I “Codici Chigi”, ovvero i Tagebücher musicali di Girolamo Frescobaldi
Ciò che fece il divino Claudio Monteverdi per la voce, l’altrettanto sommo Girolamo Frescobaldi lo fece per la tastiera; questo potrebbe essere l’“Apriti Sesamo” attraverso il quale accedere nel modo più corretto e lucido al Seicento musicale, al suo cuore, al suo disvelarsi, al suo congiungersi alla spazialità della pittura, scuole veneziana e napoletana su tutte, e al perfezionarsi stilistico e semantico della lingua italiana, vuoi in chiave “sonora”, con Metastasio, vuoi in chiave “poetica”, con Giovan Battista Marino. Secolo fulcro, il Seicento chiuse molte porte sul passato, ma altrettante ne aprì grazie a un progredire sistematico delle arti, a cominciare da quella musicale, la quale ebbe tra le sue “parole d’ordine” una particolarmente cara e fondamentale, quella che potremmo definire “svincolamento”.
Uno svincolarsi che riguarda l’evolversi della pratica strumentale rispetto alla “madre di tutte le madri”, ossia la voce, la quale si era identificata con la mousiké téchne degli antichi greci (l’espressione in questione, difatti, coinvolge anche la danza e, soprattutto, la poesia); uno svincolarsi che mosse compiutamente e arditamente i primi saldi passi nel corso della prima metà del Cinquecento, per poi consolidarsi nello sviluppo del secolo successivo, anche se tale distacco dal cordone ombelicale la musica strumentale lo fece ancora grazie alla voce, alla luce di quanto enunciato da Monteverdi nella concezione programmatica della seconda prattica, la quale se da una parte intese semplificare la costruzione e la ricezione del costrutto canoro, dall’altra permise, tramite tale semplificazione, l’affiorare di quell’effetto/affetto che il canto doveva provocare in chi l’ascoltava (un “effetto/affetto”, però, che fu in grado di coinvolgere tutte le arti dell’epoca, è bene ricordarlo).
Proprio partendo dalla seconda prattica monteverdiana, la grandezza del messaggio artistico di Frescobaldi si evidenzia in un’altrettanta “seconda prattica” in ambito strumentale, veicolata attraverso il progressivo sviluppo degli strumenti a tastiera, del quale il sommo ferrarese fu magister assoluto, e non solo in ambito italico. Anche grazie alla sua opera, al suo magistero, alla sua instancabile ricerca sonora, il suono strumentale seppe ritagliarsi una dignità con la quale affermare la sua piena autonomia rispetto alla voce umana, facendo sì che la dimensione della mimesi nei confronti di quest’ultima potesse progressivamente annullarsi, come un novello Narciso non più obbligato a rispecchiarsi nelle acque della vocalità, ma assumendo una propria fisionomia: con Frescobaldi, finalmente, la musica strumentale comprende che deve specchiarsi in se stessa, indagando la questione del tutto (lemma, questo, particolarmente caro al Seicento filosofico e filologico) tra le maglie che la strumentazione del suono in sé riesce ad esprimere.
Quindi, se vogliamo comprendere appieno, nella sua remota profondità, la concezione estetica di Frescobaldi, quella che si concretizza nella dimensione fisica del suono, dobbiamo individuare nella sua musica l’espressione pura, assoluta del “suono-in-sé”, di cui l’arte dei suoni riveste solo un tassello in quanto tutta l’espressione artistica del Seicento è un inarrestabile e progressivo atto di consapevolezza dell’acquisizione-in-sé del momento creativo, del suo passaggio da “idea” a “forma/contenuto”. E questo ci fa capire, allo stesso modo, per quale ragione il pensiero e l’arte del XVII secolo abbiano voluto privilegiare lo spazio, la conquista volumetrica dell’oggetto per riempire ciò che era dato dalla necessità dell’atto creativo stesso: la spazialità nella pittura che scopre una profondità che dev’essere colmata da volumi e oggetti, in una poesia e una prosa che tendono a una necessità di maggiore descrizione di ciò che viene semanticamente enunciato e in una musica (strumentale) che mira ad essere affettiva tramite un’effettistica che ha le sue leggi e le sue regole squisitamente volumetriche (dobbiamo forse chiederci perché proprio l’organo diviene il “pontifex sonoro” di tale espressività volumetrica?).
