Franco Donatoni sul divano occidentale-orientale
Alla fine dell’ascolto di questa nuova incisione della Da Vinci Classics, intitolata Homage to Franco, in cui dieci compositori contemporanei, cinque italiani e altrettanti giapponesi, hanno voluto dedicare altrettanti brani per pianoforte solo, interpretati dalla pianista nipponica Kumi Uchimoto, al compianto Franco Donatoni, che ci ha lasciati il 17 agosto 2000, mi è piaciuto immaginarlo (e confido che lo stesso avrebbe potuto valere anche al sommo musicista, didatta, scrittore e saggista veronese) accomodato su un ideale divano occidentale-orientale come un novello Hafez, il grande mistico sufi al quale Johann Wolfgang von Goethe dedicò tra il 1814 e il 1818 quel meraviglioso florilegio poetico che è il West-östlicher Divan, sintesi di un mirabile incontro tra la visione artistica e culturale occidentale con quella orientale.
In questo progetto discografico, voluto dal compositore Gian Paolo Luppi, allievo dello stesso Donatoni, altri ex-allievi del maestro veronese si sono uniti e hanno voluto ricordarlo non con dei versi, ma con uno scorcio di suoni concretizzatisi in dieci brani che se da una parte vogliono rappresentare una debita testimonianza, un omaggio per l’appunto alla memoria di Franco Donatoni, dall’altra però intendono simboleggiare una diretta conseguenza, una sorta di commovente prosecuzione di quel sentiero che il musicista veneto ha saputo tracciare nel corso di un’attività compositiva e speculativa durata quasi cinque decenni, vale a dire dal 1952, quando il suo Concertino per archi, ottoni e timpani solisti trionfò al concorso di composizione di Radio Lussemburgo, fino all’anno della sua morte. Le ragioni di questo connubio tra l’Occidente e l’Oriente in Donatoni sono assai semplici, visto che oltre a insegnare in Italia, formando una legione di valenti e appassionati musicisti e compositori, lo fece anche in Giappone, invitato per anni a tenere dei corsi all’Università di Tokyo, dove altrettanti, futuri musicisti nipponici furono illuminati dalle lezioni e dalle spiegazioni che il nostro tenne non solo sulla musica, ma partendo dalla musica per enucleare una visione squisitamente interdisciplinare, il cui collante era dato proprio dalla scienza dei suoni.
Così, se questo progetto, oltre allo stesso Luppi, vede colleghi italiani quali Fiorenza Gilioli, Andreina Costantini, Fabrizio De Rossi Re e Sonia Bo, il versante orientale vanta autori come Rica Narimoto, Tomoyuki Hisatome, Takashi Tokunaga, Hiroyuki Yamamoto e Akira Kobayashi, tutti coinvolti nell’offrire un brano pianistico che sintetizzasse non solo la lezione ricevuta, ma soprattutto come tale lezione fosse in loro attecchita partendo dal seme fino a formare un intero albero con fiori, foglie e frutti. E i frutti che Donatoni ha saputo elargire a livello di insegnamento rappresentano una sorta di dialoghi platoniani, in quanto il suo discorrere, magari a tavola, come dei veri e propri simposi, era improntato a un logos a tutto tondo, in cui la musica, con le sue leggi, le sue regole, le sue strutture, veniva puntualmente immersa in una dimensione altamente interdisciplinare, senza dimenticare come la visione artistica ed estetica del musicista veronese sia stata anche una testimonianza di come l’arte possa scendere a compromessi con la presenza del disagio causato dalla malattia, che fosse instillata nella psiche, così come nel soma.
Questo perché Donatoni, per utilizzare una felice espressione che appartiene a un altro autore che fu costretto a scendere a patti con la malattia, ossia Giuseppe Berto, cercò sempre di convivere a livello junghiano con il “male oscuro” dato da una depressione sorta fin dall’età giovanile e che non lo abbandonò mai, dando sostanza, immanenza, respiro a una parte considerevole del suo lascito compositivo e che lo stesso musicista fece trasparire dalla sua lezione, dal suo magistero, poiché il male, se indirizzato, se convogliato, se stimolato, può divenire un potente mezzo di comunicazione, di irradiazione creatrice. E in ciò, pochi, pochissimi sono stati altrettanto capaci come lo fu Donatoni.
