Andrej Gavrilov, secondo coscienza
Affrontare la visione pianistica di Andrej Gavrilov significa porsi davanti a uno spartiacque sia in ambito critico, sia in quello dell’ascolto; beninteso, date le peculiarità dell’artista russo, le sue concezioni a dir poco radicali, le sue nette prese di posizione, che al tempo del regime sovietico gli aprirono le porte degli ospedali psichiatrici, un giudizio nei suoi confronti non può che essere altrettanto risolutivo e assoluto: o lo si accetta o lo si rifiuta, o si è con lui o si è contro di lui. Una perentorietà di impatto che lo stesso Gavrilov ovviamente non può non gradire.
Soprattutto ora, dopo decenni di silenzio, di riflessioni, di un rimettere tutto in discussione, alla fine dei quali, dal suo eremo in terra elvetica, è tornato a registrare, ossia con la volontà di lasciare nuovamente un segno, una traccia, con il ferreo desiderio che risultino indelebili, nel bene o nel male. E per farlo ha scelto una casa discografica a dir poco emergente e ormai affermata nel panorama internazionale, la Da Vinci Classics, e un repertorio di autori alcuni già affrontati in passato, altri del tutto inediti, con i quali ha deciso di relazionarsi o, per meglio dire, interrelazionarsi, frutto di quel lavoro di scavo che un prolungato silenzio impone.
Così, dopo che lo scorso anno ha finalmente rotto il ghiaccio proponendo pagine di Schumann e di Musorgskij, del primo Papillons op. 2 e gli Études Symphoniques op. 13 e del secondo i Pictures at an Exhibition, ora ha ampliato ulteriormente la forbice, presentando in un secondo disco la Fantasia n. 3 K.397 di Mozart, le Sonate n. 2 & n. 3 op. 10 di Beethoven, la Sonata in si minore di Liszt e l’Elegia op. 3 n. 1 di Rachmaninov. Entrambe le registrazioni hanno un denominatore comune nel sottotitolo e nell’immagine della cover: la prima recita testualmente Music as living Consciousness, mentre la seconda vede il volto dello stesso Gavrilov, disegnato da Serge Serov, posto al centro tra quelli degli autori affrontati; nel primo caso Schumann e Musorgskij, nel secondo Beethoven e Liszt. Ma ciò che colpisce è come il tratto del disegno, pur rispettando i lineamenti dell’interprete e dei musicisti, tenda a fonderli, a configurarli in un’immagine che non permette più di distinguerli chiaramente, come a voler significare, ancor più con il disegno che con il sottotitolo, che tra chi esegue e chi compone, tra chi decodifica il segno e chi lo scrive, non vi è più differenza, con il risultato, e ciò viene acclarato maggiormente se si vanno a leggere le dichiarazioni di intento dello stesso Gavrilov, che il segno in quanto tale tende ad essere annullato, in quanto rappresenta la traccia, la linea di demarcazione tra compositore e interprete (e in ciò viene anche coinvolto, in chiave più “passiva”, lo stesso ascoltatore), il che inevitabilmente pone tale relazione su un piano in cui vi è un soggetto e, di conseguenza, un oggetto, un indicatore e, parallelamente, un indicato. È lo stesso pianista russo a spiegarlo, con le sue parole, nel testo che è stato incluso nelle note di accompagnamento al primo disco, quello dedicato a Schumann e a Musorgskij: «A un certo punto, verso la metà degli anni Novanta, giunsi a realizzare che quello che consideravo come la “comprensione” del linguaggio musicale era in realtà solo un livello avanzato di qualificata e rigida dimestichezza con delle regole e delle norme, totalmente priva di un dialogo intimo fra il musicista e l’ascoltatore della musica. Nella mia vita musicale non vi era alcuna trasmissione di pensieri consci o di elementi di una persona vivente. Questa presa di coscienza germogliò di fronte a domande fondamentali che mi sentivo obbligato a porre, ma che fino ad allora erano mancate nel mondo delle “arti performative” e dell’arte di suonare il pianoforte. Domande come: Cosa si trova oltre i confini delle “tradizioni”, degli “stili”, delle “scuole” e dell’analisi teoretica? Cos’è l’oggetto, l’id della musica, e soprattutto qual è il suo ruolo (e il mio, peraltro) nello schema dell’intuizione del suono?».