E nella prima metà del Seicento, nessuno in tal senso seppe muovere e sistematizzare le volumetrie sonore come riuscì a fare Girolamo Frescobaldi. Questo noi lo sappiamo, e ne gioiamo, quando studiamo e ascoltiamo le partiture che appartengono alle grandi costruzioni tastieristiche del suo lascito, quelle tracciate e pubblicate tra il 1608 e il 1645 (si pensi alle Toccate e partite d’intavolatura di cimbalo del 1615, al Secondo libro di toccate, canzone, versi d’hinni, Magnificat, gagliarde, correnti et altre partite d'intavolatura di cembalo et organo del 1624, ai Fiori musicali di diverse compositioni, toccate, kyrie, canzoni, capricci, e recercari in partitura del 1635), autentiche colonne portanti di tutto l’edificio musicale di quell’epoca, sulle quali in seguito altri, Bach su tutti, seppero ergere altre, mirabili volumetrie creative.
Ma al di là del Frescobaldi storicamente e musicologicamente acquisito, ne esiste anche un altro, quello fatto di molteplici pagine manoscritte, innumerevoli autografi conservati da biblioteche pubbliche e private in Italia e all’estero, al centro di annose dispute relative alla loro autenticità e che sono stati raccolti in una benemerita opera da parte di uno dei maggiori studiosi della musica frescobaldiana, lo svizzero Etienne Darbellay (con la collaborazione di Constance Frei), pubblicata nel 2017 dai tipi delle Edizioni Suvini Zerboni di Milano. Partendo da questo encomiabile contributo musicologico, una delle maggiori organiste attuali, Ivana Valotti, già allieva del grande Luigi Ferdinando Tagliavini, e attualmente docente di organo e composizione organistica al Conservatorio di Milano, oltre a far parte dell’Ensemble Ars Cantandi di Giovanni Acciai, ha registrato per l’etichetta discografica Tactus un CD contenente pagine inedite frescobaldiane, appartenenti a quell’autentico vaso di Pandora rappresentato dai cosiddetti Codici Chigi, in quanto provenienti dalla sontuosa biblioteca privata della famiglia Chigi, acquisita nel 1924 dalla Biblioteca Apostolica Vaticana su dono dello Stato Italiano il quale ne era entrato in possesso sei anni prima, la quale vanta per l’appunto la più grande collezione di manoscritti frescobaldiani per tastiera (per la precisione, la biblioteca appartenuta al cardinale Flavio Chigi conserva, tra gli altri, i manoscritti musicali per tastiera Chigi Q. IV. 24, Chigi Q. IV. 25 (recanti il titolo Sonate d’Intavolatura del Sig. Girolamo Frescobaldi) e Chigi Q. IV. 29, presi in considerazione in questa registrazione.
L’importanza di questi manoscritti, come spiega giustamente la stessa Ivana Valotti nel denso e dotto libretto che accompagna l’incisione in questione, è quella di mostrare il côté privato, oseremmo affermare il musicalmente quotidiano del giovane Frescobaldi, vale a dire il cortile che si cela dietro alla magnifica facciata della sua musica “ufficiale”, una sorta di intimi Tagebücher sonori, attraverso i quali penetrare nell’essenza della sua eccelsa visione artistica. I frutti di questi tre codici l’organista lombarda li ha voluti incidere facendo ricorso a un meraviglioso strumento, l’organo Graziadio Antegnati del 1605, che si trova nella basilica palatina di Santa Barbara a Mantova. I generi affrontati dal sommo compositore ferrarese in questi manoscritti riguardano principalmente l’elettiva “trimurti” di cui fu impareggiabile artefice, la toccata, la canzona e il ricercare. Sono pagine emozionanti quelle proposte da Ivana Valotti, poiché forniscono veramente un volto diverso del musicare frescobaldiano, squisitamente intimistico, un voltairiano Candide che riflette, argomenta, disquisisce sulla tastiera, alla ricerca di quell’“in-sé” di cui si è sopra accennato e che ne fa un autentico figlio del Seicento.
È interessante notare come queste composizioni, pur mancando della medesima sistematizzazione e organicità, ricalchino una sorta di Clavier-Übungen di bachiana memoria, nel senso che la loro funzione non sta tanto nel fornire un insegnamento, quanto per tracciare un primo solco dal quale Frescobaldi seppe poi trarre una pletora di spunti, di ampliamenti, di sviluppi che confluirono in seguito nei capolavori del corpus maggiore. Qui, l’Übung, l’esercizio, è al servizio di se stesso e corrisponde al taccuino, ai fogli sui quali pittori come Dürer, Leonardo, Rembrandt, Degas, Toulouse-Lautrec, tanto per fare dei celebri esempi, seppero dapprima fissare le linee, i volumi, le prospettive, la capacità di proiettare delle emozioni che sarebbero poi stati veicolati nelle loro opere pittoriche; allo stesso tempo, ascoltando i trentuno brani della registrazione suddivisi nei tre codici in questione, noi possiamo non solo accedere all’intimità musicale frescobaldiana, ma anche renderci meglio conto di come tale esercizio (che aveva però anche una sua funzionalità, visto che tali pezzi sarebbero poi stati usati per fini liturgici o occasionali) abbia portato alla pianificazione e all’entità finale del percorso artistico nelle opere più famose e acclamate. In un certo senso, chi già conosce la musica del sommo ferrarese avrà modo di comprendere come l’autore attraverso queste pagine sondi la tastiera, cerchi di capirla ancora prima di sfruttarla, segno ineludibile di un evidente work in progress destinato ad entrare nella storia musicale.
