Beethoven e i “capolavori del silenzio”
Quando ascoltiamo la musica di Beethoven e ne restiamo commossi, facciamo giustamente fatica nel concepire le sue immortali creazioni alla luce della più terribile disgrazia che possa capitare a un musicista, quella di diventare sordi, di perdere il contatto assoluto con il mondo dei suoni. Una disgrazia, come ben sappiamo, che colpì il sommo genio di Bonn fin da giovane, se diamo credito a quanto scrive in una lettera del 1801, ossia quando aveva ventun anni, all'amico Franz Gerhard Wegeler, nella quale afferma testualmente: «[...] mi debbo mettere vicinissimo all'orchestra per comprendere ciò che l’attore dice e [...] i suoni acuti degli strumenti e delle voci, se sto un po’ lontano, non li sento affatto. [...] Inoltre, talvolta odo a malapena chi parla piano. Odo i suoni ma non distinguo le parole; mentre, invece, se appena uno grida mi è addirittura impossibile sopportarlo [...]».
Come ci ricorda John O’Shea in quella miniera di preziose informazioni che è Musica e medicina. Profili medici di grandi compositori, Beethoven si accorse che i problemi di sordità iniziarono dapprima all'orecchio sinistro e, poco tempo dopo, si presentarono anche all'orecchio destro. Oltre a non sentire progressivamente suoni e voci, il compositore fu affetto anche dal tinnito, ossia la sensazione di qualcosa che squilla o ruggisce nelle orecchie, un fastidio che lo perseguitava giorno e notte e che nel 1819 lo portò sull'orlo del suicidio. Fortunatamente, sempre che questa possa essere definita fortuna, il tinnito cessò quando Beethoven divenne completamente sordo, ossia l’anno successivo alla decisione di farla finita con la vita, senza dimenticare che già a partire dal 1817 per comunicare il compositore prese a usare i famosi “quaderni di conversazione”, dove scriveva ciò che doveva dire e nei quali riceveva le risposte da parte degli interlocutori.
Non si sa con certezza quali siano state le cause della sordità di Beethoven. A tutt'oggi, ci sono due ipotesi: la prima afferma che la sordità fosse dovuta a un danno che aveva colpito il nervo acustico, dando così origine a una sordità neurosensoriale; la seconda forse dovuta all’ispessimento e al relativo blocco degli ossicini, ossia le tre ossa che conducono il suono attraverso l’orecchio medio.
Se mi sono voluto soffermare brevemente sulla sordità di Beethoven è perché ascoltando la registrazione pubblicata recentemente dalla Da Vinci Classics in cui il giovane pianista romano Giuseppe Rossi ha presentato la celeberrima Sonata n. 29 in si bemolle maggiore Hammerklavier op. 106 e, unitamente alla pianista Elisa Viscarelli, la versione per pianoforte a quattro mani della Große Fuge in si bemolle maggiore op. 134, non si può fare a meno di riflettere sulla terribile sventura che colpì il genio di Bonn. Questo perché la Hammerklavier risale, a livello di composizione, a un lasso di tempo che va dal 1817 al 1819, ossia proprio durante il periodo in cui il dramma della sordità, unitamente a quello del tinnito, raggiunse il punto più atroce e umanamente terribile.
Ma, a pensarci bene, l’accostamento di queste due composizioni (la trascrizione pianistica della Große Fuge rimanda necessariamente alla versione originale, vale a dire la monumentale e drammatica pagina che è l’op. 133, destinata al quartetto per archi) ci pone di fronte a una riflessione musicologica; questo perché la struttura di queste due pagine e la loro meravigliosa architettura si basano sul quel concetto squisitamente bachiano che è dato dalla fuga. Ora, cerchiamo di immaginare un artista, un uomo tremendamente sensibile, che da tempo ormai non può fare altro che rinchiudersi sempre più in se stesso, che trova unicamente rifugio nel suo mondo di suoni immaginati, suoni che quindi non può ascoltare, ma solo organizzare, cercando di dare loro una forma precisa, armoniosa, logica, poiché la sua sordità ha bisogno di ordine, di sistematizzazione, di una disciplina interiore che si possa tramutare in musica. Ed è questo il Beethoven del 1817, quando comincia ad abbozzare la stesura di quell'immensa Sonata pianistica (sono esattamente quarantaquattro pagine di partitura) che è la Hammerklavier, la quale è concomitante a un altro capolavoro (tra l’altro l’opera a cui Beethoven fu più affezionato), la Missa Solemnis, opera nella quale la dimensione, il ruolo della fuga assume un valore capitale, fondante, pietra che costruisce.
