Gustav Jenner, l’ammiratore di Brahms
La figura e l’opera di Johannes Brahms fu talmente rilevante negli ultimissimi decenni dell’Ottocento da suscitare l’ammirazione e l’entusiasmo in numerosi colleghi, più o meno famosi, in tutta Europa, oltre a far fiorire molti epigoni che mossero i loro passi compositivi sul solco lasciato dal sommo genio di Amburgo. Epigoni che provocarono il più delle volte un fastidioso risentimento da parte dello scorbutico e umorale compositore, che li considerò a volte una vera e propria piaga dalla quale tenersi lontano alla stregua della peste bubbonica (non per nulla, è bene ricordarlo, la famosa querelle tra Wagner e Brahms non nacque per volontà dei due giganti tedeschi, quanto dai seguaci dei due compositori che, volenti o nolenti, li costrinsero a confrontarsi in una disputa sterile e imbarazzante).
Uno dei molti epigoni brahmsiani fu il tedesco Gustav Jenner nato nel 1865 a Keitum sull’isola di Sylt, facente parte del circondario della Frisia Settentrionale, nello Schleswig-Holstein. Suo padre, un facoltoso medico, proveniva da una famiglia scozzese e sosteneva di discendere da Edward Jenner, lo scopritore del vaccino contro il vaiolo, oltre ad essere imparentato con la famiglia che aveva costruito gli omonimi Grandi Magazzini Jenners in stile Art Nouveau, tuttora una delle attrazioni di Princes Street a Edimburgo. Ancora studente a Kiel, Gustav Jenner iniziò ad imparare da solo a scrivere musica e, dopo che suo padre si suicidò nel 1884 (per l’onta di essere stato accusato di aver abusato di pazienti donne), divenne amico del poeta Klaus Groth, che lo assistette e l’aiutò ad entrare in contatto con il vecchio insegnante di Brahms, Eduard Marxsen ad Amburgo. Costui accettò di fargli da maestro e, notate le spiccate doti musicali del giovane Jenner, lo raccomandò proprio a Brahms, il quale a sua volta decise di prenderlo come allievo a Vienna dal 1888 al 1895. Nella capitale asburgica, Gustav Jenner ebbe modo di ricevere lezioni anche dal compositore e didatta rumeno Eusebius Mandyczevskij, amico fraterno dello stesso Brahms e curatore dei suoi beni. Il rapporto che si venne a creare tra il genio di Amburgo e il suo allievo, l’unico che ebbe a livello ufficiale, mette in luce la personalità “double face” brahmsiana: da una parte, infatti, criticò spietatamente il sistema compositivo di Jenner, affermando che più che creare, scimmiottava le sue opere, dall’altra, invece, si prese a cuore la sua attività, garantendogli un sostentamento economico grazie alla nomina di segretario della Tonkünstlerverein di Vienna (l’Associazione dei musicisti della capitale austriaca), oltre a farlo diventare nel 1895 direttore musicale e direttore d’orchestra dell’Università di Marburgo, dove l’epigono di Brahms trascorse il resto della sua carriera, nonostante gli inviti ad assumere incarichi più prestigiosi prima a Breslavia e poi a Berlino. Jenner morì proprio a Marburgo nell’agosto 1920.
In qualità di compositore Jenner si concentrò soprattutto sulla musica da camera (il suo catalogo comprende tre quartetti per archi, un quartetto per pianoforte, un trio per clarinetto, corno e pianoforte, tre sonate per violino, una sonata per violoncello e altre opere), oltre a scrivere brani corali, Lieder e una Serenata per orchestra. Affiancata alla sua scarna attività compositiva, c’è anche quella del didatta e quella della gestione burocratica scaturita dagli impegni istituzionali, oltre a quella saggistica, focalizzata soprattutto sulla figura di Brahms, riassunta in un’opera in due volumi, Brahms als Mensch, Lehrer und Künstler (Brahms come uomo, insegnante e artista), pubblicata a Marburgo nel 1905, che rappresenta una preziosa fonte biografica.
Per avere un’idea del Gustav Jenner compositore si può fare riferimento a un CD pubblicato dalla Aulicus Classics, che vede Paolo Beltramini al clarinetto, Zora Slokar al corno e Roberto Arosio al pianoforte cimentarsi con due pagine cameristiche del compositore tedesco, la Sonata in sol maggiore per clarinetto e pianoforte e la Sonata per clarinetto, corno e pianoforte in mi bemolle maggiore. Due composizioni che hanno il merito e il demerito di mettere in luce la sua peculiarità compositiva. Questo perché, a partire dalla scelta del corno e del clarinetto, già si evidenzia la spiccata propensione del compositore tedesco di emulare quelle tipiche sonorità brahmsiane (non è un mistero che il sommo di Amburgo amasse in modo particolare il timbro di questi due strumenti), così come il respiro, il senso delle proporzioni, i possibili sviluppi tematici, suscitando di fatto le reazioni negative del sommo maestro, che vedeva in essi una sorta di “clone” speculativo. Ne è un esempio il Trio per clarinetto, corno e pianoforte, la cui prima versione fu aspramente criticata da Brahms e che Jenner volle riprendere e rielaborare tre anni dopo la morte del suo maestro, ossia nel 1900. Eppure, anche in questa nuova versione l’odore, il marchio dell’imprinting brahmsiano continuano ad aleggiare pesantemente su tutto il costrutto, con un’atmosfera melodica impregnata dalle orme lasciate dai passi del genio di Amburgo. In breve, viene a mancare un debito sviluppo tematico tra il corno e il clarinetto, se non riproponendo stilemi e accorgimenti armonici che seguono in modo pedissequo quanto enunciato dalla grande lezione brahmsiana.
