Dal canto al puro suono: le Sonate per violino di Brahms
Non si può essere in disaccordo con quanto afferma Chiara Bertoglio nelle sue note di accompagnamento ad una recentissima registrazione discografica pubblicata dalla Da Vinci Classics, che vede la violinista russa Yulia Berinskaya e la pianista toscana Alessandra Ammara eseguire le tre Sonate per violino e pianoforte di Johannes Brahms. Ossia che questi capolavori sono stati pensati, soprattutto in chiave violinistica, come se lo strumento ad arco avesse dovuto sostituire o, meglio, esaltare metaforicamente con la sua presenza la voce umana, della quale mantiene un afflato tale da accentuarne la dimensione emotiva del suono prodotto.
A ben guardare, però, la costante di una voce umana idealizzata dal contesto puramente strumentale nel genio di Amburgo non può essere ravvisata soltanto in queste opere cameristiche, ma anche in altri aspetti creativi della sua produzione musicale; si pensi, per esempio, allo struggente dipanarsi del misterico primo tempo della Quarta sinfonia, alla dilaniante nostalgia che si sprigiona nell’Andante, ma moderato del Primo sestetto per archi o, ancora, la purissima linea enunciata dolcemente dallo strumento solista nell’Adagio del Violinkonzert. Chi conosce questi brani, sostituisca idealmente la voce degli strumenti musicali con quella di una o più voci umane e capirà che cosa intendo dire. Un canto che va a toccare numerosi anfratti, che va a colmare i vuoti lasciati dal pensiero e dal suono, quando non sono in grado di esprimere, se non attraverso il messaggio poetico, proprio come quando lo stesso Brahms decise di musicare quel potente e commovente messaggio che Hölderlin lanciò dalla Torre di Tubinga, quel Schicksalslied in cui l’espressione corale si sposa e si identifica con il destino, come se solo la voce umana potesse sfidare l’allucinante sfida gettata in pasto dal tempo all’uomo.
Così, si può ben affermare che la grandezza dell’opera musicale brahmsiana risiede nel cercare di essere aderente alla forza del destino e nel volere assemblare, mediante le maglie espressive del suono/voce, il desiderio della volontà umana di resistere all’azione disgregante del tempo grazie al balsamo del ricordo, sebbene la sua azione venga talvolta edulcorata dal preservativo della nostalgia, il quale dev’essere intrapreso e vissuto non rispetto alla passività del passato a cui si rivolge, ma per essere impiegato nei confronti del presente, per renderlo più sopportabile (i versi di colui che ormai si firmava Scardanelli, in tal senso, parlano chiaro: E gli occhi beati/guardano in tranquilla/eterna chiarezza).
Da parte loro, anche le tre Sonate violinistiche del genio amburghese hanno tale compito da assolvere: aiutare a sopportare meglio coloro che le ascoltano e, soprattutto, che sanno comprenderle. Premetto che, dato il minutaggio complessivo della registrazione, si sarebbe potuto, proprio per rimarcare la fase evolutiva nell’elaborazione creativa di questo genere cameristico da parte di Brahms, aggiungere anche lo Scherzo che il sommo compositore compose in gioventù per la famosa e curiosa Sonata F.A.E., scritta in onore del grande violinista Joseph Joachim, e che vide la partecipazione nella stesura anche di Robert Schumann, il quale elaborò l’Intermezzo e il Finale, mentre un altro musicista, Albert Dietrich, scrisse l’Allegro iniziale. Questo perché quando Brahms compose il tempo in oggetto, nel 1853, aveva solo vent’anni, ma al di là della comprensibile acerba esuberanza che contraddistingue lo Scherzo, già si avverte la potente ed esaltante maestria compositiva; se il tema principale dello Scherzo è imbastito su una libera fantasia, desunta argutamente sul medesimo soggetto a quattro note ribattute del terzo tempo della Quinta sinfonia di Beethoven, il cui respiro ritmico viene evocato dal registro medio-grave del pianoforte, dopo il ritornello del primo segmento, il giovane autore inserisce una melodia (una caratteristica, questa, che verrà ripresa in futuro anche in altri generi della sua produzione) che richiama una brillante danza popolare in 6/8, proposta attraverso due differenti tonalità maggiori. Il Trio, esposto in 2/4, si suddivide in due parti: la prima che comprende una melodia squisitamente espressiva e una seconda più ondivaga, che porta fino alla ripresa dello Scherzo da capo. Qui, in questo brano, ovviamente non c’è già tutta la futura portata brahmsiana nel genere della sonata violinistica, ma c’è già molto, a cominciare dal senso delle proporzioni volumetriche, dal rapporto, delicatissimo, tra strumento ad arco e pianoforte, il desiderio di sceverare i temi e i loro sviluppi (alla faccia dei detrattori dell’amburghese, che sostenevano che Brahms non fosse capace di andare oltre alla facciata di un tema… ). Inoltre, attraverso il pulsare ritmico, vi è quella ricerca di Lied strumentale, di un canto da idealizzare, instillato dall’armonia e fatto sbocciare dalla melodia. Cosa che avverrà, puntualmente, di volta in volta, con le tre Sonate, ossia, la prima in sol maggiore (composta tra il 1878 e il 1879), la seconda in la maggiore (1886) e la terza in re minore (1887-88), quindi tutte appartenenti alla piena maturità espressiva del loro autore, il quale, come ben sappiamo, decideva di affrontare compositivamente un determinato genere musicale solo quando si sentiva realmente pronto e dotato di tutti gli strumenti tecnici e conoscitivi al riguardo.