Leggendo queste parole, mi è tornato alla mente il protagonista del romanzo Presto con fuoco che anni fa Roberto Cotroneo dedicò alla figura di un enigmatico pianista italiano, che nelle pagine del libro resta sempre anonimo, ma che rimanda inevitabilmente ad Arturo Benedetto Michelangeli, chiuso nel suo eremo tra le Alpi svizzere e con le finestre della villa che si affacciano sulla Jungfrau, il cui scopo precipuo è quello di comunicare il senso assoluto di Bellezza, di manifestarlo e di irradiarlo al di là di quella prigione irrinunciabile che si chiama forma, senza per questo cadere nell’osceno tranello di un significato che deve emergere da tale forma; l’idea pura e semplice, la traccia tel quel che si materializza con il suono, non sostituendosi al compositore, ma incarnandolo, essere e non fare, portavoce di un travaglio esistenziale che può trovare la sua ragion d’essere solo nell’enunciazione dell’opera artistica. In fondo, leggendo quanto scrive Gavrilov, il suo obiettivo e quello dell’enigmatico protagonista del romanzo sono iscritti con le stesse lettere infuocate. E se proprio dovessimo individuare, trovare e sceverare dal suo interno un ulteriore, possibile denominatore comune che lega le composizioni che il pianista russo ha voluto coscientemente presentare in codesta seconda registrazione, questo potrebbe essere proprio travaglio. Questo lemma definisce svariati significati, alcuni evidenti, altri più occulti: vuol dire pena, sofferenza fisica, a cominciare da quello provato dalla partoriente, così come afflizione interiore, e anche lavoro faticoso, penoso o, a livello di sinonimo, angustia, calvario, e poi, a livello più specialistico, l’incastellatura di travi (travaglio, a livello etimologico, deriva dal latino trabs, che significa per l’appunto trave) che serve per tenere fermo un cavallo durante una visita o un intervento veterinario. Travaglio come gabbia, dunque, dalla quale uscire per abbandonare il dolore, la pena, lo sconforto. Un filo che si dipana quindi nelle opere di Mozart, Beethoven, Liszt e Rachmaninov scelte da Gavrilov con l’intento di evidenziare come un’interpretazione coscienziosa possa risolvere l’afflizione di tale travaglio.
Il travaglio mozartiano: per ciò che riguarda la Fantasia in re minore in questione, l’approccio dato da Gavrilov a questa pagina è quello di ricondurla alle tematiche su cui si fonda la sua originale creazione, ossia quella di essere fondamentalmente veicolata da un impianto d’improvvisazione, al punto che Mozart la lasciò incompiuta e da vederla pubblicata postuma solo nel 1804 (la versione comunemente eseguita è quella edita due anni più tardi da Breitkopf con l’aggiunta di dieci battute fatte forse da August Eberhard Müller). Una pagina che, come si sa, è articolata in tre brevi sezioni, che si susseguono senza soluzione di continuità, la quale si apre con una serie di “lamentosi” arpeggi, cui segue un nuovo episodio, agitato, che rasenta l’angoscia, per poi lasciare nuovamente spazio alla melodia patetica che sfocia infine nella sezione conclusiva, un brevissimo Allegretto in re maggiore, la cui purissima luce spazza prodigiosamente la greve e luttuosa atmosfera delineata precedentemente, un risveglio felice da un incubo notturno. La coscienza di Gavrilov la dipinge sotto un’angolazione che, oltre ad essere temporalmente più rappresa, risulta essere straordinariamente più leggera, più rarefatta rispetto ad altre celebri letture, come quella fatta da Arrau nella registrazione del 1973 per la Philips o come l’esecuzione dal vivo fatta da Trifonov nel 2012 (non entro in merito alla pedante lettura fatta da Mitsuko Uchida, che passa per essere una mozartiana doc, ma che in fondo è solo una schubertiana mancata). Improvvisazione come linfa della levità, di un incubo che in fin dei conti è pur sempre un sogno, di un travaglio che ha, dopotutto, nel suo improvvisativo svolgimento, un preciso ruolino di marcia che non dev’essere ingabbiato in una risolutiva frattura tra le tre sezioni, mantenendosi al contrario su un piano squisitamente etereo, vaporoso, evitando come la peste qualsiasi accenno di pesantezza timbrica. Ebbene, Gavrilov, pur evidenziando un impianto di distinzione formale, riesce a imbastire una linea unica che muta, si flette, si adegua a minime increspature sonore, al punto che l’irruzione dell’Allegretto finale, nella sua lettura, non è una liberazione, un risveglio, ma un’ideale continuazione di quanto enunciato in precedenza (l’unica che si avvicina a questa leggerezza e a questa continuità è Maria João Pires nella sua incisione del 1990 per la DG, poiché sia Trifonov, troppo teatrale, sia persino un campione della limpidezza classica come Arrau, risulta essere troppo scultoreo, troppo declamatore nell’evidenziare le “differenze” presenti (?) nelle tre sezioni). Un sogno con luci (dopo) e ombre (prima), dunque, che secondo il pianista russo deve fluire senza ostentazioni timbriche, metronomiche (nel sogno esiste il tempo?), con il senso del travaglio che non deve cangiare, ma solo evaporare. Ed è quello che Gavrilov fa, semplicemente nella sua suprema purezza, come un Füssli che improvvisamente si rende conto di aver privilegiato troppo i colori più scuri e opprimenti.