Lo stesso si può affermarlo per la sua Sonata per clarinetto e pianoforte, completata nel 1899 e sempre in quattro tempi, che fu dedicata ed eseguita in prima assoluta da Richard Mühlfeld, uno dei più grandi clarinettisti dell’epoca, il quale ebbe modo di ispirare proprio quei capolavori che Brahms, in tarda età, concepì per questo strumento a fiato. Qui, il clarinetto tende ad enunciare una tavolozza che abbiamo già avuto modo di ascoltare, con ben altri sviluppi e intensità espressive, in Brahms. Se quest’ultimo indicò con la sua opera un preciso sentiero, che venne poi sviluppato e articolato, sotto altri aspetti e in modo apparentemente sorprendente (vedasi il capitolo Schönberg), altri, in chiave esclusivamente conservativa, e ciò con una valenza peggiorativa, tesero solo a ripercorrere gli stessi passi fatti dall’amburghese, restando di fatto epigoni o, per meglio dire, degli sbiaditi cloni che nulla apportarono nella prospettiva di una neue Musik.
Chiara Bertoglio, nelle note di accompagnamento al disco, parla apertamente di “genio” riferendosi a Jenner; personalmente, non la penso allo stesso modo. D’altronde, basta ascoltare altre registrazioni discografiche dedicate alla sua musica (i tre quartetti per archi e il quartetto con pianoforte eseguiti dal Mozart Piano Quartet e altri artisti per la CPO e i due dischi della Divox, il primo con le tre Sonate per violino, con Rainer Schmidt al violino e Saiko Sasaki al pianoforte, il secondo contenente la Sonata per violoncello e pianoforte, con Peter Hörr e ancora Saiko Sasaki) per rendersi conto che Jenner è stato un buon musicista, un più che onesto artigiano dei suoni, capace di assimilare la grande lezione brahmsiana, ma senza poterla superare, il che gli preclude il raggiungimento dello status di genio. La storia della musica, d’altra parte, lo insegna: nel bosco in cui primeggiano le sequoie, capaci di raggiungere altezze e dimensioni imponenti, il sottobosco è destinato sempre a rimanere tale; e se Brahms è una sequoia come poche ce ne furono, Jenner va ad infittire le piante del sottobosco, costrette a vivere perennemente all’ombra degli alberi più maestosi.
Ma questo non significa che la registrazione di cui stiamo parlando non abbia un suo valore e una sua importanza; la sua validità, semmai, risiede in due aspetti: il primo è di ordine storico, vale a dire rappresenta un’interessante testimonianza di che cosa sia stato il fenomeno dell’epigonismo brahmsiano e, parallelamente, un valido tassello che va ad incastrarsi in quell’immenso arcipelago che porta il nome di tardoromanticismo; il secondo è dato dalla lettura fatta dai tre interpreti in questione, in quanto Paolo Beltramini, Zora Slokar e Roberto Arosio hanno saputo “vitaminizzare” adeguatamente le due partiture in oggetto. Questo significa che hanno saputo restituire una freschezza, una genuinità di queste pagine cameristiche, mettendo in luce gli aspetti positivi, così come i difetti, raffigurando le atmosfere generali, quelle appartenenti al côté tardoromantico, fatto di nostalgie, contraddizioni, rimpianti e tentativi rimasti tali di possibili innovazioni stilistiche (nel caso specifico, Jenner, oltre a non andare oltre Brahms, non riesce a fare quanto invece riuscirono a fare il giovane Strauss in campo sinfonico e soprattutto Reger in quello cameristico). Quindi, il bicchiere mezzo colmo è dato dall’espressività, da quelle tensioni interne che si possono cogliere in queste due opere e che i tre artisti sono riusciti sicuramente a restituire grazie non solo agli strumenti del loro bagaglio tecnico, ma soprattutto anche alla capacità di penetrare la materia musicale, fornendo una “fotografia” precisa, accurata, tridimensionale, quasi olografica della delicata e fragile fase di passaggio tra l’Ottocento e i primissimi anni del secolo successivo.
Anche la presa del suono effettuata da Simone Sciumbata è di ottimo livello; la dinamica è corposa, energica, adeguatamente veloce per restituire le sfumature timbriche dei tre strumenti, così come il palcoscenico sonoro ricostruisce fedelmente l’immagine dei tre artisti al centro dei diffusori, con una piacevole ampiezza e altezza del suono. L’equilibrio tonale non mostra sbavature, con i registri degli strumenti che non si accavallano e il dettaglio è più che sufficientemente materico e ricco di scontorno.
Andrea Bedetti
Gustav Jenner – Sonata in G Major for clarinet and piano-Trio for clarinet, horn & piano in E-Flat Major
Paolo Beltramini (clarinetto) - Zora Slokar (corno) - Roberto Arosio (pianoforte)
CD Aulicus Classics ALC0033
Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4/5