suoi ventuno Notturni. Da qui la vera chiave di lettura di queste composizioni, che rappresentano l’evoluzione di un viaggio da intendere non solo a livello musicale, un viaggio che vede l’approfondirsi di un eloquio in cui progressivamente i colori timbrici si espandono, si irradiano, avviluppano la dimensione armonica riversandosi sulla superficie melodica, ma anche da un punto di vista di conquista “interiore” di come Chopin intendeva il mistero sonoro, forma suprema per raccontare l’anima, le emozioni, aprendo porte e scardinando casseforti capaci di resistere solo ad altre espressioni artistiche, ma non alla musica.
I Notturni di Chopin, insomma, hanno il potere di evocare come raramente capita nella storia della musica la dimensione del silenzio, della sua ossessiva ma celata presenza che solo a tratti viene portata in superficie. Un silenzio che assumeva una precisa forma nel suono o, per meglio dire, nelle intenzioni stesse del suono chopiniano e che dava luogo a una ritualità che doveva essere rispettata da chi voleva ascoltare, ossia quei pochi privilegiati che nei salotti aristocratici e dell’alta borghesia parigini ascoltavano senza poter nemmeno applaudire alla luce di fioche candele per rendere più palpabili immagini musicali evocate dall’autore al pianoforte (quindi, a pensarci bene, tutta la musica di Chopin è un articolato e poliedrico Notturno). Il silenzio metafisico, da intendersi non come annullamento dell’essere, ma come adesione ultima dell’essere all’essenza delle cose, si annida nei Notturni, nei passaggi più sfumati (finale del Notturno in re bemolle maggiore n. 2 op. 27), come nei momenti più idilliaci (incipit del Notturno in la bemolle maggiore n. 2 op. 32), dove l’elemento ritmico lascia intravvedere come il silenzio possa essere ascoltato interiormente, carezza impalpabile che solo la musica di Chopin è in grado di esprimere. È il silenzio che assume impianti nostalgici all’inizio del Notturno in sol maggiore n. 1 op. 37, che timbricamente rimanda già a un futuro che verrà indagato dal Fauré di fine secolo, è il luogo immaginato da Chopin dove avrebbe voluto nascondersi agli occhi del mondo nel Notturno in do minore n. 1 op. 48 ed è il commiato, delicato, in punta di piedi, del Notturno in mi maggiore n. 2 op. 62.
Se ho voluto inquadrare il discorso relativo ai Notturni di Chopin alla luce di questa dimensione del silenzio presente in essi è proprio per il fatto che la lettura fatta dal giovane pianista francese François Dumont mira a evidenziare questa prerogativa. Una lettura che vanta una duplice peculiarità, quella di non deformare queste composizioni con un approccio tale da immaginarle espressione di una mera malinconia, colme di un languore esasperato, fonte e strumento dell’infelicità del compositore polacco, ma rendendo loro giustizia attraverso una prospettiva in cui non si scade nel patetico (incipit del celebre Notturno postumo in do diesis minore P 1 n. 16), ossia con un’interpretazione in cui la linea melodica viene tenuta nelle corrette proporzioni esecutive, senza accentuazioni o esagerazioni; quindi, una lettura “oggettiva”, capace di restituire dei Notturni intesi come “esplorazioni” e non come “consolazioni”, ma senza dimenticare allo stesso tempo di tracciare timbricamente quelle sfumature, quei pastelli che arrotondano il suono e lo disincarnano delicatamente. E qui subentra la seconda peculiarità, poiché Dumont, capace di dominare la materia sonora, tende a plasmare un’esecuzione in cui la disciplina della forma si accompagna con una sostanza che nulla cela a livello di emozioni, di sentimenti e di raffigurazioni più o meno simboliche, in cui l’eloquio, il fraseggio sono sempre irrorati da un suono che si smaterializza (nel silenzio) senza cedere alla tentazione di “dire di più”, di esporsi a soggettivazioni di sorta che, invece di raccontare il viaggio dei Notturni, tendono soltanto a farne una sterile e inesatta mitologia.
Davvero degna di nota la presa del suono, come sempre curatissima da questa etichetta discografica, effettuata dall’ingegnere del suono Frédéric Briant e in fase di editing, mixing e mastering da Alessandro Simonetto. Dinamica precisa, dotata di una sua naturalezza e debita velocità, con un corretto decadimento degli armonici; il palcoscenico sonoro restituisce lo strumento scolpito al centro dei diffusori, con un dettaglio che ne esalta l’indubbia matericità e con un equilibrio tonale capace di cogliere al meglio i registri senza indebiti accavallanti tra quello acuto e quello grave e viceversa.
Andrea Bedetti

Fredérich Chopin – 21 Nocturnes
François Dumont (pianoforte)
CD AEVEA AE17044

Giudizio artistico 5/5
Giudizio tecnico 5/5