Travaglio beethoveniano: qui, con la Sonata op. 10 n. 2 in fa maggiore in un certo senso il genio di Bonn afferra il testimone mozartiano, poiché in questa pagina pianistica continua l’estro di un’altra ideale improvvisazione (paradossalmente, se la Fantasia del divino salisburghese già guarda verso il fortepiano, la Sonata beethoveniana è quasi un rigurgito che rimanda ai bei trascorsi clavicembalistici) e se è vero che il pianista russo abbia voluto scegliere due Sonate per dare adito a un possibile “contrasto” tematico, timbrico, interpretativo alla luce del nostro travaglio chiamato in causa, allora è altrettanto vero che le travi che imprigionano la Sonata in fa maggiore vengono debitamente lucidate e messe a nuovo da Gavrilov con una lettura che in effetti intende restituire, sempre idealmente, al clavicembalo ciò che è del clavicembalo. Questo significa, detta in soldoni, che l’artista moscovita elabora e risolve i contrasti timbrici con il loro opposto, ossia con una concordanza che tende ad amputare l’uso sovrabbondante della pedaliera (la coscienza non deve necessariamente scendere a patti con la partitura), restituendo un’immacolata cristallinità, con la Sonata che si trasforma in un’intrigante visita in un museo che ospita cristalli di Boemia, una cristallinità che sempre dapprima oppone e poi risolve i piani sonori che affollano questa pagina. Ma questo avviene nell’enunciazione della loro forma, che Gavrilov plasma a meraviglia, restituendo anche in questo caso un’unicità di intenti che non presentano alterazioni o confronti architettonici nello spazio sonoro (se invece siete cerebrali e amanti delle seghe mentali potete sempre affidarvi a Richter, come nella sua esecuzione dal vivo a Mosca del dicembre 1980, che il grande genio di Žytomyr risolve invece in modo del tutto opposto, mettendo sulla bilancia la problematicità del “falso” Menuetto, trasformandolo in una elaborazione titanica per possanza e volume timbrici e con il Presto finale che trionfa nelle vesti di un happy end da commedia hollywoodiana degli anni Cinquanta). Gavrilov, invece, smussa ancora una volta le antitesi del Menuetto, implodendolo, racchiudendolo in un bozzolo di suprema sensibilità metafisica, e il Presto nel richiamo festoso dato dal corno di un postiglione, che annuncia l’arrivo della carrozza con la posta, le provviste e le gazzette, perché l’attesa, come ci ricorda Klopstock, è già di per se stessa fonte di felicità. Una felicità che Gavrilov mette deliziosamente a nudo con un suono che è fonte, ancora una volta, di purezza, di sovrumana pulizia, perfino nell’enunciazione dei grappoli di accordi più rappresi e inestricabili.
