I Cahiers d’Écriture: la lunga strada della Recherche di Proust sul palcoscenico teatrale

L’azione teatrale (per la presentazione dei Cahiers d’Écriture di Marco Filiberti, vedi l’articolo dedicato in precedenza) si apre sulle note della Gymnopédie n. 1 di Erik Satie, pantomima, nel suo andamento nostalgico, di una mesta marcia funebre in guêpière e tacchi a spillo, capace di solleticare delicatamente le flessuosità corporee degli attori, fissandole in un quadro d’insieme dal sapore squisitamente preraffaellita, immagine icastica di una belle dame sans merci, che sorride sardonica; ma, accanto a questa fulminea proiezione, non dobbiamo mai dimenticare che Filiberti associa anche il semantico che si annida in ogni cosa, dunque, qui l’apollineo copula con la rappresentazione del significato del termine gimnopedia, ossia dell’incedere degli atleti dell’antica Grecia, con i loro corpi scolpiti, che si mostrano prima della competizione.

Una scena del secondo dei Cahiers d’Écriture di Marco Filiberti, alla prima avvenuta al Teatro degli Avvaloranti a Città della Pieve (© Francesca Cassaro).

L’intento è chiaro, manifesto programmatico del teatro del drammaturgo e regista milanese, affisso sul portale wittembergiano del suo palcoscenico proiettato e offerto in pasto. Filiberti è, vivaddio!, esigente: impone da parte dello spettatore intelligenza e sensibilità, conoscenza, anche cognitiva, e perspicacia, della serie pochi ma buoni. Quindi, la musica e la plasticità dei corpi, maschili e femminili, i primi con pantaloncini e corsetti da botteghe pittoriche rinascimentali, le seconde con lunghe tuniche da effluvi baccanti, sono già un monito: la semplicità come viatico di una bellezza eterna, vagheggiata e presente, con rimpianto, nelle pagine della Recherche. Qui, il tempio della scena è consacrato a Proust, certo, ma il romanziere/viaggiatore nel tempo è solo l’alfa o l’omega, e nel mezzo si fissa un fluttuante buco nero che tutto addensa e assimila a sé, un buco nero che fa la raccolta di tante figurine: l’irruzione dell’arte moderna, lo sconcerto di un erotismo che non conosce mezze misure e in cui la promiscuità detta le leggi del piacere (il barone Charlus non si mostra ancora appieno con le sue sconfinate potenzialità, come quando in Sodoma e Gomorra si trasforma in un divino burattinaio alle prese con il gilettajo Iupien, ma gli appetizer già all’inizio non mancano di certo).

L’introito, ergo, è pronto a ingolosire i propilei nei cui recinti galoppa il sentimento della gelosia, atto pregnante del primo cahier con il quale l’orfico Filiberti dipana la sua tela proustiana/mondana. Gelosia che viene inghiottita dagli attori/personaggi come un’ostia dell’ossessione, transustanziazione di buona parte della cattedrale Recherche; inutile, assistendo a questo quadro, cercare di piazzare un semaforo capace di veicolare il traffico delle emozioni, delle sensazioni, dei tanti rimandi che il nostro drammaturgo e regista versa in continuazione. Dall’orchestra dei corpi che si avvicinano, si respingono, che si attraggono, che si accarezzano, che si lasciano andare a carezze, il cui peso è pari all’effetto dato dal martello di Thor, si creano di volta in volta duetti e trii cameristici, in cui il movimento di gambe e di braccia, il lessico, talvolta sfumato in raffinate prelibatezze, in altre vomitato in stile Dante Virgili, viene cementato dall’implacabile apporto musicale, portale (quanto piace a Filiberti questo termine!) dal quale irrompono sempre, goccia d’acqua perenne sul marmo scalfito, ricordi onnipotenti, orme d’antica pietra, spalmate generose di madeleine modello Nutella. Il potere ammaliante dello stacco musicale, la sua presenza benefica, al cui confronto il balsamo di Kundry è solo squallido effetto placebo. Il corteo è lungo e variegato, signore e signori, con La Valse di Ravel, pretesto per l’agognato contatto fisico tra Swann e Odette, o ancora la Sonata per violino di Franck, della quale lo stesso Proust, in una lettera del 1913 ad Antoine Bibesco, volle mettere bene in chiaro che con la scena della “Sonata di Vinteuil”, narrata in Du côté de chez Swann, non c’entrava una beata fava, ma tanto la leggenda metropolitana era stata creata e guai a demolirla. E poi, ancora il gallico Saint-Saëns, con un passaggio dal Samson et Dalila (alias Charlus che esplora debitamente le praterie epidermiche di Morel), Lucienne Boyer, che sembra la sorella maggiore di Edith Piaf, mentre gorgheggia Parlez-moi d’amour(e che cosa ce ne può fregare se questa canzone risale al 1930, costringendo così l’ectoplasma di Proust ad ascoltarla solo nel corso di una seduta medianica?) e il figlio d’Albione Richard Addinsell (il Concerto di Varsavia vi dice forse qualcosa?) con passaggi mirati da The Prince and the Showgirl.

