Béla Bartók, l’ospite “inquietante” del Novecento
La genialità significa pensare in modo diverso, la genialità è il coraggio del distacco, la genialità è intraprendere nuovi sentieri, la genialità è presentare le cose in un altro modo, la genialità vuol dire essere “inquietanti”. E per riassumere tutti questi aspetti, con un nome e con un cognome, genialità è Béla Bartók, capace come pochissimi a condensare l’atroce e disgregante complessità della prima metà del Novecento con la sua opera musicale, la cui falsa e affascinante ambiguità esemplifica magistralmente le tante sfaccettature che rappresentano un mondo dei suoni destinato a confrontarsi con una realtà sempre più insostenibile (una insostenibilità che il sommo compositore magiaro sperimentò sulla propria pelle attraverso un implacabile mix di incomprensione e di miseria).
Ecco, se proprio dobbiamo utilizzare dal mazzo una possibile chiave per aprire la porta ed entrare nella stanza della creatività di Bartók, quella che riesce a far scattare la serratura è proprio la chiave che rappresenta l’insostenibilità esistenziale che trova un ideale sfogo nel linguaggio musicale dell’autore ungherese, la cui mutevolezza si plasma progressivamente in una ricerca che ha pochi eguali nella storia della musica. Da ciò, anche il nostro ascolto si deve conformare su tale ricerca, deve diventare esso stesso una “ricerca di ascolto”, ossia un allineamento d’intenti che non si realizza mai a livello iniziale, poiché se non si è animati dal sacro fuoco della ricerca interiore, si rischia di essere ineluttabilmente espulsi dal mondo dei suoni bartókiano. L’ascolto (e per ascolto intendo comprensione/accettazione della sua musica) deve dunque procedere di pari passo con l’entità della ricerca esistenziale/musicale in Bartók; a cominciare dal fatto che si deve tenere sempre presente un assioma: la creazione in questo compositore è prima di tutto uno strumento per rendere sopportabile l’insostenibilità di ciò che si vive e di ciò di cui si è vittima.
Ricerca di un nuovo linguaggio che non è solo (troppo semplicistico) il tentativo di dare vita a una terza via, come opera di mediazione tra la sfera schönbergiana e quella stravinskijana (una volta assimilata, bisogna cercare di immunizzarsi dalla visione fin troppo sistematica che fa Adorno rispetto alla concezione antitetica rappresentata dal viennese e dal russo), ma si deve partire da un presupposto, quello di svincolarsi, in Bartók, da prospettive che, fin dai primissimi anni del Novecento, gli appaiono fin troppo restrittive e asfissianti. E il recupero del senso classico non si svolge in lui come in un Brahms, attraverso l’attuazione di un-passato-che-non-deve-scomparire, ma nel tentativo di perpetuare sedimenti culturali che sente in sé, ossia il suo appartenere al crogiuolo magiaro, senza filtrarli, senza volgarmente manipolarli, ma restituendoli e, semmai, rivestendoli di una patina linguistica che deve sempre essere trasparente. Questo significa la sua ricerca etnomusicologica: un cercare il vero classico, ciò che non dev’essere sostituito o alterato (e se proprio dobbiamo dare una forma al cosiddetto neoclassicismo del nostro, non dimentichiamo che non solo Stravinskij c’entra come i cavoli a merenda, ma che la classicità neo-ottenuta risiede negli esiti di questa ricerca etnomusicologica, poiché a Bartók interessano le radici, non le foglie o i fiori).
E se proprio dobbiamo continuare a usare metafore, questa volta in ambito poetico, mai come nel compositore ungherese risiede il significato dei celebri versi di Dylan Thomas: La forza che nella verde miccia spinge il fiore/spinge i miei verdi anni; quella che fa scoppiare le radici degli alberi/è la mia distruttrice; perché la musica di Béla Bartók riesce a far scoppiare le radici degli alberi partendo proprio dalla verde miccia della musica popolare al centro delle sue ricerche e anche per il fatto che il nostro è uno di quegli autori la cui musica dovrebbe essere ascoltata e riflettuta in un andamento cronologico inverso, partendo dal suo omega e terminando nel suo alfa, iniziando quindi dal fiore per inabissarsi infine nelle sue radici.