Alla luce di ciò, può risultare veramente eretico il fatto di affermare che sia la Große Fuge sia, soprattutto, la Hammerklavier, abbiano saputo attecchire, germogliare e svilupparsi nel silenzio assordante nel quale si trovò Beethoven? Non è forse vero che la musica per manifestarsi ha bisogno del silenzio, poiché il suono nasce dal silenzio e muore tornando nel silenzio? Silenzio, provocato dalla sordità, e tensione esistenziale hanno fatto sì che Beethoven fosse ciò che è stato, in quanto forse come nessun altro il genio di Bonn ha saputo incarnare il concetto così drammaticamente moderno e così affascinatamente antico della tragicità, ponendo in atto il senso del tragico e aprendo di fatto al tragico la porta per permettergli di entrare nella dimensione della musica. Certo, non bisogna poi dimenticare che il lasso di tempo in cui Beethoven fu occupato nella stesura della Hammerklavier e della Missa Solemnis coincise con il periodo più estenuante e drammatico relativo alla vicenda riguardante la tutela dello sciagurato nipote Karl, il che aumentò a dismisura la tensione interiore, la frattura irreparabile con il mondo esterno e con coloro che non volevano o non riuscivano a capirlo.
Come in nessun’altra opera pianistica della sua produzione Beethoven si confrontò in un modo così profondo, così assoluto con questo strumento, giungendo al punto di trasfigurarlo nelle sonorità e nella sua fisicità. Non è questa la sede per ricordare l’annosa questione inerente l’appellativo di Hammerklavier, ossia la volontà da parte dell’autore di voler apporre sulla partitura il termine tedesco e non quello francese o italiano per l’espressione “per il pianoforte con la tastiera a martelli”, quanto piuttosto di ricordare come questa titanica, mostruosa pagina non fu minimamente compresa e accettata dalla critica, dal pubblico e perfino dagli interpreti del tempo, soggiogati e intimoriti dalla sua ampiezza e soprattutto dalle sue innumerevoli difficoltà, di ordine tecnico, esecutivo e psicologico, che sono insite in essa. E sebbene la suddivisione dei tempi segua in modo canonico quella classica dell’epoca, con la presenza di una Fuga finale, ciò che colpisce è come l’autore sconvolse il senso delle proporzioni e delle dimensioni di questi tempi, creando delle precise interrelazioni tra di essi, onde fornire all'opera un’assoluta sistematicità sottilmente programmatica nel suo linguaggio e nelle sue peculiarità compositive. A titolo di esempio, Charles Rosen ha fatto presente come tutti i tempi della Hammerklavier ruotino, come pianeti intorno a un sole, attorno a un’idea centrale, “forte”, vale a dire l’uso frequente e costante delle terze discendenti, tra loro concatenate. Questa concatenazione armonica permise addirittura a Beethoven, anticipando di fatto quelle che sono le caratteristiche della musica aleatoria, di programmare un’esecuzione della Sonata eliminando uno dei movimenti o, addirittura, di eseguirla con l’ordine invertito! Ciò che Beethoven scrisse a Ferdinand Ries in una lettera del 19 aprile 1818, mentre quest’ultimo si trovava a Londra per trovare possibili acquirenti per la stampa della Hammerklavier in Inghilterra, è semplicemente illuminante: «[…] se a Londra la Sonata non piace, potrei inviargliene un’altra. Oppure potrebbe togliere il Largo e aprire subito con la Fuga dell’ultimo movimento; oppure ancora: come primo brano l’Adagio, come terzo lo Scherzo e il Largo, e infine l’Allegro risoluto». Inoltre, ricordiamoci che Beethoven compose l’op. 106 su un grande fortepiano Broadwood, che ebbe a disposizione proprio in quel periodo, uno strumento dotato di sonorità molto più potenti e di una timbrica più aggressiva rispetto a quelle dei fortepiani dell’epoca, e ciò influì non poco nella titanica scrittura dell’opera.