E se il musicista veronese ha saputo, attraverso il “male oscuro”, anche insegnare, questo è perché la sua didattica è sempre stata improntata alla dote, alla qualità di “saper-guardare-le-cose”, poiché non si può insegnare, così come non si può apprendere, se non si è capaci di guardare. E se c’è un denominatore comune che avviluppa i brani che fanno parte di questo omaggio, è proprio quello di saper guardare per poi rappresentare, conchiudere in una forma che è essa stessa comunicazione; il saper guardare come sguardo in grado di assimilare e proiettare, soggetto che rende l’oggetto. E in ciò, il brano d’apertura, i quattro Ritratti d’Oriente di Gian Paolo Luppi, è quantomeno emblematico per ciò che riguarda questo sguardo sdoppiante come soggetto/oggetto, in quanto con questi pezzi, in cui l’autore raf-figura altrettanti colleghi giapponesi, loro stessi presenti come autori in questo CD, vale a dire Akira Kobayashi, Rica Narimoto, Tomoyuki Hisatome e Hiroyuki Yamamoto, il suono pianistico fa sì che l’elemento di impressione si trasformi in proiezione, mostrando come il musicista emiliano apprezzi il loro operato attraverso una concatenazione di immagini, ricordi, considerazioni, trasmutando lo strumento a tastiera in una sorta di “macchina sono/fotografica”.
A sua volta, il pezzo di Rica Narimoto, Illuminated Windows II, prende spunto proprio dall’apporto della macchina fotografica da lei utilizzata per immortalare le finestre illuminate o meno degli hotel che poteva vedere dalla sua camera. Da qui, un gioco di acceso/spento, che diviene parallelamente qualcosa di aperto/chiuso, dando vita a un’infinita serie di opposti simbolici, che sono resi non nella loro rappresentazione fattiva, formale, ma attraverso la loro interiorizzazione, di come possono essere resi immanentemente grazie al processo di uno sguardo perpetuato dallo scatto fotografico.
Una partenza dall’Europa di Tomoyuki Hisatome è un omaggio nei confronti di Donatoni che si concretizza, partendo dagli interessi etnomusicologici di questo musicista nipponico, in due precisi segmenti che dividono il brano: la prima metà si identifica nella polifonia africana dei Pigmei, mentre la seconda metà, impiegando il pianoforte come uno strumento a percussione (Béla Bartók è dietro l’angolo), produce una linea di basso distorto, concludendo il tutto con una melodia di stampo induista (e la cosa sarebbe immensamente piaciuta ad Alain Daniélou), ossia “Vande Guru Deva”, degno segno di gratitudine verso il maestro veronese fatto davanti a quell’ideale divano occidentale-orientale.
Lo sguardo come processo di continua mutazione, di perenne cambiamento, anche a livello cellulare: è questo il messaggio che Takashi Tokunaga affida con il suo Autopoietic Motion, in cui fornisce un approccio sonoro al concetto biologico dell’autopoiesi, ossia la capacità di un sistema complesso di mantenere la propria unità e la propria organizzazione attraverso le reciproche interazioni dei suoi componenti. Un’interazione che il musicista nipponico applica mediante una concatenazione armonica che lega i vari segmenti timbrici che compongono questo brano, come un organismo capace di autogenerarsi grazie a una “metabolizzazione timbrica”. Invece, Hiroyuki Yamamoto nel suo brano Canto senza Parole, pone lo sguardo sul rapporto trascrizione/traduzione, adattando per pianoforte un suo pezzo per coro femminile Á la recherche du texte perdu IV; qui, l’assonanza proustiana, del ricordo come costruzione, si lega al concetto della trasmutazione sonora mediante l’uso di diversi strumenti, dalla voce alla tastiera del pianoforte, chiedendosi quanto rimanga della prima nella seconda e come la seconda possa “tradurre” la semantica artistica della prima. La materia sonora così viene sottoposta a un processo di s-composizione/ri-composizione dal sapore mondrianiano, in cui l’effetto dato precedentemente dal canto-(parola) viene ora reso dal canto-(suono), con lo sguardo/ricordo che si presenta plasmato in una dimensione in cui l’origine, pur restando tale, assurge a un derivato autonomo, autorigenerante, indicatore di nuovi sentieri d’approccio e d’ascolto.