Cosa che il pianista Adamo Angeletti ha correttamente e intelligentemente fatto nel disco che ha registrato per la Da Vinci Classics, dedicato a tre momenti distinti della produzione pianistica del compositore magiaro, un tragitto chiarificatore, eminentemente “botanico-musicale” che parte dall’omega(alfa) delle Sei danze in ritmo bulgaro, (omega) del multiverso dato dai Mikrokosmos, risalenti al 1939, per poi proseguire con la Sonata BB 88, datata 1926, e per finire con l’alfa(omega) delle Bagatelle op. 6 del 1908.
Il culmine dei Mikrokosmos, il loro affioramento conclusivo, è dato da sei danze innervate da un singolare e inebriante ritmo di matrice bulgara, la cui musica popolare fu al centro di un attento studio da parte di musicologi e compositori nei primi tre decenni del Ventesimo secolo. Un interesse che culminò nel 1927 con la pubblicazione da parte dell’etnomusicologo bulgaro Vassil Stoin di un breve saggio, Grundriβ der Metrik und der Rhythmik der bulgarischen Volksmusik, nel quale affermò come in buona parte dei canti popolari bulgari presi in oggetto non tutti i valori fondamentali delle singole battute fossero uguali. Facendo tesoro di queste analisi, Bartók negli anni Trenta volle indagare su questo stile così particolare e le Sei danze in ritmo bulgaro ne furono la debita conseguenza nell’ambito compositivo, il termine ultimo, “escatologico”, dei Mikrokosmos, con le quali, e non solo simbolicamente nella visione del compositore ungherese, il senso dell’equilibrio nel tessuto armonico viene del tutto frantumato, come a voler prendere a martellate quanto la musica colta aveva insegnato e imposto fino a quel momento. Il vero ordine, il vero equilibrio, è il messaggio che preme a Bartók, è da cercare invece nella natura, di cui i canti popolari bulgari intendono far cogliere quella sorta di aurea ancestrale, quasi mistica, in perfetta unione con il lavoro e con la vita degli abitanti dei luoghi rurali e delle montagne.
La Sonata ha una sua importanza del tutto particolare, poiché rappresenta l’atto conclusivo di quel processo di allontanamento e di risolutivo sganciamento dalla poetica schönbergiana, alla quale Bartók aveva in un certo qual senso ceduto negli anni precedenti, tentato da una sorta di dorata atonalità, sebbene spurgata dalle asperità timbriche. Con quest’opera, l’autore magiaro abbandona, quindi, un’idea di mera e fredda logica per approdare a una concezione geometrica, ossia lasciando al suo destino il segno per abbracciare una formulazione di piani sonori con i quali costruire un insieme di timbri più propriamente architettonici. Un recupero tonale che comporta un utilizzo più corposo, vitale, del suono percussivo con il quale lanciare precisi segnali di una modernità che non fu minimamente colta (capitolo incomprensione/insostenibilità), poiché il tentativo di lastricare questo sentiero “virtuosistico”, di certo non debitore di quello di matrice romantica, ma concepito e sviluppato sull’onda dello strumento in sé, ossia sfruttando unicamente ciò che appartiene non solo al suono, ma all’idea stessa del pianoforte, alla sua fisicità, alla sua tattilità, alla sua matericità (una tematica, questa, che ci fa capire la “pacata rivoluzionarietà” del pensiero musicale bartókiano e che, come tale, verrà ripresa e sistematicamente ampliata solo svariati decenni dopo da Helmut Lachenmann) non ebbe seguito nella poetica sonora del compositore poiché invisa, osteggiata dagli ascoltatori coevi, incapaci di comprendere che il pianismo di Béla Bartók era esente da rimandi (il pianismo romantico, al contrario, trasuda di “rimandi” da tutti i pori, poiché il pianoforte è lo strumento che incarna per eccellenza il punto finale di un accumulo semantico, simbolico e semiologico di ciò che lo precede, poiché è mediante tale accumulo ottenuto che la musica romantica è un coacervo di descrizione e di proiezione).
