Ciro Ferrigno e il presente della tradizione
Se proprio vogliamo spaccare il capello in quattro, non possiamo non esimerci dall’affermare che il lato oscuro della modernità tenda a eliminare ogni aspetto che la circonda in nome di un presente che è già futuro, al punto di rinnegare i cadaveri del passato ancora caldi. E se vogliamo proiettare questa immagine al mondo della musica del Novecento, come possiamo dimenticare il famoso articolo che Pierre Boulez scrisse nel 1952 per la rivista The Score, intitolato provocatoriamente Schönberg è morto? In quello scritto, l’arrembante compositore francese, allora ventisettenne, si propose di seppellire culturalmente e artisticamente colui che aveva chiuso la porta di un certo passato musicale per aprire quella dalla quale entrò un nuovo linguaggio deputato a rivoluzionare, nel proseguo del tempo, tutto l’edificio dell’arte sonora. E la data di pubblicazione di quell’articolo ci deve far riflettere, in quanto il padre della dodecafonia era morto appena un anno prima a Los Angeles. Così, dopo qualche mese, con il cadavere fisico metaforicamente ancora caldo, Boulez volle sancire la morte definitiva del compositore viennese, giustiziando la sua musica, a lui considerata ormai obsoleta, retriva, contraddittoria e contraria rispetto alle nuove urgenze promosse, stimolate e incarnate dall’estetica weberniana.
La mitologia prima e la storia poi hanno insegnato che i figli uccidono spesso i padri e la musica, in tal senso, non fa eccezioni: la modernità, almeno una sua consistente fetta, quindi, non si perita di eliminare la tradizione, considerata un male da estirpare, da rinnegare, da annullare, anche se poi, per alcuni, vige ancora il principio secondo il quale essere moderni non significa per forza vestire i panni dei parricidi. Un esempio di ciò viene proprio da una recentissima produzione discografica della Aulicus Classics, che presenta alcuni brani orchestrali del compositore napoletano contemporaneo Ciro Ferrigno racchiusi nel CD dal titolo Artifici, con la partecipazione dell’Orchestra Giovanile Collegium Philarmonicum, diretta da Gennaro Cappabianca, del soprano Chiara Polese e della saxofonista Chiara Maria Beatrice Cannavale. Artificio, ossia ciò che viene costruito o creato per ottenere effetti estranei o non consentiti dall’ordine naturale o dall’aspetto immediato delle cose, che il compositore campano ha voluto utilizzare come ponte tra presente e tradizione, alla stregua di un rannodamento tra lezione e sperimentazione, con quest’ultima, sia ben chiaro, condotta senza mai abbandonare il solco del linguaggio tonale.
Un principio unitario, questo, che Ciro Ferrigno organizza sonoramente, come appunto viene offerto dalla prima composizione presente nella playlist, dal titolo Quattro cornici sinfoniche per orchestra d’archi, anche mediante delle immagini e soluzioni squisitamente metamusicali, che vengono armonicamente e melodicamente incorporate nella struttura compositiva. Questa composizione, suddivisa in quattro segmenti, Monuments, Decumani, Lontano e Donn’Anna, prende quindi a prestito immagini, sensazioni, connotazioni antropologiche, aspetti architettonici della realtà storica napoletana, che qui assurge il ruolo di insostituibile punto di riferimento della cultura musicale del vecchio continente, e li pianifica in un “artificio” che non intende, però, sostituirsi al naturale, quanto perpetuarlo, estenderlo, ampliarlo in una dimensione nella quale la tradizione diviene atto in perenne mutamento, annullando di fatto il concetto di tradimento, di un figlio che uccide il padre che lo ha generato.
La tradizione, allo stesso tempo, non risiede solo nel particolare, come avviene nel caso di una realtà antropologico/culturale locale, nel caso specifico quella partenopea, che viene presa a modello “ideale”, ma può investire e chiamare in causa un connotato maggiormente generalizzato, tale da coinvolgere un afflato di portata tale all’interno del quale risiede un principio unitario di decodificazione artistica. E ciò può essere portato avanti anche attraverso l’artificio della trascrizione, di un allargamento o restringimento di ciò che il nucleo originale e originario aveva creato ex novo. Ecco, allora, che Ciro Ferrigno prende a modello degli esempi di tradizione musicale del passato e li presenta, attraverso l’arte trascrittiva, sotto una nuova prospettiva, una diversa angolazione, il che significa non solo che mediante una differente visione l’antico continua ad essere sempre nuovo, ma che anche la medesima tipologia di ascolto può essere perennemente attualizzata e vivificata proprio grazie alla trasformazione di ciò-che-già-c’era.
