Emmanuel Pahud, l’artista che dà del tu al flauto
L’artista francese, oltre a essere primo flauto dei Berliner Philharmoniker, viene considerato giustamente uno dei più grandi flautisti al mondo. In questa intervista, in esclusiva per “MusicVoice” ecco che cosa ci ha detto sulla sua carriera di solista e di membro della più famosa orchestra del mondo
Nel 1992, l’allora direttore dei Berliner Philharmoniker Claudio Abbado volle come primo flauto della leggendaria orchestra tedesca un ventiduenne svizzero, fresco vincitore del prestigioso Concorso Internazionale di Ginevra, Emmanuel Pahud. Da allora, oltre a essere uno dei punti di forza dei Berliner, il musicista ginevrino è diventato uno dei più famosi e richiesti flautisti del mondo, erede della grande tradizione francofona. Noi lo abbiamo raggiunto per intervistarlo. Ecco che cosa ci ha detto, in esclusiva per i lettori di “MusicVoice”.
Maestro Pahud, quali sono i suoi ricordi personali che riguardano la figura di Claudio Abbado?
«Quando Abbado mi volle come primo flauto dei Berliner, in quel periodo l’orchestra stava portando avanti un cambiamento generazionale, visto che almeno la metà dei suoi membri appartenevano alla generazione formatasi a metà degli anni Quaranta, durante la guerra. E Abbado fu indubbiamente la figura più adatta per portare avanti questo compito, vista la sua straordinaria capacità di lavorare con i giovani. Non per nulla proveniva dalle esperienze fatte con la Chamber Orchestra of Europe e con la Gustav Mahler Jugendorchester, con le quali aveva mostrato il suo talento nel motivare i giovani musicisti a dare il meglio di sé. E lo stesso fece con me e con altri della mia generazione che entrarono a far parte dell’orchestra berlinese. In un certo senso, questo spirito, questo entusiasmo, questo fuoco che trasmetteva l’ho ritrovato solo in un altro grande, grandissimo direttore, Carlos Kleiber, anche se quest’ultimo, a differenza di Abbado, aveva un repertorio limitatissimo, con poche sinfonie e pochissime opere liriche, che portava a livello di una perfezione estrema».
Lei sa che i figli di Claudio Abbado hanno deciso di donare la collezione di partiture, più di mille, appartenute al direttore milanese, da lui fittamente annotate, proprio ai Berliner Philharmoniker, quale atto di omaggio all’orchestra e alla capitale tedesca?
«Sapevo che c’era qualcosa nell’aria, anche se nulla di preciso, ma questa decisione non mi stupisce, visto che Abbado ha sempre avuto un rapporto privilegiato con Berlino e i Berliner. D’altronde, pur essendo italiano, Abbado ha sempre favorito un repertorio basato sulla musica germanica, per il fatto che a differenza di altri colleghi connazionali, ha amato profondamente la musica tedesca e quella austriaca e a Berlino si sentiva come a casa. Io ho avuto modo, all’epoca, di conoscere la sua famiglia, i suoi figli e quindi credo che questa scelta da parte loro sia davvero un tributo per quello che la capitale tedesca, con la sua capacità di esprimere e donare arte e cultura, ha saputo rappresentare per il grande direttore italiano».
Che cosa significa far parte dei Berliner Philharmoniker?
«Significa fondamentalmente appartenere a una grande famiglia sinfonica, fatta di colleghi, ma soprattutto di amici, con i quali suonare anche in ambito cameristico. Significa cercare di migliorarsi continuamente per poter offrire la musica migliore, suonata con il cuore e non solo con la tecnica. Vuol dire far parte di un patrimonio, di una tradizione che non viene mai meno».
A livello solistico, per ciò che riguarda il suo strumento, quali sono i tre compositori dai quali non si può prescindere?
«Direi che sono Johann Sebastian Bach, capace di comporre sonate meravigliose sia per flauto solo, sia accompagnate dal cembalo, poi Wolfgang Amadeus Mozart, che fu in grado di “sdoganare” il flauto da certe rigidità tecniche e timbriche, strumento da lui molto amato, al punto che dopo il pianoforte e il violino, è quello per il quale ha scritto il maggior numero di composizioni, senza contare che seppe ritagliargli un ruolo importantissimo anche nelle sue opere liriche, e Claude Debussy, che ha saputo portare il flauto a un’espressività tale da saper esprimere anche l’inesprimibile, l’intangibile».
Quale strumento utilizza Maestro Pahud?
«Negli ultimi tempi sto suonando uno splendido flauto in oro a quattordici carati di un’azienda americana di Boston, la Haynes, la quale ha origini e ascendenze francesi».
E i suoi prossimi progetti discografici?
«Dopo aver dedicato il mio ultimo disco al grande repertorio concertistico francese, sempre con Giovanni Antonini alla testa della Kammerorchester di Basilea, ho registrato alcuni concerti di Carl Philipp Emanuel Bach, che trovo semplicemente splendidi, disco che è appena uscito per l’etichetta Warner Classics. Con Antonini mi trovo a meraviglia in quanto mi riconosco nella sua energia, nel suo ritmo musicale».
Andrea Bedetti