Ecco perché quest’opera è lontana anni luce dalla Sonata stravinskijana, che la precede di appena due anni, visto che quest’ultima incarna il trionfo di quei determinati rimandi, e non solo stilistici, ma che necessariamente rimandano a un punto di partenza, di inizio, di alfa propriamente detto, ossia un Neoclassicismo che, contrariamente alla concezione estetica bartókiana, coglie il segno nel suo processo rassicurante, di mero approdo d’ascolto (il paradigmatico Frammento di Novalis: «Dove andiamo noi tutti? Sempre verso casa» può essere preso come esempio). La grandezza e la conseguente fine miserevole di Bartók sta proprio nel suo rifiuto totale, sistematico, di questa “cultura dei rimandi”, a favore di una tabula rasa che è stata progressivamente da lui modificata e plasmata nel corso del tempo con originalità e coerenza (e non si venga ad affermare che la ricerca etnomusicologica può essere considerata un ennesimo rimando creativo, in quanto il procedimento compositivo non rimanda mai all’idea, allo stimolo dato dalla musica popolare tout court, poiché a Bartók non interessa tratteggiare, restituire, descrivere, ma più semplicemente preservare l’atto del “mandare” stesso). Ciò viene confermato dal fatto che la Sonata bartókiana, pur nel rigoroso sviluppo dei mezzi contrappuntistici presi a modello, non rimanda a Bach, contrariamente a quella di Stravinskij, la quale, invece, usando una terminologia informatica, rappresenta un “copia e incolla” della rappresentazione musicale del Kantor.
Lo scavo dell’humus, nel senso etimologico latino, sembra ammonirci Adamo Angeletti, per giungere fino alle radici, approda di conseguenza all’omega/alfa delle quattordici Bagatelle, in cui l’opera di mandare prende forma attraverso le ricerche musicologiche sulla tradizione popolare ungherese e dell’area balcanica, che Bartók condusse con l’amico e collega Zoltán Kodály. A ciò si unì lo studio della musica francese coeva (Debussy), grazie alla quale il compositore magiaro attuò quel processo di organizzazione sonora capace di andare oltre le categorie del sistema tonale, unitamente a una forte caratterizzazione culturale, proveniente proprio dalle dinamiche del mandamento etnomusicologico effettuato di quegli anni (il mandare compositivo bartókiano non mira, come si è visto, al semplice appropriarsi del “colore” della musica popolare da rendere poi in chiave “salottiera” (Brahms), ma sull’analisi formativa della sua struttura armonica, basata sovente sui cinque gradi della scala pentatonica anemitonica, ossia formata su cinque suoni, senza distanze di semitono tra essi). Inoltre, non dobbiamo dimenticare che la scelta decisamente aforistica, liofilizzata delle quattordici Bagatelle (ognuna di esse non supera i tre minuti di durata) è da intendersi chiaramente in senso antiromantico, cosa che attirò immediatamente l’attenzione di Ferruccio Busoni, il quale le raccomandò alla Universal per la pubblicazione, la quale avvenne l’anno successivo alla loro creazione presso l’editore ungherese Rozsnyai Károly.
Un’ultima considerazione: il titolo di Bagatelle naturalmente può e deve, in tal caso, rimandare a Beethoven, ma il senso di tale rimando si deve attestare maggiormente nella sua attuazione legata a demandare al pianoforte la funzione di mezzo (leggasi medium) con il quale attuare non un “rimando” di romantica memoria, bensì come strumento attraverso cui poter attuare una ricerca linguistica (vale a dire sganciamento dalle precedenti forme lessicali mandate mediante le proiezioni romantiche e tardoromantiche).