Una delle tematiche care a Donatoni e al suo insegnamento, vale a dire la presenza disarmante dell’assenza, parallelamente alla lezione heideggeriana, è il punto di raccordo e di enunciazione del brano Once Again di Fiorenza Gilioli, il cui titolo è mutuato da un passaggio della canzone Stardust di Nat King Cole, “And I am once again with you”, quell’“essere ancora con te” tributato al suo maestro. Partendo dal ritornello di questa canzone, in cui appare un arpeggio di settima minore composto dalle note incluse nel nome di Franco Donatoni, la musicista emiliana prende in considerazione le note re, fa, la, do che invece non appaiono, a simbolo stesso dell’assenza “inattuale” dell’artista veronese, facendole alla fine affiorare alla conclusione del brano, forma suprema di un dis-occultamento che rimanda al concetto di ἀλήθεια, sul quale si fonda buona parte del sapere filosofico dell’antica Grecia.
Lo sguardo musicale è in fondo quello adottato dai pittori, specialmente quelli impressionisti, la cui osservazione è la primigenia forma della sostanza artistica. Su tale base si pone Tides di Andreina Costantini, dove la materia sonora enunciata dal pianoforte sente il desiderio di rappresentare l’acqua (Debussy, in tal senso, non ha forse insegnato nulla?) sotto forma di onde, partendo dalle sue increspature fino alla loro sostanza più impetuosa. Al contrario, Akira Kobayashi, soggiogato dalla Toccata, pone il suo sguardo sulla fuggevolezza data dall’esecuzione virtuosistica che tale genere impone, di un’esposizione di bravura, di sagacia tecnica (una techné che rimanda ancora alla lezione di Donatoni) capace di “illudere” (da qui il titolo Illusion del suo brano) colui che lo ascolta. Così, la ricchezza timbrica, logica (e non potrebbe essere altrimenti) del pezzo rappresenta la ricostituzione stessa di un’illusione che, ancora una volta, è presenza/assenza della materia medesima.
Ma è indubbio che in un omaggio i ricordi prendano inevitabilmente il sopravvento, come ci fa capire Fabrizio De Rossi Re, in cui la madeleine della situazione viene fornita da Sette refrains (titolo del suo pezzo) di altrettante canzoni che il musicista romano ebbe modo di canticchiare con Donatoni una notte, per le strade di Bologna, alla fine di una cena. Che cosa c’è di più evocativo di un ritornello, di un segmento di una canzone, magari anche banale, per sintetizzare e impregnare il ricordo di un tempo? Ed è ciò che fa De Rossi Re, giungendo al punto di spingere l’interprete pianistico a canticchiare egli stesso, eco di un’eco, ricordo del ricordo, specchio di uno specchio.
L’ultimo omaggio a Donatoni è di una delle più interessanti compositrici italiane attuali, Sonia Bo, il cui brano D’Onde è uno sguardo che si ricollega all’omonimo romanzo di Virginia Woolf, Waves, anche se in questo caso la ricerca sonora, come afferma la stessa musicista lecchese, non segue il costrutto narrativo, ma ne trae un autonomo spunto per dare forma a una pletora di colori, i quali vengono plasmati nello scorrere di un tempo. Tutto ciò viene ottenuto con un variare costante della volumetria timbrica data dalla tastiera, che va a riempire lo spazio circostante, occupando porzioni temporali in continua mutazione.
L’interpretazione della pianista giapponese Kumi Uchimoto, che si è costruita nel tempo una fama nel repertorio della musica contemporanea, è a dir poco camaleontica; la sua capacità di rendere questi brani, alcuni dei quali sono delle vere e proprie asperità in ambito tecnico ed espressivo, è tale da identificarsi totalmente in essi. Di fronte a un repertorio così variegato, l’esecutore deve entrare in un’assoluta empatia/simpatia con l’idea del compositore, poiché qui l’omaggio è fondamentalmente riproposizione di un ricordo, di uno sguardo altamente soggettivo che non dev’essere freddamente “oggettivizzato”, ma perpetuato nella sua intimità stilistica, svelandone le sue struggenti rimembranze, la sua materializzazione emotiva. E in ciò, Kumi Uchimoto dimostra di essere un ideale transfert e non solo a livello interpretativo.
Daniele Ceciliot si è occupato della presa del suono, permettendo, grazie a una buona dinamica/microdinamica, di rendere al meglio la variegata timbrica del pianoforte; il palcoscenico sonoro ricostruisce adeguatamente lo strumento a una discreta profondità al centro dei diffusori, mentre sia l’equilibrio tonale, sia il dettaglio sono scevri da difetti, in modo da rendere più coinvolgente la fase di ascolto.
Andrea Bedetti
AA.VV. – Homage to Franco - Japanese & Italian Contemporary Piano Works Inspired by Franco Donatoni
Kumi Uchimoto (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00351