Il canto o, quantomeno, un parallelismo con il genere liederistico è presente prepotentemente già nella Sonata in sol maggiore, visto che nella stesura della partitura Brahms inserì citazioni di due Lieder da lui composti cinque anni prima, sulla base di versi scritti da Klaus Groth incentrati sulla pioggia, più precisamente i numeri 3 & 4 dell’op. 59. Reminiscenze poetiche, forgiate nel suono musicale, che fanno dunque da trampolino di lancio per l’elaborazione della Prima sonata, con il battere sommesso della pioggia che si trasforma in un misterioso apparato ritmico sul quale forgiare temi e sviluppi, sull’onda, come ricorda la stessa Chiara Bertoglio, di un preciso, immancabile e doloroso ricordo in Brahms, quello legato alla morte del suo adorato maestro e amico Robert Schumann, che lo spinse, durante la composizione della sonata in questione, ad inviare all’amica Clara Wieck un foglio contenente le prime ventiquattro battute dell’Adagio, evidente similitudine tra la tristezza e la nostalgia che una pioggia serale evoca e la rimembranza della morte di Schumann. Una morte che andrà a toccare ancora pesantemente la famiglia del compositore sassone, visto che da lì a poco, nel volgere di pochi giorni dal ricevimento di questa dedica, anche il figlio di Clara e Robert, Felix, promettentissimo violinista, fu portato via dalla signora con la falce, stroncato a soli venticinque anni, spazzato dalla tubercolosi.
Anche la Seconda sonata in la maggiore non è immune da precisi richiami liederistici, da quella ossessiva ricerca di un canto che dalle corde vocali deve essere scolpito in quelle del violino; qui, c’è ancora lo zampino di Groth, che certo non merita di essere accettato nell’Olimpo della poesia di lingua tedesca (uno dei miracoli dei grandi Lieder musicali è anche quello di saper trasformare la merda in cioccolato, ossia stravolgere la banalità e la bruttezza di versi insulsi in qualcosa di meraviglioso grazie alla misterica semantica del suono). Cosa che avviene puntualmente anche in questa straordinaria pagina cameristica, nella quale vi è posto anche per Hermine Spies, uno dei maggiori contralti dell’Ottocento e grande interprete del repertorio liederistico, oltre ad essere stata amica intima del genio amburghese, dedicataria dei meravigliosi Fünf Lieder, op. 105 (anch’ella attesa al varco da un tragico destino, visto che morì a soli trentasei anni, mentre era incinta, dopo aver abbandonato i salotti musicali e i palcoscenici per convolare a nozze con un giudice).
Se Groth è presente attraverso la reminiscenza di versi confluiti poi in altrettanti Lieder, il contralto tedesco lo è attraverso la voce sulla quale probabilmente Brahms volle costruire il suo suono strumentale, concepito come quintessenza di un’assoluta purezza formale (non bisogna lasciarsi sviare dalla potente immagine melodica, dietro la quale si cela un prodigioso lavoro armonico) ed emotiva.
Infine, la Terza sonata in re minore, sulla quale Brahms lavorò per ben due anni, che non fu capita completamente dai contemporanei, in quanto accusata di essere meno “esplorativa” e più “accattivante”, per colpa, si fa per dire, anche del suo trascinante Finale. Certo, vi è minore presenza di un canto “diretto”, ma questo perché vi è invece una maggiore caratura di canto “articolato”, connaturato tra la pulsione ritmica fornita dal pianoforte e la ricerca di una dimensione interiore, dalla quale scaturisce l’eloquio melodico del violino (si ascolti l’Adagio).