Il regista e drammaturgo Marco Filiberti.

Queste gettate di calcestruzzo sonore fissano e creano un’impalcatura fluida, liquida, sinuosa che va a infilarsi negli orifizi delle varie scene desunte dai cartoni/Cahiers presi in esame (ma, sia ben chiaro, se nell’intervista a noi concessa Marco Filiberti afferma che i due Cahiers in questione possono essere considerati dei disegni preparatori di affreschi michelangioleschi, in realtà si tratta di schizzi di Degas, ossia opere d’arte telles quelles): qui prendono corpo la (presunta) morte di Albertine, l’ictus che colpisce Charlus (te lo sei meritato, figliolo, direbbe paternamente la buonanima di Don Camillo… ) di fronte a un Morel che non muove un dito, fino alla tardiva presa di coscienza di Swann, vortici dialettici che si azzuffano, cercano di chiarirsi, giungono alla resa dei conti (come si suol dire, il tempo è galantuomo), come se il palcoscenico venisse trasformato in un gala inquisitorio che tanto piaceva a Torquemada, senza nemmeno dover usare strumenti di tortura, poiché a torturare ci pensano i gesti, le mani, i corpi, le posture, il gioco di luci (ottimo ed essenziale il lavoro fatto, a tale proposito, da Piermarco Lunghi), ancora la musica e il senso fisico dello spazio, che nei momenti più drammatici diviene, attraverso mirate angolazioni, spigoli di pura claustrofobia.

Il secondo Cahier, se possibile, è ancor più labirintico, proteiforme, tentacolare nella sua essenza. Il sempre orfico Filiberti ci vuole ricordare che in Proust, come se fosse un Brahms letterario, convivono l’anima classica e quella moderna, così come quella artistica che si coniuga con quella puramente mondana e sculettante (avete mai pensato che Proust, in fondo, e questo soprattutto nel periodo iniziale della sua attività di narratore e testimone dei costumi propri e altrui, è stato un Andy Warhol ante litteram?). Il Giano bifronte viene quindi affrontato ricorrendo a precisi portali/simboli della sfera femminile: da una parte Berma, emblema dell’arte classica, di quell’immutabilità che viene considerata come canone eterno (vista da Proust come manifestazione salvifica di verità), dall’altra Rachel, vessillifera dell’arte moderna che irrompe, stratificazione destabilizzante che mira a far saltare il sistema/cultura, ambasciatrice delle avanguardie e votata all’effimero e alla volubilità dei gusti del pubblico. Ma, a sua volta, questo binomio antitetico è solo un aspetto che deve fare i conti con un altro elemento, dato dalla Phèdre raciniana, che rappresenta il “doppio” del Narratore, l’Io portante della Recherche, simbolo dell’amore che si rende colpevole e che non viene corrisposto, crosta che si stacca dalla ferita, la quale non smette mai di sanguinare pagina dopo pagina, libro dopo libro. Sì, perché un denominatore che non cessa mai di fare ombra sull’anima di tutto il ciclo narrativo è un “altro” flusso, quello che è intriso di erotismo disperato, accecato e accecante, che si abbevera alla fontana della tragicità.

Ancora i Cahiers d’Écriture, in una scena che appartiene al primo di essi (© Francesca Cassaro).

Ecco perché in questo secondo Cahier la materia che viene rappresentata, in quanto troppo debordante, tracimante, abbisogna di “altro” spazio, di un movimento scenico che va oltre i limiti del palcoscenico stesso; così, gli attori/personaggi si muovono all’inizio della platea, occupando anche la prima fila di poltroncine, a loro riservate, protagonisti e spettatori a seconda della visione da loro incarnata, oppure prendendo posto in un palchetto, affinché la proiezione narrativa sia in grado di osservare se stessa in action, con il doppio che si sorprende nel guardare il Doppelgänger che è in sé. La concitazione che prende corpo in questa fase ultima della rappresentazione è un puro concentrato di perfida ironia, di sottili stilettate lessicali, di sfumature psicologiche che si trasformano in palline da ping-pong lanciate sopra la rete della voluttà più sfrenata (anche a livello musicale, la scelta del Pierrot lunaire di Schönberg la dice lunga). Ma sono elementi, questi, che si mostrano per quello che sono nel momento stesso che devono affrontare la sfida con il tempo (osservando questi stridor di denti che si rincorrono, si sfidano, si inseguono per darsi reciproca morte, mi è tornato alla mente quanto affermò il filosofo di Röcken, “Si avvicinano i tempi in cui l’uomo non partorirà più stella alcuna. Guai! Si avvicinano i tempi dell’uomo più spregevole […] La sua genia è indistruttibile”). Sì, siamo ormai assistendo a un cielo senza firmamento, fatto di satelliti escrementali che si credono di essere astri infiniti, tra giochi di società abbietti, rivalse e calci nei coglioni a tradimento, perché l’amore, quello che è sopraffazione, egoismo, implacabile forma di potere fine a se stesso, è anche e soprattutto ciò.