Trovo che la lettura effettuata dal pianista maceratese rappresenti l’esemplificazione di questa analisi appena fatta; questo significa che il suono espresso nelle tre opere registrate parta da un’ineludibile oggettività (che in termini pianistici ed estetici non deve appoggiarsi a quanto fece poi un Paul Hindemith, ossia un suono scarno, disossato, spalmato di una sottile ironia, ma su un ideale di espressionismo rappreso, che dev’essere cercato ancor prima di essere scavato), sulla quale, di volta in volta (e qui la sensibilità dell’interprete diviene a dir poco indispensabile), si deve intervenire sulla base di quella visione del mandamento bartókiano, che non ha padri, se non categorie acquisite dallo studio e dalla ricerca rientrante nel campo della sociologia musicale. L’interprete bartókiano, quindi, dev’essere un “cane sciolto”, avulso da tentazioni imitative, repellente a infiltrazioni soggettive, ma esponente di una dimensione puramente oggettiva del suono, il che rende estremamente difficile, periglioso, il transfert dal segno al suono stesso. E Angeletti è bravissimo a evitare colori che non devono essere restituiti indebitamente, poiché in questo caso farebbe irruzione quel principio di “rimandamento” che con Bartók non c’entra assolutamente nulla. Ma attenzione: suono oggettivo, asciutto, non vuol dire suono morto, poiché sia nella sua dimensione percussiva (Sonata), sia nell’andamento fluttuante, ondivago (Sei danze), chi le esegue, e qui Angeletti lo dimostra appieno, la resa timbrica vive su molteplici sfumature che l’ascoltatore più attento e più addentro può e deve cogliere, poiché solo in questo modo l’interprete può essere in grado di rendere, di mandare in superficie il sentimento, la delicatezza implosiva che ammantano l’opera (e non solo pianistica) del compositore ungherese.
Personalmente, trovo che il risultato migliore, oserei dire quasi di riferimento, il pianista marchigiano lo abbia ottenuto proprio con le Bagatelle, perché in questa composizione, più che con le Sei danze e con la Sonata, le tentazioni intimistiche, le forzature soggettive sono estremamente forti, sirene che sovente trascinano l’interprete a sovrastrutturare la linea oggettiva che governa l’opera dal principio alla fine. Qui, siamo sul filo del rasoio: suono oggettivo, ma senza perdere una rotondità timbrica necessaria per permettere il mandare del richiamo armonico dato sia dalla ricerca debussyana, sia dal senso ritmico esemplificato dalle musiche balcaniche, magiare soprattutto, che sovrintendono l’anima che pulsa nelle Bagatelle. Encomiabile.
Di notevole struttura è la presa del suono effettuata da Andrea Lambertucci, visto che è stato in grado di restituire pienamente la bellezza timbrica del pianoforte Bechstein utilizzato da Adamo Angeletti. La dinamica è ottimamente corposa, energica, velocissima, ma anche delicata nel terreno della microdinamica (si ascoltino soprattutto, in tal senso, i tempi Andante, Grave, Lento nelle Bagatelle); la ricostruzione del palcoscenico sonoro evidenzia il pianoforte scolpito al centro dei diffusori, posto a una discreta profondità, il che permette di percepire lo spazio ambientale nel quale è avvenuta la registrazione. L’equilibrio tonale è pienamente rispettoso dei registri, soprattutto nelle fasi percussive date dallo strumento, in cui sia il registro grave, sia quello medio-acuto risultano essere sempre percepibili senza sbavature. Il dettaglio, infine, restituisce la piacevole matericità del Bechstein, sempre circondato e messo a fuoco da generose dosi di nero.
Andrea Bedetti
Béla Bartók – Piano Works (1908-1939) Sonata, Six Dances, Bagatelles
Adamo Angeletti (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00471