Per ciò che riguarda la versione per pianoforte a quattro mani della Große Fuge, pur non vantando la stessa intensità, lo stesso fascino, il medesimo mistero che riesce ad esprimere il quartetto per archi, è anche vero che la trascrizione pianistica ha il merito di mettere in evidenza, quasi fosse una rappresentazione olografica, la meravigliosa struttura armonica di questo capolavoro, che per la sua complessità, lunghezza e arditezza compositiva causò perplessità e incomprensioni all’epoca, sia quando fu incluso come tempo conclusivo del Quartetto per archi in si bemolle maggiore op. 130, sia quando Beethoven decise di approntarlo per il Quartetto op. 133, tanto da spingere l’editore Matthias Artaria a proporre per l’appunto all'autore di rielaborare la Große Fuge per il pianoforte. All'inizio, il genio di Bonn, che non era molto allettato dalla proposta dell’editore viennese, affidò tale incarico a un suo allievo, Anton Halm, ma rimasto insoddisfatto del lavoro, decise di metterci personalmente le mani, facendolo pubblicare nel maggio del 1827.
Ai fini esecutivi, per ciò che riguarda le interpretazioni di queste due opere nell’incisione proposta dalla Da Vinci Classics, la Große Fuge nella versione a quattro mani rappresenta una trappola, in quanto si rischia di rendere fon troppo schematica e idiomatica la composizione, con il risultato di tramutarla in un’equazione musicale, svilendola e fuorviandone la sua essenza. Cosa che non accade con Giuseppe Rossi ed Elisa Viscarelli, la cui accortezza di lettura si stempera in una serie di scelte ermeneutiche che trovo convincenti; dapprima l’Ouverture-Allegro viene affrontato non solo con un adeguato cipiglio, senza cadere nel clangore, ma anche avvalendosi di un respiro ritmico che aiuta a dissipare timbricamente la mole di note e di figure armoniche che la contraddistingue. Allo stesso tempo, il Meno mosso e moderato è reso con un mix di melanconica dolcezza (la linea del basso a un certo punto diviene ipnotizzante come una ninna-nanna intrisa di sovrumana logica) e di rarefatta delicatezza timbrica, articolando il fraseggio senza che venga meno l’enunciazione dell’intera arcata che collega idealmente i vari tempi. Nella parte finale della composizione, che riprende dapprima e avviluppa l’allegro iniziale e che sfocia infine nella celeberrima Fuga, il duo Rossi & Viscarelli tiene saldamente in mano il bandolo della matassa, elaborando una linea in cui la struttura armonica non cede mai a una freddezza stereotipata, a una resa meramente “oggettiva” del suono, ma riesce ad ammantare il tutto con un velo di passione, di coinvolgimento, con il contrappunto che diviene fatalmente dialogo, comunicazione fruttuosa tra il registro grave e quello acuto, dando l’idea della costruzione che avanza armoniosamente, fino agli ultimi imperiosi accordi che chiudono un cerchio che non conosce soluzione di continuità.
Se mai vi è stata un’impronta, una caratteristica “michelangiolesca” in un’opera musicale, questa non può che risiedere nella Hammerklavier, poiché in questo caso l’interprete ha di fronte a sé il pianoforte che rappresenta idealmente un enorme blocco di marmo che dev’essere progressivamente, inesorabilmente trasformato in una statua sonora, scolpita attimo dopo attimo, opera nell'opera, idea nell'idea, per riuscire a raggiungere il cuore pulsante, ossia la rappresentazione che diviene comprensione e conseguentemente accettazione, come se questa sonata fosse, citando Rattalino, una “tragedia da lettura”. Una “tragedia” che il pianista romano ha proposto come incisione, da non intendere solo a livello discografico, ma anche in quello scultoreo, ponendosi di fronte al blocco di marmo e incidendo nota su nota, accordo su accordo, senza mai dimenticare né il blocco marmoreo in sé, né la cura del particolare, del frammento, poiché questa Sonata non solo dovrebbe essere ascoltata, ma anche “letta” per far sì che la percezione possa tramutarsi, e mai come in quest’opera tale operazione si rende così necessaria, in comprensione. Ecco, a mio avviso, Giuseppe Rossi ha voluto soprattutto cercare di rendere l’idea di questa comprensione, permettendo all'ascoltatore non solo di resistere all'ascolto di una Sonata che supera i quaranta minuti di durata, ma anche prendendolo per mano per fargli intuire/capire quanto stava avvenendo, come nelle cattedrali gotiche le vetrate istoriate servivano a far comprendere a chi non sapeva leggere le narrazioni delle sacre scritture.
