Alfredo Casella e il nodo di Gordio

La figura umana e artistica di Alfredo Casella, ineludibile punta dell’iceberg della famosa “generazione dell’Ottanta”, risulta di fondamentale importanza per comprendere i meccanismi evolutivi della musica dal finire dell’Ottocento fino alla prima metà del secolo successivo. E questo, sia ben chiaro, non solo in chiave italiana, ma europea, nonostante il fatto che il nome (e ancor più la sua opera) abbia dovuto subire l’onta dell’oblio e della marginalità da parte della “cultura ufficiale” a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale (oblio che si avvantaggiò anche della morte dello stesso compositore, avvenuta nel marzo del 1947), tacciando Casella di essere stato un “collaborazionista”, ossia un artista fiancheggiatore del regime fascista.

A parte ciò, fortunatamente negli ultimissimi decenni l’opera musicale di Casella sta tornando in auge anche nella nostra cara Italietta, che finalmente, dopo aver messo da parte siffatte pruderies pseudoideologiche, si è resa conto che nel novero dei grandi musicisti di questo Paese dev’essere incluso anche il compositore e pianista torinese, che ha rappresentato un insostituibile punto di riferimento nella cultura europea tout court del suo tempo. Sì, perché Casella è stato uno dei veri e pochi, pochissimi artisti dal respiro internazionale che la musica italiana ha saputo esprimere a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, come testimonia, tra l’altro, la sua opera pianistica, ora al centro di un’interessante integrale portata avanti da un giovane pianista pugliese, Dario D’Ignazio, il quale per la Da Vinci Classics ha registrato il primo volume contenente opere che risalgono agli inizi della sua attività compositiva, con altre che appartengono invece alla sua compiuta maturità e che vanno dalla Pavane op. 1, Variations sue une Chaconne op. 3 e Sarabande op. 10 (scritte tra il 1901 e il 1908), passando per la prima serie de À la manière de… (1911-1913), al primo dei due Ricercari sul nome di Bach op. 52 (1932), fino ad arrivare alle plaghe della maturità, date dagli arditi Sei Studi op. 70 (1942-1944) e, soprattutto, dai rivoluzionari Sinfonia, arioso e toccata op. 59 (1936), vera e propria pietra miliare nel panorama pianistico europeo. Quindi, non un approccio sistematicamente cronologico, ma piuttosto una scelta effettuata per fare comprendere meglio a chi ascolta in modo intelligente e stimolante le differenze stilistiche ed espressive tra il prima e il poi, mostrando attraverso delle precise linee sotterranee i gangli che uniscono le pagine della gioventù e della “sperimentazione” a quelle in cui Casella porta a termine un preciso percorso di affinamento e di progressiva lucidità compositiva.

Sia ben chiaro, questo percorso di affinamento parte da un’idea di “classicità” alla quale Casella non viene mai meno, ma non sulla falsariga di quella portata avanti e celebrata da Stravinskij, in cui l’aureo periodo classico a volte diventa pretesto, mero termine di raffronto, perfino affettuoso sberleffo, ma considerando al contrario la concezione classicista come una forma quasi “sacrale” dalla quale la modernità e gli intenti contemporanei non devono mai derogare. Quindi, se Stravinskij a volte spezza, interrompe, stacca dalla “linea classica”, in Casella tale linea non si interrompe mai, ma cangia, si evolve, si manifesta compiutamente con una serie ininterrotta di precisi richiami, motivi per i quali il compositore torinese rientra in quella ristrettissima schiera di coloro che possono essere definiti i “più antichi tra i moderni”.

