Du côté de chez Marco Filiberti
Prima del debutto al Teatro degli Avvaloranti, a Città della Pieve, dei Cahiers d’Écriture, i due studi preparatori de Alla ricerca del tempo perduto di Proust nella versione teatrale del drammaturgo e regista milanese, lo abbiamo intervistato per farci spiegare com’è nato questo progetto che verrà spalmato in cinque anni, con ulteriori rappresentazioni che lo addenseranno mediante l’apporto della recitazione, della danza e della musica
Maestro Filiberti, quando e dove nasce la sua passione per Proust?
Beh, certamente ero un ragazzino che andava a cercare al di fuori del piano della realtà i suoi interessi, le sue fascinazioni, le sue mitologie e le sue verità, anche se ancora non sapevo che cosa fossero le mie verità. Così la letteratura e l’arte erano il condensato di tutto questo empireo. Ecco, posso dire che per me è stato così. Sono stato un lettore vorace e precoce. Sicuramente per ciò che riguarda il surplus proustiano mi ci sono imbattuto casualmente: in casa dello zio, nella sua biblioteca, c’era la Recherche nella vecchia edizione Einaudi, l’unica allora presente nel panorama editoriale italiano, e ricordo che era stata rilegata in marocchino rosso. Così, quando ho visto il titolo All’ombra delle fanciulle in fiore, non ho resistito, poiché mi ha fatto proprio un effetto da “Mille e una notte”… Ecco, è stato proprio un incantamento da “Mille e una notte” e, a quel punto, dopo aver ultimato la lettura del secondo volume della Recherche, ho affrontato l’opera dal primo titolo, ossia Dalla parte di Swann, e da lì si è rinforzato in me il fascino di una cosa che non partiva con il titolo complessivo, cioè Alla ricerca del tempo perduto, quindi con un tipo di approccio cognitivo, bensì sensitivo, attuando una sorta di magico smarrimento, che per me è la cosa più importante.
Trovo una certa continuità/affinità tra il suo Parsifal cinematografico e il nuovo progetto su Proust. Ossia restituire attraverso l’esplorare…
Corrisponde assolutamente, corrisponde sia nell’ambito dell’“opera-mondo” e della ricostruzione, in qualche modo di un sistema, sia in un attraversamento totale.
Ancora Wagner mediante la dimensione del tempo, con il concetto del Leitmotiv, ossia la componente musicale, e una suddivisione dell’opera che rimanda alla Tetralogia del Ring, vale a dire che trovo una similitudine tra il début della versione teatrale proustiana, data appunto dai Cahiers, e il Vorspiel del capolavoro wagneriano…
Certo, assolutamente, poiché questi Cahiers hanno preso una loro configurazione in fieri. Questo perché mi è stato subito chiaro che non potevo affrontare subito il primo blocco, anche per ragioni, diciamo la verità, produttive. Poi anche per un altro motivo, ossia seguendo un percorso ad parnassum da far fare ai giovani artisti. E anche, se devo essere sincero, per entrarci con un po’ di cautela, di rispetto nei confronti del mondo proustiano. Allora, a quel punto, ho isolato quattro-cinque archetipi e poi alla fine, in questa prima fase, ne sono rimasti due, che possono essere definiti i bozzetti di un grande ciclo di affreschi. Ecco, come se di una grande volta affrescata questi fossero i cartoni, i cartoni preparatori di un affresco di Michelangelo.
Un’altra domanda. Partendo dal presupposto che il trascrivere, il trasporre significa soventemente “forzare”, nel suo progetto teatrale dov’è intervenuto per filtrare, smussare le maggiori forzature che tale procedimento comporta?
Nel forzare c’è sempre un’idea, in qualche modo, di dualità. E quindi di un antagonismo tra due cifre, tra due dimensioni. Mentre io l’ho vissuta tutta dall’interno, quindi con un’osmosi così profonda, con l’opera, che per ora, quantomeno rimanendo alla scrittura dei due Cahiers, l’ho sentita molto fisiologica e non mi sono posto, quantomeno sul piano pratico è ovvio che sì, ma su un piano ontologico, diciamo di approccio al lavoro, nei termini di che cosa metto e che cosa non metto.
Un’ultima domanda. Spostiamo ora il tiro sul lato filosofico: non ho sentito proferire finora da parte sua il nome di Henri Bergson e, seconda cosa, il concetto di tempo da lei utilizzato e plasmato teatralmente ha la valenza della “cura”, della Fürsorge di heideggeriana memoria?
Allora, naturalmente il tempo in questo caso è proprio protagonista della sintassi, che lei vedrà nella proposizione teatrale di questi due Cahiers, cioè non degli enunciati filosofici sul tempo, ma proprio l’aspetto, che spero possa essere recepito, sinestetico del lavoro e il mélange, diciamo, tra ogni dimensione spaziale e temporale, che porta a tradurre in termini fisici e drammaturgici anche le teorie sul tempo che sono presenti nella speculazione bergsoniana.
È tutto chiaro. Quindi, in questo caso, il tempo non ha una valenza di Fürsorge…
No, il tempo diacronico, no, nel modo più assoluto. Semmai, il tempo sincronico è il tempo della rivelazione, è il tempo al quale accede, come avviene nei testi sacri, il sapiente.
Andrea Bedetti