Con la terza e ultima Sonata delle tre che fanno parte dell’op. 10 si cambia registro, poiché le problematiche che impone quest’opera sono di natura completamente differenti: se la Sonata n. 2 si rivolge dopotutto ancora al passato, la Sonata in re maggiore rappresenta un futuro che è già presente. Un futuro che vomita sul presente, ricordiamoci che fu composta tra il 1795 e il 1798 (!), e che mette su un piatto d’argento agli allibiti ascoltatori dell’epoca una pletora di rottura degli schemi formali, dissonanze come se piovesse a catinelle, con conseguenti libertà modulari, perigliosi spostamenti dei piani tonali, senza contare i cambiamenti metrici e le parallele asimmetrie ritmiche. Il lungo cammino verso l’incomprensione era dunque già iniziato prima dell’inizio del nuovo secolo e a fornire le chiavi della città a tale incomprensione è soprattutto il Largo, foriero di un travaglio che sarà il compagnon de route beethoveniano, e che, come lo stesso compositore spiegò al fido Schindler, rappresentava «lo stato d’animo in preda alla malinconia con le varie sfumature di luce e di ombra». Gavrilov legge il cuore pulsante di questa Sonata, vale a dire i due tempi centrali, rappresentati oltre che dal Largo dal Menuetto che segue, come un Giano bifronte, anche qui dolore e felicità data dalla conseguente accettazione del dolore (fare riferimento al cosiddetto Testamento di Heiligenstadt) come un unicum in cui il primo non viene estremizzato ma restituito attraverso un misterico atto metafisico (al contrario di quello che fa nella sua emozionante lettura Sokolov, che trasforma il Largo in un’umana marcia funebre, in cui i grevi germogli del ricordo aumentano il fardello dell’ascolto) e il secondo in uno straordinario momento di catarsi timbrica che non viene mai estremizzata, ma sempre smussata, resa in modo zen (invece di quello che fa Horowitz nella celebre registrazione del 1959 per la Columbia, che cesella una deliziosa fetta di Saint-Honoré a metà strada tra un valzer e una ninna nanna). E che dire del Rondo finale, quello che fece gridare allo scandalo l’inorridito Wilhelm von Lenz? Il pianista moscovita non lo suona, ma lo declama come se fosse un Sonetto shakespeariano, con una sovrana disinvoltura, cesellando nota dopo nota grazie al soccorso del dio della pulizia formale, non accumulando il tessuto musicale, non intasando il fraseggio, ma stirandolo alla perfezione quasi fosse il colletto inamidato di una camicia che deve accarezzare il collo e non stringerlo come la corda di un impiccato (Gavrilov fa addirittura meglio del Brendel nella sua seconda integrale beethoveniana, che enuncia il Rondo con un piglio maggiormente declamatorio, senza essere leggero, vaporoso, perfino ironico come invece riesce a fare il moscovita).
Travaglio lisztiano: per l’approccio di questo capolavoro pianistico, trovo particolarmente interessanti le note che lo stesso Gavrilov ha scritto nel booklet. Posso desumere, anche se non ne ho ovviamente la certezza, che il pianista moscovita sia rimasto influenzato dal pensiero del filosofo e mistico russo Pavel Aleksandrovič Florenskij, la cui opera ha fortemente connaturato il substrato delle classi più colte in ambito slavo, ma che risulta sostanzialmente ancora un “oggetto misterioso” in quello occidentale (dalle nostre parti, il primo a rendersi conto dell’originalità di questo pensatore fu, tanto per cambiare, Elémire Zolla). Gavrilov ricorda giustamente, sulla base della già nota documentazione storica, l’influenza che Liszt ebbe dalla lettura del Lost Paradise di Milton, lettura consigliatagli dall’ultima donna (ufficiale) della sua vita, la principessa Carolyne zu Sayn-Wittgenstein; una lettura dalla quale uscì traumatizzato, in quanto vide nel poema del letterato inglese un chiaro riferimento alla sua vita, trascorsa sullo spartiacque della dissolutezza e della santità, tra la carne e l’acqua benedetta, in breve tra il Male e il Bene. Alla luce di una tale acquisizione letteraria, trasposta poi sulla tastiera e che a livello temporale corrisponde a un altro spartiacque nella sua vita, ossia tra la dimensione virtuosistica-edonistica e quella della redenzione-espiazione, Gavrilov legge nella sonata in si minore un messaggio che vira decisamente in un ambito messianico, in cui confluiscono, come già sappiamo, anche aspetti biblici.
Certo, tornando al pensiero di Florenskij, è bene ricordare come il filosofo russo non avesse un ottimo rapporto con l’arte musicale, a cominciare da due autori russi quali Skrjabin e Čajkovskij, tenuto conto che considerava l’arte musicale del primo espressione di un mero e sterile artificio atto a stregare l’ascoltatore, mentre del secondo stigmatizzava l’uso abbondante di un’eloquenza che portava l’ascoltatore a galleggiare su un mare di abietta malinconia. Per Florenskij, invece, anche il messaggio musicale dev’essere all’insegna del fare, del puro ποιεῖν di tradizione greca, in quanto solo l’azione governata dal Bene supremo può redimere l’uomo e farlo coesistere con la natura che lo circonda. Quindi, un retto mondo dei suoni dev’essere in grado di uccidere, così come di resuscitare, un fare che nel primo caso è capace di “purificare” e nel secondo di “salvare”.