Resta da vedere come questa linea viene interpretata e decodificata, in senso pianistico, da Casella; e questo avviene con la metafora del nodo di Gordio in cui il musicista piemontese si veste dei panni di un novello Alessandro, ma che per risolvere il problema non ricorre alla lama affilata tagliandolo di netto. Casella, infatti, non taglia, ma dipana a poco a poco, immergendo la musica per pianoforte nella temperie del proprio tempo, ossia un tempo vorticoso (il Vorticismo di Ezra Pound!), in cui i ritmi artistici ed esistenziali vengono esasperati dalle irruzioni delle varie avanguardie, vissuto in quell’autentico ombelico del mondo che fu la Parigi dei primi due decenni del Novecento (il nostro arriva a studiare al Conservatorio della Ville Lumière a tredici anni, nel 1896!), in un periodo in cui avviene magicamente e logicamente la riunificazione tra pittura e musica, dopo che il Romanticismo aveva permesso il riavvicinamento tra letteratura e musica. E Casella è uno di coloro che iniziano a comporre, sulla scia debussyana, seguendo linee e colori e non solo note e accordi, capace di proiettare la musica nella dimensione immaginativa della forma, ricorrendo a richiami, ad allegorie, a sovrapposizioni interdisciplinari, ma senza dimenticare e mettere da parte il canone (nell’accezione etimologica greca) di quel sentore classico che tutto regge e sovrintende, con Stravinskij e la sua musica che rappresentano un insperato approdo, ma non definitivo (la Sarabande, oltre a rimandare agli amati francesi, è un omaggio a un modo di esprimere la musica come hanno saputo fare solo i russi che hanno preceduto Stravinskij). Così come nella prima serie dei ritratti de À la manière de in cui l’omaggio diviene studio e introspezione, con Casella che dimostra di essere una prodigiosa spugna ricettiva in grado in tal senso di lubrificare, di ungere, ammorbidire compiutamente quel nodo aggrovigliato di Gordio, rappresentato dall’ammasso tardoromantico che va a gettarsi nelle cascate dei primissimi anni del Novecento, riuscendo a scioglierlo e restituendone una linea compiuta, tale da essere raccontata attraverso la forza della modernità. E tra le opere presenti in questo disco, quella che rappresenta il concetto ultimo, la cuspide incuneata tra il passato e il presente caselliano è data dal primo Ricercare, quello sul nome di Bach, che non poteva che rimandare all’inizio del tutto, ossia il sommo Kantor, attualizzato attraverso una scrittura falsamente laconica, fredda, distaccata, ma in realtà in cui il suono e la dimensione pianistici tendono a formare una serie ininterrotta di segni timbrici in cui la modernità, il sentore differente e diverso di un’epoca incontra l’ineludibile passato al quale fa riferimento (e non è un caso che quest’opera sia un atto di amore nei confronti della madre scomparsa, ossia colei che diede le prime lezioni di pianoforte al compositore).

E con il trittico “neoclassico” (nell’accezione alta del termine) dato da Sinfonia, arioso e toccata il nodo di Gordio è ormai sciolto, risolto, con il passato che risorge nelle modalità e nei costumi artistici e stilistici del presente, pagina mirabile, degna di essere a posta a fianco di quelle che hanno fatto la storia della prima metà del Novecento, punto di approdo e, allo stesso tempo, di rimando verso altri arcipelaghi sui quali mettere piede. E in questa registrazione ciò è rappresentato dagli Studi, scritti unendo il pianismo di Chopin con quello di Ravel, ossia cercando un punto di incontro tra il tecnicismo pianistico e la sua inevitabile espressività. Questa è l’ultima pagina che il compositore torinese rende al pianoforte e che lo separa di tre anni dalla morte e i cui risultati fanno riflettere su che cosa avrebbe potuto ulteriormente elaborare la linea dipanata da Casella se non fosse stato costretto dall’ineluttabile scomparsa. Qui, infatti, viene ripreso il sentiero del Primo Ricercare, ampliandolo, scavandolo, smussandolo e aguzzandolo con ulteriori conquiste (Schönberg e il serialismo sono, e non soltanto idealmente, dietro l’angolo) che fanno presagire ulteriori conquiste e che non sembra esagerato accostare alle ricerche fatte in quegli anni dai sentieri weberniani, non tanto nel loro costrutto, ma quanto nell’incontro/scontro tra tecnica ed espressione, tra segno e immagine sonora.