E dice bene Ivana Valotti quando afferma nel booklet che questi brani, in massima parte, sono all’insegna di quel comporre alla “sprovista”, termine mirabile della lingua italiana del Seicento che sta a indicare la capacità di improvvisare sorprendendo l’ascoltatore, ossia provocando in lui stupore e ammirazione, in quanto il costrutto musicale va a toccare un ambito non previsto, non consueto, solleticando in tal senso l’affiorare di quegli “affetti” di cui una buona fetta della musica barocca è impregnata. E questo grazie a una freschezza, a una spontaneità, a una linea della tessitura imbastita che ancora non è sottoposta a quelle sovrastrutture presenti nelle opere maggiori che caricano di un sottile intellettualismo e di un delizioso manierismo epocali la loro stessa essenza.
Una registrazione del genere, quindi, rappresenta un autentico tesoro non solo per coloro che amano e conoscono il repertorio frescobaldiano, ma anche per chi è ancora “vergine” del suo ascolto, poiché per comprendere e ammirare la sua profondità, la sua ricchezza, la sua portata rivoluzionaria, proprio partendo da questi brani inediti si può assimilare meglio il “dopo” del sommo ferrarese, andando a intraprendere un sentiero che permette di acquisire, tappa dopo tappa, opera dopo opera, l’irradiarsi della visione estetica e musicale di Frescobaldi.
Al di là dell’importanza di tale progetto discografico, va da sé che tale importanza non avrebbe avuto un senso compiuto se l’interprete non fosse stata all’altezza della situazione. Cosa che con Ivana Valotti ovviamente non avviene, poiché l’organista lombarda, dall’alto della sua tecnica e soprattutto di quell’indispensabile sensibilità assimilativa, riesce non solo a rendere, ma soprattutto a trasmettere le peculiarità che caratterizza questi brani. Ciò vuol dire fondamentalmente due cose: la prima è che, sebbene il loro uso e la loro cifra stilistica siano indubbiamente variegati, era necessario fornire un “DNA cumulativo”, una precisa impronta che potesse essere racchiusa in un’arcata globale, dando quindi una visione d’insieme di quanto delineato in questi codici; la seconda è che poi ogni brano doveva essere reso come un preciso “microuniverso” a sé, come un Tagebuch in cui ogni pagina racconta in sé qualcosa di diverso da ciò che lo precede e da ciò che lo segue. Questo significa un “sentire”, un’assonanza di frequenze elettive che solo un artista di razza si può permettere di avere e offrire con la sua lettura. Non c’è da meravigliarsi, dunque, se i più di settanta minuti di durata di questa registrazione letteralmente volano, capaci di annullare la presenza ingombrante del tempo esterno alla musica, in quanto quello interno, il suo respiro, viene esaltato dalla coinvolgente profondità esecutiva di Ivana Valotti.
Un’ultima nota di merito dev’essere data alla presa del suono, in quanto Jean-Marie Quint è riuscito a restituire molto bene le caratteristiche del meraviglioso organo Graziadio Antegnati della basilica palatina mantovana. Ricordo ancora una volta che il suono dell’organo è il più difficile e insidioso da catturare e in questo caso la dinamica, con la sua velocità e rotonda energia, ha permesso di conseguenza di ricostruire lo strumento in un ideale palcoscenico sonoro, scolpendo l’organo in un’adeguata profondità, in modo da rendere percepibile anche lo spazio che lo circonda (è come se l’ascoltatore si trovasse seduto nella prima metà della navata). E se l’equilibrio tonale è oltremodo rispettoso dei vari registri, soprattutto di quello grave, a dir poco vellutato, il dettaglio abbonda di nero in modo da concretizzare un’ottima matericità dell’organo.
Andrea Bedetti
Girolamo Frescobaldi – Musiche inedite dai “Codici Chigi”
Ivana Valotti (organo)
CD Tactus TC 580609
Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 4/5