E la fine, con Filiberti, suo squisito ed entusiasmante marchio di fabbrica, non poteva che coincidere con l’immagine di una parodia di un Walhalla de’ noaltri, con dèi che si scoprono di non essere mai stati tali solo un attimo prima di essere spazzati via, il tempo di un commiato che si concretizza in un interruttore che viene spento improvvisamente, prima la luce (effimera), poi, subito dopo, il buio (quello vero). Proust ama Wagner e Wagner, malgré soi, è costretto a lasciare per un momento la sua morte veneziana per soccorrere il romanziere francese che si è visto trascinato in quella scatola magica che si chiama teatro. Il buio improvviso ci lascia senza fiato (Vorspiel metaforico della morte stessa) e ci fa provare sulla pelle quel “scenderemo il gorgo muti” di pavesiana memoria.

Un gorgo che si preannuncia sardonicamente rivitalizzato, ma come e quando?, nel proseguo di questo progetto di cui non vorremmo mai vedere il suo Untergang.

Non nascondo che cercare di fornire un’impressione, più che un’analisi, di questi Cahiers d’Écriture è stata alquanto complessa e per nulla semplice; ma anche questo è il teatro che offre, con una punta di malignità (ma se non l’avesse avuta, avrebbe mai potuto plasmare la materia proustiana?), Marco Filiberti. Ecco perché, e qui mi rivolgo a coloro che decideranno di affrontare la visione di questo doppio studio teatrale, preludio della Recherche vera e propria, dopo essere stati spettatori teatrali, dovranno poi esserlo di nuovo con l’apporto di un video, di una registrazione della medesima rappresentazione, poiché la materia che il regista e drammaturgo milanese mette a disposizione non può essere metabolizzata e digerita, con tanto di rutto liberatorio, solo dopo un’unica occasione. Il suo teatro è un continuo ri-affioramento, è un procedere che bandisce il concetto della “pappa pronta” di facile assimilazione, è un Carlo Cracco che presenta ai suoi clienti un bel piatto di fegato alla veneziana da assaporare a metà agosto, magari accompagnata da un Amarone, tanto per complicare il tutto.

Ma chi non ha gusti semplici, chi non rientra nel gregge dei poveri di spirito, chi cerca le pareti di sesto grado intrise di olio, qui troverà pane per i suoi denti, poiché sarà costretto a diventare spettatore/attore di sé stesso, tanto sarà il suo coinvolgimento.

Sono rimasto colpito da come Filiberti abbia lavorato sul materiale umano che ha a disposizione, su come gli undici attori da lui gettati (nel senso heideggeriano del termine) sul palcoscenico (ricordo i loro nomi: Daniel De Rossi, Diletta Masetti, Giovanni De Giorgi, Zoe Zolferino, Luca Tanganelli, Martina Massaro, Pavel Zelinskiy, Alessio Giusto, Olimpia Marmoross, Irene Ciani e Alessandro Burzotta) abbiano dato luogo non tanto a una rappresentazione teatrale, ma a un rito misterico, a un’azione dedicata a un culto iniziatico, tale è la passione, il coinvolgimento, l’aderenza assoluta a ciò che per più di un’ora e mezza sono riusciti a mostrare. Questo perché hanno saputo incarnare realmente un ideale di Gesamtkunstwerk, in cui recitazione e movimento corporeo sono sempre fusi in un’armonia che è il riecheggiamento eternizzato di quella scena iniziale in cui la staticità apollinea della Gymnopédie si tramuta in un movimento che diviene commovente inno di un’insospettata entropia che conduce per mano lo spettatore fino alla resa finale dei conti.

Al di là di un doveroso omaggio al sound designer Stefano Sasso, un plauso indispensabile deve andare a Emanuele Burrafato, stregone delle coreografie e dei movimenti scenici. Se prima ho parlato di un’orchestra fatta di attori/protagonisti è perché sotto le sue mani e la sua sensibilità si sono trasformati in altrettanti strumenti musicali/esistenziali, i cui muscoli, nervi, ossa, vene, hanno saputo comunicare in modo straordinario.

In breve, fortunato fu, chi riuscì ad assistervi.

Andrea Bedetti

Giudizio artistico 5/5