Ora, tornando finalmente al disco in questione, se tanto mi dà tanto, quella promossa da Dario D’Ignazio si annuncia come un’edizione integrale di assoluto riferimento. E questo per un semplicissimo motivo: il giovane pianista pugliese riesce a fare ciò che in diversi hanno tentato senza riuscirci, ossia rispettare e rendere timbricamente manifesto quel concetto di segno del quale ho fatto riferimento sopra, un segno che si traduce, nella scansione dei tre periodi pianistici di Casella, in vari modi e con differenti peculiarità. Se le opere del primo periodo appartengono a una dimensione votata a evocare più che ad enunciare la linea pianistica di una certa classicità (il fatto di denominare i tempi e i pezzi con termini appartenenti alla letteratura tastieristica del Barocco non è un vezzo, ma un preciso richiamo stilistico), D’Ignazio ne restituisce la fluidità con un fraseggio che definire marcato non deve rimandare all’idea di un eccesso, di un’esagerazione, di un fraintendimento, ma ad una continuità proiettata sulle opere che verranno. Un fraseggio che mette in rilievo, dunque, quella scansione ritmica che rappresenta il collagene nutritivo con il quale si compatta il materiale armonico espresso dall’autore, la chiave di volta per comprendere la fase in progress che sta plasmando in quegli anni, quel sentore ibrido che necessariamente Casella imprime a un pianismo che è figlio di Debussy, di Ravel (amato e odiato come nessun altro!), di Fauré soprattutto, ma senza dimenticare quei principi che riconducono alla disciplina di un Frescobaldi così meravigliosamente musicale nella sua ritmicità.

E poi il segno, sempre in D’Ignazio, si manifesta nella serie dei ritratti, in cui riesce a restare in equilibrio, resistendo alla forza di gravità data dallo stile altrui, quindi non calcando sulla dimensione affettiva e d’ammirazione alla quale si richiamava l’autore, e all’apposto su una poco plausibile ricerca iperpersonale e accentratrice dello stesso Casella, che avrebbe potuto prendere a prestito questi ritratti per enunciare qualcosa d’altro. Il pianista pugliese, invece, prende i pennelli della tastiera e fa semplicemente quello che deve fare, ossia dipingere un ritratto altrui firmandolo Alfredo Casella. Facile a dirsi, difficile a farlo.

E le pagine della maturità, poi, quelle che vanno appunto dal Primo Ricercare fino ai Sei Studi, in cui il segno, quello definito da una piena tracciabilità dell’eloquio che si fissa perentoriamente in un costrutto trasfigurante (mai dimenticare la lezione pittorica così presente nel “collezionista di quadri” Casella, a cominciare da quelli dell’amico e confidente Carlo Carrà), in cui la descrizione, la raffigurazione divengono ormai incisione (D’Ignazio rende timbricamente il Primo Ricercare e il Trittico op. 59 un bassorilievo inscalfibile dal tempo, rendendo chiaro il fatto di una sua suprema immedesimazione dell’arte caselliana). Un disco per tutti e per nessuno, dunque, che dev’essere ascoltato attentamente, assimilato con pazienza, come si deve fare con ogni classico che si rispetti, in previsione degli ascolti scaturiti dalle prossime registrazioni che verranno, e mi auguro sinceramente tali, altrettanto entusiasmanti ed emozionanti.

Ottima la presa del suono, con una dinamica che permette di visualizzare il pianoforte al centro del palcoscenico sonoro, leggermente avanzato. L’equilibrio tonale non presenta imperfezioni e per ciò che riguarda il dettaglio, lo strumento viene reso materico (peccato che l’ultima traccia, il Ricercare, presenti un leggero fruscio, assente nelle altre tracce, che si rende più manifesto ad un ascolto in cuffia).

Andrea Bedetti

 

Alfredo Casella – Complete Piano Works Vol. 1

Dario D’Ignazio (pianoforte)

CD Da Vinci Classics C00113

Giudizio artistico 5/5

Giudizio tecnico 4/5