Così, il compositore campano prende “a modello” di tale progetto trasformativo tre Chansons per voce e pianoforte di Gabriel Fauré, su testi di Victor Hugo e Sully Prudhomme, e infonde loro un diversa prospettiva propulsiva mediante il coinvolgimento orchestrale. Come a dire, il testimone che passa, felicemente e orgogliosamente, dalle mani del padre a quelle del figlio, con il secondo che, avvalendosi di una differente sensibilità e aderenza rispetto a ciò che lo circonda, non fa altro che attualizzare/approfondire quanto era stato fatto all’origine. E qui, il “figlio” Ferrigno prende il testimone dal “padre” in questione, Fauré, e con mano sicura installa un megafono con il quale dilatare la materia sonora del pianoforte, senza per questo che la tradizione divenga sperimentazione fine a se stessa, ma fecondo binario che si allunga in una nuova tratta per permettere la continuazione del viaggio creativo.
Questo nuovo viaggio creativo approda poi a un’altra stazione, quella intitolata a Claude Debussy, prendendo l’ottavo Prélude per pianoforte dal primo libro, la celeberrima La fille aux cheveux de lin, in cui l’intervento sovrastrutturale dato dal compositore campano è all’insegna delle nuove sonorità che un brano simile può offrire sia a livello armonico, sia in quello melodico. Così, oltre agli archi, si pone, a livello di suggellamento timbrico, l’irruzione del sax soprano, la cui tessitura, andando a riempire il serbatoio della melodia, rimanda necessariamente a un’altra pagina del compositore francese, quel Prélude à l’après-midi d’un faune, in cui il suono del flauto assurge allegoricamente al concetto del membro eretto di un dio Pan, simbolo di una lussuria che è anche esplorazione del vivente, di ciò che pulsa, di ciò che brama e ambisce.
Infine, l’ultimo brano, intitolato Melopeas, è un’operazione osmotica che Ferrigno plasma attraverso la trascrizione di due brani, la Pavane di Fauré e il valzer che fa parte della prima Jazz Suite di Šostakovič. Mi piace pensare che il compositore partenopeo, testimone della cultura mediterranea, abbia voluto dare vita a una medaglia sonora le cui due facce sono espressioni della volontà apollinea/Fauré e di quella dionisiaca/Šostakovič; un incontro-scontro tra classicità e modernità che viene trattato liquidamente, con la trascrizione che fa in modo che si attui un continuo processo di intersecamento tra questi due poli opposti, facendo sì che la melodia dell’una possa stemperarsi nella sarcastica nostalgia dell’altro e viceversa. E poi i due “collanti” forniti dai vocalizzi sopranili (e qui il pensiero va ineluttabilmente ai Bachianas Brasileiras di Villa-Lobos) e dalla presenza del sax soprano, che irradiano dall’emittente radiofonica della memoria continui spot immaginifici, votati a ricordare quanto pronunciato dal “mondo di ieri”, una lezione arcaica (a livello semantico, il lemma “melopea” significa anche “arte del contrappunto”) dalla quale mai smettere di attingere, per poter continuare a pro-creare.
Complessivamente valida la prova offerta dal soprano Chiara Polese, anche se a volte ha dovuto fare i conti nel tenere e controllare il registro acuto, ma a suo merito va una chiara lettura delle chansons di Fauré, così come l’intervento del sax soprano di Chiara Maria Beatrice Cannavale. Allo stesso tempo, i componenti dell’Orchestra Giovanile Collegium Philarmonicum hanno saputo dimostrare di essere non solo degli ottimi e promettenti discenti musicali, ma già in grado di esprimere un carattere d’insieme che è più di una semplice promessa, ben diretti da Gennaro Cappabianca, il quale ha saputo infondere e stimolare un fraseggio oltremodo efficace, oltre a cogliere quelle sfumature timbriche e quelle rarefazioni sonore (e questo vale soprattutto per le Chansons di Fauré), così necessarie per il pieno funzionamento interpretativo. Non è quindi un caso che questo progetto discografico gli sia stato dedicato, per rendere merito a un didatta e interprete, preciso punto di riferimento della vita musicale napoletana.
Buono anche il lavoro di presa del suono da parte di Paolo Rescigno, in quanto la dinamica è energica, veloce e sufficientemente naturale, il che agevola la ricostruzione del palcoscenico sonoro, in cui sia l’orchestra, sia il soprano e il sax sono palpabilmente presenti in modo corretto e plausibile. E se l’equilibrio tonale è esente da sbavature nel proporre il registro medio-grave e quello acuto, il dettaglio è corroborato da sufficiente matericità.
Andrea Bedetti
Ciro Ferrigno – Artifici
Orchestra Giovanile Collegium Philarmonicum - Chiara Polese (soprano) - Chiara Maria Beatrice Cannavale (saxofono) - Gennaro Cappabianca (direzione)
CD Aulicus Classics ALC 0126
Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4/5