Se ho voluto rimarcare la fondamentale importanza del concetto di Lied, al di là di fondamentali e inattaccabili ragioni storiche e musicologiche, presente nella produzione delle Sonate violinistiche brahmsiane, dipende anche dal tipo di lettura che è stata fatta dalle due interpreti in questione. E, aggiungo subito, una lettura a dir poco ideale rispetto alla materia musicale in oggetto: sia Yulia Berinskaya, sia Alessandra Ammara, infatti, non solo non difettano in tale aspetto, ma ne fanno un presupposto altamente qualitativo e non votato al quantitativo. Un conto è far cantare il proprio strumento (aspetto quantitativo), un altro è saper gestire e valorizzare tale canto (aspetto qualitativo); la scelta che ha accomunato in tal senso le due artiste è stata quella di utilizzare la cantabilità, offerta dalle possibilità presenti nella partitura, senza mai però farne l’elemento precipuo e fine a se stesso. Per Brahms, il fare cantare uno strumento non è un fine, ma un mezzo per poter esaltare un duplice aspetto, la struttura armonica e la resa melodica. Indubbiamente, un qualcosa più facile a dirsi che a farsi, poiché trovare un equilibrio tra queste due necessità, che a volte si vengono quasi a trovare in una situazione antitetica a livello espressivo, è un obiettivo che solo in pochi riescono a ottenere. La violinista russa e la pianista toscana, indubbiamente, appartengono a questo gotha.
Prima di tutto, la capacità, da parte di entrambe, di evidenziare ciò che la linea del canto, così soventemente evocato in queste composizioni, cela se ci si sofferma solo alla sua dimensione quantitativa: così, l’enunciarsi della melodia è sempre accompagnata da una sovrastruttura espressiva che si carica, di volta in volta, di un risvolto che emana drammaticità, ironia, dolcezza, nostalgia, dolore, amarezza, poiché il vero canto è quello che dona sfumature, continui rimandi, argomentazioni che si concatenano le une con le altre. E ciò è particolarmente avvertibile nella musica del genio di Amburgo, la cui struttura a segmenti e, a volte, a cellule, dev’essere perfettamente calibrata alla bisogna, cangiante come gli stati d’animo contrastanti che vengono vissuti da una persona che vive e ricorda contemporaneamente.
Ecco, allora, che giungiamo al cuore della loro interpretazione, in quanto sono state capaci di rappresentare e di offrire un suono, un canto, che fosse allo stesso tempo ideale al vivere e al ricordare, vale a dire permettendo ai loro strumenti di impossessarsi di una sfera dialogica nella quale riversare il presente che si vive e, attraverso di esso, lasciarsi penetrare dalle nostalgie, dalle rimembranze di cui è intessuto l’universo brahmsiano. Solo in questo modo può essere restituito degnamente e loro lo hanno fatto.
C’è poi l’aspetto puramente tecnico, ossia il rapporto esecutivo con i rispettivi strumenti, con la padronanza assoluta dimostrata da Yulia Berinskaya, capace di estrarre dal suo Carlo Bergonzi del 1746 ogni possibilità fisico-sonora, rendendolo atto alla decodificazione emotivo-creativa di Brahms, mentre Alessandra Ammara ha saputo trasformare il pianoforte in una lente d’ingrandimento con la quale mettere in evidenza il sostrato, ora tellurico, ora vellutato, di quelle dimensioni interiori dalle quali il violino ha attinto motivi di incontro e di scontro, di sogni capaci di restare tali, così come quelli andati tristemente in frantumi. E se proprio devo fare un parallelismo con la materia psicoanalitica, alla luce di quanto si è scritto e per rendere più chiaro il messaggio, la loro interpretazione non può certo essere definita di stampo freudiano, bensì junghiano, poiché il suono/canto che hanno saputo ri-creare è frutto di molteplicità interdisciplinari, di concause timbriche, espressive, tecniche che riescono a reggere la pura dimensione esecutiva sia considerate nel loro insieme, sia desunte una ad una. Così facendo, hanno saputo fare qualcosa di assai prezioso: far sì che il canto evocato diventasse specchio di quel concetto di “destino”, che tanto affascinò e inquietò Johannes Brahms fino alla fine dei suoi giorni.
Onde evitare di ripetermi, il che a volte può essere utile, in altre, invece, si corre il rischio di aggiudicarsi il primo premio del concorso Jacques II de Chabannes de La Palice, Gabriele Zanetti ha confezionato il solito lavoro più che eccellente di presa del suono. La dinamica è sia energica, sia oltremodo naturale, soprattutto notando il decadimento, corretto, degli armonici (e questo vale soprattutto per il pianoforte). Ne consegue un’ottima ricostruzione del palcoscenico sonoro, all’interno del quale i due strumenti sono fisicamente credibili, per ciò che riguarda il loro posizionamento, circoscritto a una discreta profondità, senza che ciò penalizzi sia l’altezza, sia l’ampiezza del suono. Anche il delicato parametro dell’equilibrio tonale ne esce vincente, con un preciso e corroborante dispiegamento dei registri del violino e del pianoforte, mai invadenti e prevaricatori l’uno sull’altro. Il dettaglio evidenzia una notevole dose di nero che circonda i due strumenti, aumentando così la loro matericità e la sensazione tattile che ne consegue a livello di ascolto.
Andrea Bedetti
Johannes Brahms – Complete Violin Sonatas
Yulia Berinskaya (violino) - Alessandra Ammara (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00757