C’è chiarezza nel suo intento, nel suo pianismo, con una luminosità espositiva che nulla ruba all'intensità (l’incipit dell’Allegro iniziale), che a sua volta nulla toglie a un sacrosanto equilibrio del fraseggio, il quale si dipana con sicurezza e ferrea lucidità, con un andamento timbrico che non cede alla tentazione di eccedere in un’opera che è già eccedente di per sè. Semmai, Giuseppe Rossi ha cercato, riuscendovi, di avere sempre presente il concetto tedesco di Hammerklavier, ossia della “tastiera a martelli”, con la sagacia di rendere il suono, il timbro, fonte emozionale attraverso il quale svolgere il piano formale della composizione, al punto di permetterne la sua lettura anche ai non-vedenti, ossia a coloro che non conoscono il linguaggio di quest’opera e della musica in generale. E la precisione dei passaggi, il saper risolvere le asperità tecniche, il graduato dosaggio delle forze esecutive, con il rispetto delle indicazioni e le scelte sulla pedaliera, danno la misura su come il pianista romano abbia saputo concepire e focalizzare nell'insieme l’immensità tecnica e artistica di questa Sonata. Prima ho parlato dell’arcata in seno alla lettura della Große Fuge, arcata che si dilata spaventosamente nella Hammerklavier e che trova il suo “cuore pulsante” prima nel commovente Adagio e poi nella Fuga finale.
Ci vuole sentimento, lucidità e compartecipazione espressiva per affrontare degnamente il primo, risolvendo i problemi tecnici in una pletora di emozioni contrastanti (si ascolti l’esposizione del secondo tema), in cui aneliti di morte si stemperano in rivoli nostalgici, con il tutto che viene reso da un suono che resta impalpabilmente fissato, enunciato con ferma delicatezza (il rimando timbrico, sia ben chiaro, allo Chopin delle Ballate è d’obbligo). Rossi riesce quasi a promulgare l’assenza del tempo, a cristallizzarlo con sonorità vellutate, rotonde, meste, che richiamano l’atteggiamento riflessivo del Pensatore di Rodin, un pensare che è agire, una riflessione che nonostante tutto è atto di volontà. E tutto questo grazie a una liquidità del gesto pianistico, ancora una volta di un dosaggio timbrico più che eccellente, con un uso rarefatto dei pedali, trasformando l’intero movimento in un incedere permeato da un palpabile ritmo sotterraneo, crepuscolare.
In quell'autentico Giano bifronte che è la Fuga finale Giuseppe Rossi riassume e riespone le peculiarità che avevano caratterizzato i tre precedenti movimenti; l’oscillare timbrico dato dall’incipit e dalla microfuga presente nell'intermezzo centrale ribadiscono la capacità di resa espositiva del pianista romano, mentre le impervie pareti dello sviluppo della Fuga sono affrontate con una notevolissima saldezza espressiva, senza mai cedere al minimo tentennamento tecnico. Anche qui lo scalpello e il bulino incidono la materia sonora, la sgrezzano e la rendono lucente anche nelle sue arditezze più estreme. Siamo all'apice dell’arcata, che assume i contorni di un buco nero la cui densità tutto assorbe e ingloba, l’alfa e l’omega della composizione (ricordiamoci la volontà di Beethoven di vedere eseguita la Fuga anche come primo movimento della Sonata).
Daniele Zazza dell’Abbey Rocchi Studios di Roma si è occupato della presa del suono, la quale mette debitamente in risalto le eccelse sonorità del Fazioli F278 impiegato per la registrazione. La dinamica è corposa, rocciosa, senza per questo peccare di enfasi, con una notevole velocità dei transienti; il palcoscenico sonoro ricostruisce il pianoforte al centro dei diffusori, con una proiezione ravvicinata, mentre l’equilibrio tonale permette di cogliere al meglio la sontuosità del registro grave e la brillantezza di quello acuto, senza evidenziare picchi di saturazione. Infine, il dettaglio restituisce una piacevolissima matericità dello strumento, con generose dosi di nero che lo circondano.
Andrea Bedetti
Ludwig van Beethoven – Große Fuge op. 134 & Sonata op. 106 Hammerklavier
Giuseppe Rossi (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00252
Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 4/5