Questa breve chiosa sul rapporto tra Florenskij e la musica aiuta, a mio parere, a comprendere meglio che cosa ha voluto instillare Gavrilov nella sua lettura della Sonata lisztiana; al di là di una visionarietà che non ascoltavo da tempo immemore, ciò che colpisce non è tanto un’idea di originalità (metronomo che va per conto suo, sbalzi timbrici che mi hanno fatto tornare alla mente il modo di dirigere di un Mitropoulos, drammaticità dipinta a tonnellate) quanto la necessità nel pianista moscovita di evidenziare come nella Sonata in questione si debba da parte dell’interprete ricercare una progressiva identificazione di un suono puro, essenziale, escatologico se vogliamo, dato il contesto della nascita di tale composizione, di un esecutore che si deve calare nei panni di un novello Mosè che usa la tastiera al posto delle tavole per incidere con dita di fuoco una nuova legge. Una legge pianistica, ma non solo, visto che la Sonata è in fondo un atto di catarsi, un Mitleid wagneriano che l’artista russo nel Lento trasforma in un Parsifal che all’inizio del terzo atto si spoglia, si denuda per tornare a una nuova vita, secondo il principio alchemico. Gavrilov, che lo si voglia accettare o meno, ci presenta quindi la Sonata lisztiana come un atto di purificazione che avviene per mezzo dello scontro fatidico tra Male e Bene, tra Satana e la Redenzione, tra un prima e un dopo (si dovrà fare i conti su come il nostro pianista attui nel corso dei ventisei minuti della sua lettura un lento, macerante mutamento timbrico, oltre a cesellare un’agogica che è in fondo il rispecchiamento di quella coscienza e del conseguente atto di travaglio che compie per adempiere ad essa), con una miscela sonora che allo stesso tempo uccide e resuscita, e che paradossalmente, almeno se vogliamo tirare ancora in ballo Florenskij, lo avvicina a visioni che appartengono già a uno Skrjabin, quello che non vuole épater le bourgeois, ma solo coinvolgerlo in nome di una maieutica fatta di visioni, di colori, di sensazioni, di eruzioni umorali. Chissà, se di fronte a questa lettura, Brahms, come ci racconta un aneddoto, si sarebbe ancora addormentato in preda alla noia.
Travaglio rachmaninoviano: per rigore e onestà nel giudizio, vinco la mia nota repellenza nei confronti della musica di Rachmaninov e rendo merito a Gavrilov nell’aver restituito all’Elegia in questione una sua dignità, un suo perché, se ci mettiamo nei panni dello stesso compositore al tempo della sua creazione, un tempo fatto ancora di speranza e di ottimismo. Gavrilov bandisce, che gli dèi gli rendano gloria, ogni languore, ogni struggimento fine a se stesso, per trasportare questa pagina in un tempo successivo, ossia quello in cui ogni speranza e ogni ottimismo muoiono alla luce di una dovuta consapevolezza esistenziale. Quanto rimpianto, quanta sofferenza gravano nella sua lettura, come se ad averla scritta non fosse stato un Rachmaninov diciannovenne, ma quello che trascorse l’ultima parte della vita nella sua dacia di Beverly Hills, anacronismo supremo rispetto a un mondo nel quale ormai non si riconosceva più.
La presa del suono, effettuata a Praga, è stata curata da Jakub Hadraba, il quale ha saputo restituire in modo sostanzialmente buono il suono dello Steinway Model D utilizzato da Andrej Gavrilov. La dinamica risulta essere energica, veloce nei transienti e anche capace di denotare naturalezza nel decadimento degli armonici, oltre a debite sfumature nel campo della microdinamica. Lo strumento viene poi ricostruito, per ciò che riguarda il palcoscenico sonoro, a una discreta profondità al centro dei diffusori; l’equilibrio tonale è principalmente corretto, anche se nel registro acuto a volte si nota una certa “metallicità”, senza però rendere faticoso l’ascolto. Infine, è altrettanto buona la matericità sprigionata dal dettaglio, con lo Steinway che trasmette adeguatamente la sua presenza fisica, così come la sua messa a fuoco.
Andrea Bedetti
AA.VV. – Music as Living Consciousness Vol. 2
Andrej Gavrilov (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00505